Intanto incominciò a farsi notte
e Pinocchio ricordandosi che non
aveva mangiato nulla sentì un
uggiolina allo stomaco.
Pinocchio prova per la prima volta la fame mentre viene notte. Per le cosmogonie orfiche, pelagiche e neoplatoniche Notte e Penìa (povertà, mancanza) sono all’origine della genesi del cosmo dal cui caos iniziale sorge l’Uovo e da esso Eros-Phanes protogeno cioè Pinocchio che appare nella misera, vuota e caotica dimora ombrosa di Geppetto. Una dimora piena di spazzatura, sul cui cumulo appare non a caso un uovo, dove si aggira un gatto e dove la luce è fioca e viene dall’alto essendo questa casa posta in un sottoscala. Preso l’uovo il guscio si rompe e il pulcino vola via. Pinocchio resta con i due gusci in mano, come ad evocare l’unità originaria dei Dioscuri, spezzata irreparabilmente.
La vita prorompente di Pinocchio trabocca fame e una fame esistenziale, abissale, primordiale. Una fame che si aggira dentro il “nulla”, un “grande nulla”. Pinocchio ci mette poco a conoscere e analizzare il mondo paterno tanto è informe e inconsistente. L’eroe non trattiene la fame ma la casa delle origini non trattiene l’eroe. È la fame che agisce scuotendo l’eroe di legno che dopo aver setacciato con dovizia il vuoto deserto di Geppetto, simile del tutto alla miseria di Mastro Ciliegia, superato il trauma del mondo come finzione nella pentola dipinta con il suo fuoco sul muro ora prende il coraggio di uscire a cercare del pane. Troverà invece un diluvio di acqua, vento e fulmini: il kaos delle origini appunto. Questo mescolamento degli elementi (una nottataccia d’inferno, il paese dei morti) ricorda il diluvio cosmico descritto da Nonno di Panopoli nelle sue Dionisiache in relazione al primo apparire di Dioniso nella sua arca.
Un Dioniso-Noè simile a questo ibrido e strano essere pinocchiesco che vaga da solo nella tempesta totale. È quindi la fame delle origini, una fame cosmica che lo porta nella prima esperienza della morte e della solitudine fino al bruciarsi dei piedi in un camino che non sappiamo come ma appare all’improvviso acceso. Il ritorno di Geppetto viene accompagnato dal ritorno del cibo che nel racconto appare sempre associato al tema del sacrificio. Il demiurgo buono si sacrifica e dona le tre pere al suo figlioccio. Il processo sacrificale pinocchiesco passa per l’acqua e il fuoco per poi evocare anche il segno metallico: i quattrini necessari per l’abbecedario.
Al centro sempre il motore del sacrificio: Geppetto rinuncia alla sua casacca per comprare il libro ma l’eroe di legno possiede già la sua lingua: la musica e la seguirà verso il Teatro del mondo sacrificando il sacrificio paterno per riottenere quel segno metallico, i quattro soldi, che gli permetteranno di entrare a nutrirsi dello spettacolo del mondo. Non a caso ecco ancora il segno del fuoco: la “febbre” della curiosità che lo divora all’entrate del retromondo di Mangiafoco (ed ecco il tema della nutrizione sempre presente) e l’immagine del montone che deve rosolarsi quale segno del sacrificio che regge il Teatro-mondo. Mangiafoco divora letteralmente il fuoco, cioè si nutre del sacrificio dei burattini e sul fuoco-sacrificio regge il suo mondo nomade e liminale. Ancora una volta come prima nella tempesta Pinocchio passa attraverso la morte, il rischio del fuoco e il pianto (l’acqua) per rigenerare l’oro con il valore del cuore e del sacrificio (offerta a pro di Arlecchino).
Dalla rispondenza della compassione di Mangiafoco ecco sorgere i cinque zecchini aurei destinati a Geppetto. Mangiafoco si sacrifica come Pinocchio: rinuncia a più fuoco e a più legna e mangia il montone mezzo crudo. La parte cruda è Pinocchio ancora vivo. La notte appare illuminata dalla festa burattinesca per Pinocchio-Phanes mentre Mangiafoco dorme, per una notte innocuo come un bambino. L’oro è l’oro del cuore ma anche della libertà, con i suoi rischi. La Volpe attrae Pinocchio evocando Geppetto, a cui spettano gli zecchini e questo è il punto debole dell’eroe: il suo demiurgo e la volontà di renderlo tutto oro e argento, di colmarne il vuoto, la miseria che sono immagini del nulla originario.
Il pane e il vino sognati da Geppetto che si desidera girovago corrispondono all’argento e all’oro desiderati da Pinocchio. Il tema del cuore e del sacrificio connette sempre ciclicamente e processualmente l’immagine del nutrimento con quella del metallo, del denaro. Non è un caso che la proiezione fantastica con cui la Volpe seduce la mente pinocchiesca accosti l’oro all’immagine del grano. Il tempo aionico e pieno di Saturno, a cui l’eroe vuole sempre tornare. Tutto questo “fiume semantico” riemerge carsicamente al momento dell’arrivo alla serotina e cupa Osteria del gambero rosso la cui insegna è rossa come quella del Teatro di Mangiafoco.
Anche qui abbiamo i quattro fattori intimamente vicini: il nutrimento, il sacrificio (Pinocchio quale vittima sacrificale), l’oro e il fuoco che cuoce i cibi. Pinocchio si salva perché si nutre del suo sognare, si satura del ricordo della miseria di Geppetto da risolvere e non si nutre del cibo di quella cena di morte dove la fame violenta del Gatto e della Volpe si scatena, insaziabile. La sua fame spirituale vince la fame carnale. Sogna il suono aureo degli zecchini. Ancora una volta la musica e il cuore. Mentre corre nel bosco notturno e buissimo inseguito dagli Assassini ecco ricomporsi la processualità sopra indicata: il fuoco (appiccato al pino sopra il quale è salito), l’acqua dei fossi saltati e il suono degli zecchini che tintinnano sotto la lingua del burattino che corre.
Il tema del nutrimento compare continuamente: nella carrozza della Fata foderata all’interno di panna montata e di crema con i savoiardi, nella Fata che gli dà due palline di zucchero, nel sale seminato nel Campo dei miracoli (come fa Odisseo nel suo strano rito per fingersi folle e non andare a Troia), nel fantasticare del burattino mentre aspetta il crescere dell’albero degli zecchini (una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panattoni, di mandorlati…), nel Pappagallo che lo canzone dicendogli di essere dolce di sale ed evocando l’immagine dei fagioli e delle zucche. Anche dalla Fata il nutrimento non è mai lontano dalla dimensione del sacrificio e della morte in quanto le due palline di zucchero servono per invogliarlo a prendere la medicina amara, pena un’imminente morte e la stessa polverina bianca prodigiosa che la Fata scioglie nell’acqua rendendola amara gli funge anche da nutrimento in quanto gli ridona una salute piena di forza e vitalità.
E l’allungarsi del naso appare nel profondo più connesso con l’oro degli zecchini e con la sua vitalità originaria (si allunga da solo appena Geppetto lo sta plasmando) che con la sovrastruttura morale della bugia. È ancora la fame che lo spinge in nuove disavventure quando si attarda fuori dalla strada nella vigna per prendere due grappoli di uva moscatella e finisce preso nel duro ferro della tagliola che gli fa vedere le stelle (siderum/sidera) e quindi finisce a prendere il posto del cane Melampo, altro rinvio a Dioniso. “Prendere il posto” è sempre indice di un sacrificio, di un rito necessariamente da attraversare. Ancora nella cuccia cagnesca lo tormenta la fame che eroicamente vincerà non accogliendo la promessa delle faine di un bel pollastro in omaggio fino ad accontentarsi del divorare le vecce di cui si nutre l’amico Colombo fatato.
Cibo di volatile ma non cibo di cane e faine. Pinocchio punta istintivamente sempre in alto qualsiasi esperienza percorra, anche le più infime e misere. Stupenda la sua domanda al Delfino una volta naufragato all’Isola delle api (evocazione del miele della sapienza): mi farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare senza pericolo d’essere mangiati? La fame continua a tormentarlo anche nell’Isola della Fata e sarà appunto la fame che gli permetterà di seguire la sua misteriosa donnina con due brocche d’acqua (sembra un segno zodiacale) che gli promette cavolfiore condito con olio e aceto e un confetto di rosolio! Ed è proprio mentre si sfama che Pinocchio riconosce l’apparire epifanico della Fata in forma di Madre e Maestra. Doppio nutrimento.
La sapienza quale termine gastronomico, nutrizionale; da: sapore. La paura evocata dal burattino nel rischio dell’essere mangiati si realizza quasi del tutto di fronte all’ottuso Pescatore verde, che abita un antro cavernoso che ricorda la casa di Geppetto nel suo caos degli elementi: fumo, fuoco e umidità. Anche qui la connessione sacrificale della natura dell’eroe riemerge con forza e ancora una volta è il coraggio e altruismo pinocchiesco che lo salva, avendo lui prima salvato dalle acque il cane Alidoro. È sempre una questione di elementi. Lo spirito vegetale pinocchiesco ritorna con il sacco di lupini che veste mentre cerca di tornare a casa della Fata e di fronte alla porta chiusa la Lumaca porterà allo sfinito burattino del cibo finto: pane di gesso, pollo di cartone e quattro albicocche di alabastro. Anche la successiva promessa della Fata dell’imminente trasformazione in ragazzo del nostro eroe non a caso di accompagna con una segnaletica trionfale di tipo nutrizionale: duecento tazze di caffe e latte e quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra. Il ritorno del tema dell’età dell’oro. Ai panini doppiamente imburrati Pinocchio preferirà l’untuoso Omino di burro dalla fisionomia tutto latte e miele che lo porterà a cibarsi di stordimento nel Paese dei Balocchi.
Il cibo ancora accompagna le sue trasformazioni ontiche nel segno del fieno e della paglia che si adatta a mangiare mentre è regredito ad asinello e ogni volta che si trasforma sacrificalmente ecco tornare anche la segnaletica metallica nei venti soldi con cui è comprato per farne pelle da tamburo. All’inizio aveva seguito il suono del dionisiaco tamburo per incontrare il Teatro, il mondo come finzione, e aveva sacrificato quattro soldi ora è lui stesso la merce-vittima e viene stimato venti soldi; cinque volte di più di un abbecedario nuovo! Un segno di crescita! Il denaro continua a moltiplicarsi sotto il motore del cuore e del sacrificio che generano il valore e sembrano quindi esprimere a loro modo quella vitalità fantasticamente contrabbandata dal Gatto e dalla Volpe. Pinocchio sarà divorato dai pesci nella sua scorza asinina e bevuto come un uovo di gallina dal Pescecane e troverà nel suo buio ventre un Geppetto abbruttito che divora pesciolini crudi! La vita quale ciclo di continui inghiottimenti reciproci.
Non a caso il burattino nella sua prima domanda che formula a Geppetto gli chiede come abbia fatto a sopravvivere dentro il ventre del mostro marino e lui gli risponde elencando i cibi in scatola trovati in un veliero inghiottito dal mostro. Anche nel ciclo trasformativo finale ritornano con forza i fattori simbolici strutturali: la febbre di Geppetto (segno di fuoco), la sua esigenza di latte giornaliero (come un bambino), il duro lavoro pinocchiesco del tirare su cento secchie di acqua al giorno, il tema del costo economico di Lucignolo asino e il sugo di more e di ciliegie con cui Pinocchio scrive nei suoi esercizi notturni. Il cibo ora è dominato dal nostro eroe e diventa persino suo linguaggio, suo inchiostro, materia plasmabile.
E se opera il cuore e il sacrificio (del lavoro) ecco il ritorno del segno metallico: i quaranta soldi conquistati da Pinocchio e che regalerà alla Lumaca per la Fata compiendo ora lui quel sacrificio che all’inizio fece Geppetto a suo favore. Denaro che serviva per un nuovo abito, cioè per sancire la nuova dignità esistenziale dell’eroe-demiurgo. Il segno del trionfo trasformativo finale sarà un altro dono della Fata e non a caso sarà un dono metallico: quaranta zecchini aurei fior di conio in un cofanetto d’avorio. Il rame che si muta in oro. La Fata conosce il segreto dell’arte alchemica. Cuore e oro sposati definitivamente. Là in un angolo, immoto, il vecchio Pinocchio di legno guardato con un sorriso dal nuovo Pinocchio. La libertà del vedersi dal di fuori fino ad espellere la vecchia pelle come un serpente con la sua muta.