Uscito nel 2007 in prima edizione, D’Annunzio e la malinconia torna in veste nuova, per Casa Editrice Carabba. Il volume dona una visione del Poeta più vera e aderente, rispetto alla stantia vulgata dell’invincibile superuomo. Cliché lungamente combattuto dallo studioso Gianni Oliva, all’interno dei suoi scritti dedicati a Gabriele d’Annunzio, come ha modo di illustrare nella nostra intervista, facendo luce sul genio malinconico del Vate.
Partirei, innanzitutto, col chiederle i motivi di una riedizione di "D’Annunzio e la malinconia".
La prima edizione del mio "D’Annunzio e la malinconia", uscita nel 2007, si esaurì fortunatamente in breve tempo, forse perché proponeva un D’Annunzio diverso e poco sospettabile. La mia casa editrice, però, la Bruno Mondadori, non fu sollecita nel ristamparla, anche perché il suo marchio stava per essere ceduto a una multinazionale finlandese (la Sanoma) che si occupa solo di libri per l’infanzia. Da più parti richiesto e indisponibile, ho ottenuto quindi una liberatoria. Sicché, mi sono rivolto alla Carabba, che ha una lunga tradizione di studi dannunziani, presso cui dirigo alcune collane e sovrintendo alla produzione saggistica.
Lei ha abituato i lettori a punti di vista mai scontati su Gabriele d’Annunzio. Può illustrarci le motivazioni che hanno spinto il Poeta a “odiare il vivere inimitabile” e a considerarlo un mero slogan?
Da anni mi sono battuto insieme ad alcuni studiosi convinti di insistere sul testo dannunziano anziché continuare a occuparsi del personaggio e delle sue gesta. Rileggendo attentamente lo scrittore (che poi è quello che conta) molte cose si chiariscono. D’Annunzio non è solo lo scrittore “orizzontale” che si è voluto far credere, o l’eroe soldato, fiumano e avventuriero su cui insiste una certa visione politica, ma è anche uno scrittore “verticale”, attento alla riflessione e all’interiorità. Di questo passo è egli stesso a riconoscere la sua maschera, indossata per far posto a un personaggio utile alla società di massa che in lui vedeva un modello di vita, tanto più se “inimitabile”. A lungo andare però quel ruolo non era sostenibile neppure per chi lo aveva alimentato. D’Annunzio scopre, dunque, le crepe di un atteggiamento esteriore che rischiava di soffocare i sentimenti più autentici. Di qui il fastidio - che è quasi l’orrore, come scrive - «d’essere stato e di essere Gabriele D’Annunzio». Un vero capovolgimento di fronte.
Come cambia lo spettro della malinconia in D'Annunzio se compariamo il lavoro letterario alla costruzione del Vittoriale e quanto di questo stato d’animo è ancora percepibile dal visitatore?
Tale sentimento in D’Annunzio è sempre presente: si accentua nella vecchiaia, com’è scontato, ma compare anche nella giovinezza, nei chiaroscuri del Canto Novo e in tutti i romanzi, i cui protagonisti non sono superuomini, ma vittime di loro stessi, anzi vinti dal destino e dal loro essere malati di volontà.
Il visitatore del Vittoriale dovrebbe osservare con maggiore attenzione quel mausoleo di gloria, che si sarebbe dovuto forse intitolare non il Vittoriale ma «Lo Sconflittuale», perché la vita, nonostante le apparenze, termina sempre con una inevitabile sconfitta. E per D’Annunzio l’esistenza è un accidentato cammino verso il nulla. La malinconia è dunque il «male oscuro» su cui indagare perché è la sostanza di una vita «senza mutamento», che ha un solo volto.
La «malinconia» in lui regna sovrana, ma bisogna intendersi. Che cosa si intende per malinconia? Di certo non va confusa con la tristezza, che è passeggera, né con quella sorta di dormiveglia o di reverie tra nostalgia e ricordo a cui spesso ci si abbandona. La malinconia è qualcosa di più profondo, è un sentimento innestato nell’indole profonda della persona. Trascrivo dal mio libro: «La malinconia è l’insoddisfazione di come va il mondo, la coscienza della sua imperfezione, la reazione amara, tra il riso e il pianto, dinanzi all’impossibilità di realizzare l’umana aspirazione all’eterno». Si tratta dunque di un sentimento complesso e profondo che si nutre del contrasto tra l’aspirazione del pensiero all’infinito e la delusione per la finitezza del corpo.
Sappiamo quando la malattia e l’immobilità siano state tramutate in strumenti di conoscenza dal Poeta, soprattutto nelle pagine del Notturno. Possiamo dire altrettanto della malinconia in altre opere?
Il Notturno non indica solo il passaggio dalla solarità alla penombra (o all’ombra), come sosteneva una vecchia critica idealista, ma è un’ulteriore dimostrazione di quanto sia importante il ripiegamento interiore, la meditazione, l’attenzione per le cose («tutto parla all’attenzione», «tutto è segno per chi sa leggere»). Quell’opera è un’ulteriore tappa della scrittura dell’io, la sola possibile in D’Annunzio, sia che egli si travesta nei suoi personaggi, sia che si esprima, come preferirà fare da un certo momento in poi, in una sorta di scrittura diaristica, come nelle Faville, nella Contemplazione della morte o nel Libro segreto.
Il mistero e l’inconoscibile, che paiono ancora alla base della sua potenza contemporanea, pensa abbiamo fatto di lui un modernista ante litteram?
Quanto alla modernità di D’Annunzio credo di aver già detto ciò che penso nel mio libro D’Annunzio. Tra le più moderne vicende (Bruno Mondadori, 2017), a cui mi permetto di rinviare per definire le molte corrispondenze tra lo scrittore e il suo tempo. L’attenzione per l’interiorità inoltre lo accomuna a scrittori il cui tasso di modernità è indiscutibile, da Leopardi a Baudelaire. Non dimentichiamo che stiamo parlando di uno scrittore non solo italiano ma europeo, amato da Proust, da Gide, da Hoffmanstal, da Hemingway, per citarne alcuni.