All’inizio dell’anno 49 a.C., tra il 10 ed il 12 Gennaio, Cesare (Gaio Giulio, 100-44 a.C.), condottiero ormai cinquantenne, dopo l’epica conquista dell’intera Gallia Transalpina, dal Reno ai Pirenei, si apprestava ad oltrepassare il simbolico confine del Rubicone, il corso d’acqua (dell’attuale Romagna, nel territorio di Forlì-Cesena) che separava la Gallia Cisalpina dalla terra Italia, ovverosia la provincia all’epoca governata dallo stesso Cesare e l’Ager romanus dell’Italia sub-appeninica che da circa quarant’anni godeva della cittadinanza romana; nel fare ciò, egli sfidava l’ultimatum ricevuto, che richiedeva di congedare le truppe, ed infrangeva il divieto di condurre eserciti oltre il limite del “pomerio” e di varcarlo in armi senza autorizzazione del Senato, il consesso di ex Magistrati che regolava la politica estera di Roma.
Alla testa di una sola legione (la legio XIII), o forse addirittura di mezza legione (5 sole coorti per un totale di circa 2.500 uomini), Cesare attraversava il fiume Rubicone, ben sapendo di violare il sacro limite di confine del pomerium e di andare incontro, di conseguenza, ad una nuova guerra, un bellum civile, un conflitto interno tra Romani, la cosiddetta Guerra civile, che proseguì fino al 45 a.C. (battaglia di Munda in Spagna), anno della definitiva sconfitta dei seguaci di Pompeo, il quale già nel 48 a.C., dopo aver perso in Grecia la battaglia di Farsalo, era fuggito in Egitto e qui aveva trovato la morte, ucciso a tradimento.
In occasione del passaggio del Rubicone, Cesare pronunciò la celebre frase “il dado è tratto” (iacta alea est) che, tuttavia, secondo una diversa interpretazione degli studiosi, dovrebbe essere intesa nella più corretta versione “si getti il dado”, espressione tipica di chi, nel gioco o nella vita, si appresta a sfidare la sorte: infatti, mentre la prima traduzione, invalsa nell’uso collettivo, evidenzia l’irreversibilità della decisione cesariana, la seconda sembra molto più consona al clima d’incertezza, e letteralmente di “aleatorietà”, che accompagnò la medesima decisione, clima palpabile nelle principali fonti storiche; ad esempio, secondo Plutarco (Cesare, 32,8), la famosa locuzione sarebbe stata pronunciata in greco, anerríphtho kúbos, il cui significato originario “si getti il dado”, probabilmente, è stato poi volgarizzato in epoca moderna nella versione più conosciuta.
Per poter sostenere le ingenti spese militari correlate all’arruolamento ed approvvigionamento di altre legioni, necessarie alla gestione delle successive campagne di guerra, Cesare rientrò a Roma alla fine del mese di Marzo (o, al più tardi, entro il primo del mese di Aprile) dello stesso anno 49 a.C., accompagnato da un ampio seguito di “littori” - gli ausiliari dei Magistrati, in numero di ventiquattro, portatori dei fasces, fasci di verghe legati da stringhe di cuoio, simbolo dell’imperium (potere ed autorità) -, e da un reparto di soldati che, dopo aver marciato risolutamente lungo le vie del Foro, si fermarono a presidiare il Tempio di Saturno, che era anche sede dell’”Erario”, Cassa di deposito del Tesoro statale.
Roma era stata già abbandonata precipitosamente dalla fazione tradizionalista e conservatrice, rappresentata da circa la metà del Senato e dai sostenitori di Gneo Pompeo “Magno” il quale, già il 17 Gennaio, aveva dato un ordine di evacuazione, certamente sconvolgente agli occhi dell’opinione pubblica, in quanto inatteso e contrario alla tradizione del popolo romano che, nella sua secolare storia, aveva sempre difeso l’Urbe da nemici esterni ed interni; lo stesso Cesare scrive: «I consoli, atto sino ad allora inaudito, lasciano la città, e privati cittadini hanno littori in Roma e sul Campidoglio, violando tutte le antiche tradizioni. Si fa una leva in tutta Italia, si ordinano armi, si riscuote denaro dai municipia o lo si strappa dai templi, tutte le leggi divine e umane sono sconvolte» (Guerra civile, 1, 6, 7-8).
Era presente in quel momento il giovane Tribuno della Plebe Metello (Lucio Cecilio), il quale, resosi conto dell’imminente pericolo ai danni delle finanze pubbliche custodite nell’Erario, tentò coraggiosamente di opporre resistenza a Cesare, confidando anche nell’inviolabilità della carica rivestita; lo storico greco Plutarco (46-127 circa d.C.), nella sua opera Vite parallele (cfr. Cesare, 35, 4-11), racconta quanto accadde nella circostanza:
Quando il tribuno Metello cercò d’impedirgli di prendere denaro dalle riserve dello Stato, citando alcune leggi che vietavano a chiunque di toccarlo, egli rispose che il tempo delle armi è diverso dal tempo delle leggi. (…). Ciò disse a Metello e s’incamminò verso le porte del Tesoro. Ma non si trovavano le chiavi. Mandò a cercare dei fabbri a cui ordinò di spezzare i battenti. Ancora una volta Metello s’interpose (…); Cesare alzò la voce e minacciò di ucciderlo sul posto (…).
Esaurito il vano tentativo del valoroso Metello, il quale si ritirò impaurito dalle parole di Cesare, quest’ultimo fece irruzione nei sotterranei del Santuario, che custodivano le riserve valutarie, e prelevò con un colpo di mano 15.000 lingotti d’oro, 30.000 lingotti d’argento e 30 milioni di sesterzi in metallo monetato (pari a circa 30 tonnellate d’argento), cifre ricordate da Plinio “il Vecchio” (23 d.C.-79 d.C.) nella sua opera (cfr. Storia Naturale, 19,40; 33,56); un’altra fonte storica (Orosio, IV-V secolo d.C., cfr. Storie contro i pagani, 4,6, 6,15) ci informa che furono ricavate 4.135 libbre d’oro e circa 900.000 d’argento e, pertanto, il taglio di ciascun lingotto aureo era pari ad un peso di circa ¼ di libbra (circa 80 grammi di metallo), mentre ciascun lingotto d’argento pesava circa 30 libbre (circa 10 chili di metallo).
Il sesterzio, in epoca repubblicana, era la frazione più piccola del denario d’argento, pari ad ¼ di quest’ultimo e corrispondente a 2,5 assi di bronzo (da cui il segno di valore IIS impresso sulla moneta); aveva il peso di circa 1 grammo e, pertanto, tenuto conto che una libra romana (“libbra”, unità di peso) equivaleva a circa 327 grammi di metallo, le monete prelevate forzosamente dalle casse dell’Erario ammontavano a circa 92.000 libbre; in epoca imperiale, il sesterzio non fu più coniato in argento ma fu emesso in oricalco (lega di rame e zinco, simile al moderno ottone) diventando una moneta di più ampio modulo, comunemente detta anche “grande bronzo”.
Cesare, inoltre, si impossessò altresì di 1.500 libbre (circa 491 chili) di laserpicium, il succo condensato del silphion, il silfio cirenaico, una pianta medicinale pregiatissima; i depositi dell’Erario contenevano, infatti, anche molti altri beni e documenti ritenuti degni di una rigida sorveglianza statale, quali, ad esempio, oltre al citato medicamento considerato di eccezionale virtù terapeutica, le insegne militari delle legioni, i contratti pubblici, i rendiconti delle entrate e delle uscite della tesoreria pubblica, nonché l’archivio di altri documenti di carattere non finanziario (ad esempio, i protocolli ed i risultati delle elezioni).
Il Tempio di Saturno, fondato intorno al 498 a.C., custodiva tradizionalmente nei suoi locali il Tesoro della comunità romana, pertanto detto Aerarium Saturni, “Erario di Saturno” che, derivato dalla voce aes, rame, bronzo, era inteso come “edificio del rame”, con riferimento al luogo adibito fin dall’antichità alla custodia delle casse statali; in progresso di tempo, l’originaria moneta bronzea, che rappresentava la prima esperienza di denaro in forma metallica, fu affiancata e sostituita dalla più preziosa moneta argentea ed aurea, seguendo il modello ellenico, ma fu comunque conservata l’antica denominazione di Erario.
La Cassa pubblica erariale era alimentata da tutte le rendite statali: le entrate principali erano i proventi derivanti dalle locationes (contratti di affitto di immobili pubblici e contratti di appalto delle imposte), dai tributi, dalle ammende, dai contributi di guerra e dalle eccedenze dell’amministrazione provinciale; con il passaggio dalla Res publica al Principato, nell’ambito della riorganizzazione politico-amministrativa a cura di Augusto, fu istituita una seconda Cassa, il Fiscus Caesaris, il “Fisco” inteso come patrimonio straordinario del Princeps e cassa inizialmente “privata” dell’Imperatore, che assorbì progressivamente le entrate pubbliche più rilevanti del Tesoro statale, subentrando così all’Erario che, invece, decadde ad arca publica, “cassa municipale” di minore importanza.
Secondo il racconto di un altro storico greco, Appiano (95 d.C.-165 d.C., cfr. Guerre civili, 2, 160-167), il cosiddetto Aerarium sanctius, l’”Erario più inviolabile”, ovverosia la sezione del Tempio di Saturno che custodiva le riserve metalliche del Tesoro, era stato depositato al tempo dei Galli con il vincolo pubblico e sacro che impediva che venisse intaccato per nessun motivo, esclusa una guerra incombente contro i Galli: al riguardo, Cesare sosteneva di aver sciolto il vincolo, poiché aveva vinto i Galli per garantire a Roma un’assoluta tranquillità.