Il Dàodéjīng, il classico cinese alla base della filosofia daoista, comincia con questa frase: “il Dào di cui è possibile parlare non è l’eterno Dào”.
Ho l’impressione che per il wabi sabi si tratti di qualcosa di simile. L’occhio attento lo nota subito, il cuore sensibile lo avverte senza problemi, ma tradurlo in parole è un’altra faccenda.
Si potrebbe cominciare col dire che il wabi sabi è la maturità dell’estetica giapponese. All’inizio troviamo il mono no aware, con la sua insistenza sul senso di compassione rispetto all’inevitabile mutare delle cose. Per capirci, è ciò che rende bello il fiore di ciliegio: non è né la forma del fiore né il colore del fiore, ma il fatto che l’albero fiorisca con tutte le sue forze, senza il minimo rimpianto, per poi perdere tutti i fiori nel giro di pochi giorni.
Di seguito c’è lo yūgen, il senso misterioso di essere al cospetto di qualcosa di profondo, inspiegabile, insondabile. Quello che si sente da soli nel bosco di fronte a una montagna avvolta dalle nuvole, o quando si visita un santuario shintō e l’unico suono attorno a sé è lo scrosciare della pioggia. Il mono no aware abita il sentimento dell’essere umano, lo yūgen è invece al confine tra il reale e l’irreale, tra il manifesto e il nascosto.
In diretta antitesi al wabi sabi è il miyabi. È la parte appariscente, colorata, gioiosa, dell’estetica giapponese. Quella dei kimono da ragazza giovane, ad esempio. La visita a un negozio di kimono è un’esperienza che raccomando caldamente almeno una volta nella vita, per vedere fino a che punto è possibile spingere il gusto, la varietà, la complessità delle decorazioni quando la seta incontra la teoria del colore e della forma giapponesi. È relativamente facile da capire per un non-giapponese perché ha molto in comune anche con la nostra estetica. La perfezione, l’esattezza delle proporzioni, i colori vividi e intensi, sono caratteristiche del miyabi.
Il wabi sabi è un miyabi che ha sperimentato l’assenza. La forma non è perfetta, il colore non è squillante, la decorazione non è regolare. È un ideale che ha preso corpo nel mondo della realtà ed è venuto a patti con la natura, che non conosce la perfezione. Così facendo, ha condiviso l’esperienza di tutto ciò che esiste: l’incompletezza, l’imperfezione, il difetto, la transitorietà. Ed è per questo che l’osservatore prova meraviglia di fronte al miyabi, ma quiete e serenità nel wabi sabi.
Okakura Kakuzō, nel suo il Libro del Te’, propone un confronto molto interessante fra il vino e il té. Mentre il vino inebria e ed esalta, portando l’essere umano al di fuori di sé stesso, il té radica l’essere umano nell’immediatezza del presente. Attraverso il té, e l’apoteosi della cultura giapponese che è la cerimonia del té, l’essere umano sperimenta comunione con la propria natura. Il cibo ha il sapore che ha in origine, il té non è zuccherato, gli utensili sono di bambù senza decorazioni, i colori della stanza sono spenti senza essere smorti, l’architettura è disadorna senza essere sciatta. La cerimonia del té diventa lo specchio della realtà dell’esistenza. Tutto ciò che è superfluo viene meticolosamente eliminato, tutto ciò che è complesso viene semplificato al massimo senza tradirne la natura. Tutto viene preordinato, dal numero di passi ai gesti delle mani, ma all’interno di queste regole è il singolo essere umano che manifesta veramente se stesso.
Poiché è stata concepita come incarnazione della cultura giapponese, la cerimonia del té obbedisce alle sue regole. Nella cultura giapponese, specie quella dei guerrieri bushi, un uomo è solo unicamente al cospetto della propria morte. In ogni altro momento, egli è parte di una rete di relazioni, di un intreccio di rapporti umani, delle virtù e della struttura gerarchica che ne sono il presupposto. Nella cerimonia del té si usano determinate parole, si servono determinati dolci, si utilizzano determinati utensili, a seconda della stagione e dell’occasione. Quello che non cambia è che si deve essere almeno in due. Non si può farla per se stessi. È necessario che vi sia la presenza di almeno un’altra persona. È la manifestazione concreta del concetto espresso dal carattere 仁, “humanitas”, una virtù che può essere dimostrata solo in presenza di un altro essere umano.