Per ragioni di pratica e di studio, ho spesso a che fare con uno degli esempi più eclatanti del fraintendimento culturale con il Giappone: la parola bushidō.
Quando cerco di illustrare con un esempio concreto cosa significhi fraintendere il Giappone, solitamente faccio ricordo al romanzo e al film Memorie di una geisha. Il primo è passabile, a condizione che il lettore sia informato che si tratta di una storia di fantasia liberamente ispirata a una professione realmente esistente. Il lungometraggio è un disastro sotto ogni punto di vista. Quando uscì, il regista Rob Marshall si difese sostenendo che avevano cercato di fare “un film espressionista”, ma la realtà è più semplice: nessuno degli sceneggiatori si è preso la briga di cercare di capire di che cosa si trattava, e ne è uscita la solita storia con l’eroina hollywoodiana che supera quasi da sola tutte le avversità e alla fine si sposa con l’uomo che ama fin da bambina.
Un elemento su tutti: la storia si svolge a Kyōto. Nessuno dice geisha, a Kyōto. Si dice geiko, nel caso di una professionista che ha completato l’apprendistato, oppure maiko, nel caso di una persona ancora impegnata nel corso di studi.
Del cast principale, solo gli attori sono giapponesi. E sono anche due ottimi attori, per inciso: Watanabe Ken, che dopo L’ultimo samurai è diventato l’attore giapponese per eccellenza a Hollywood, e Yakusho Koji, ora celebre grazie al successo di Perfect Days. Le attrici sono state scelte puramente perché si trattava di nomi già noti al pubblico occidentale: Gong Li nel ruolo della perfida geisha cattiva, perché era famosa grazie a Lanterne rosse e Addio mia concubina. Michelle Yeoh nel ruolo di Mameha, famosa grazie a 007 e a La tigre e il dragone, e Zhang Ziyi come la protagonista Sayuri, famosa anch’essa per La tigre e il dragone.
A parte i problemi inevitabili di pronuncia e intonazione per le parole giapponesi, due elementi stridono in maniera estrema: 1) la fisicità delle attrici non giapponesi, che non essendo abituate a muoversi come le giapponesi figurano come straniere in kimono. 2) la mancanza di consapevolezza rispetto all’estetica che ruota attorno alle persone e all’azione della geisha.
Il momento peggiore è la scena del debutto di Sayuri sul palco, evento che segna il suo ingresso nel novero delle geiko a pieno titolo. La danza classica giapponese è fatta di controllo. Movimenti delle mani, della testa, dei piedi. Il kimono non permette una libertà di movimento tale da consentire azioni esplosive o violente. Sayuri compare con un paio di zatteroni improbabili ai piedi, e senza calze. Non c’è un solo momento della vita culturale del Giappone tradizionale in cui un artista, quale che sia, sale sul palco senza le calze tabi ai piedi. Ci ritroviamo con Zhang Ziyi trasformata in una maschera dall’espressione delirante e spiritata, i capelli scarmigliati, che dopo un breve momento introduttivo si lancia in una serie di movimenti sgraziati e senza significato, per poi buttarsi per terra.
Pensando ai miei anni da studente di danza classica giapponese, a come ogni movimento si leghi al precedente e al successivo per raccontare una storia in combinazione con la musica e la voce che canta l’accompagnamento, rimango ogni volta simultaneamente scioccato e deluso. La danza giapponese classica possiede una bellezza e una grazia in grado di mozzare il fiato. Perché ridurre tutto a un’esibizione buona sì e no per il teatro contemporaneo?
Dulcis in fundo: Arthur Golden, l’autore del romanzo, affermò di essersi avvalso delle conversazioni con Iwasaki Mineko, una delle più importanti geiko della sua epoca, per raccogliere il materiale necessario alla stesura del libro. Iwasaki Mineko, pochi anni dopo, scriverà la propria versione, chiamata semplicemente Geisha: a life (in italiano: Storia proibita di una geisha, a ulteriore riprova che l’importante è buttarla sull’esotico purché il libro venda), raccontando tutt’altro rispetto al mondo di tradimenti, gelosie e malvagità in cui si muovono i personaggi di Memorie di una geisha.
Lo stesso identico fenomeno si manifesta regolarmente nel campo delle arti marziali per quanto riguarda il bushidō.
Partiamo dalle basi: il bushidō, o Codice dei samurai, o Libro segreto dei samurai, o altra definizione che dir si voglia, non esiste.
Il termine compare nel libro Hagakure di Yamamoto no Tsunetomo nel 1600, un periodo in cui il Giappone è unificato, le guerre si sono concluse, e la classe dei bushi si ritrova privata della propria ragione d’essere. O così sarebbe, se il bushi avesse il solo scopo di combattere e morire, che è l’idea del samurai che ci arriva un po’ dalla propaganda durante la guerra, un po’ dalle successive rielaborazioni del tema, un po’ da Tsunetomo stesso. “Ho trovato che la via del bushi è morire”. Peccato che, come rilevò Mishima Yukio in una celebre intervista, l’autore di Hagakure, con tutto il suo parlare di morire subito, immediatamente, non appena se ne ha l’occasione, sia morto di vecchiaia sdraiato sui tatami della sua abitazione.
Yamamoto no Tsunetomo scrive Hagakure nel momento in cui la classe dei bushi comincia a decadere e il loro stile di vita è negato dalla realtà della pace imposta dai Tokugawa. Prima era inutile, perché il periodo di continua instabilità precedente proiettava il bushi esattamente nella dimensione di cui Yamamoto vagheggia, senza mai averla vissuta: la possibilità presente e costante di essere ucciso in battaglia in qualsiasi momento.
Questa, tuttavia, è solo metà della storia, e non la metà più importante. Fa più breccia, più presa sulla fantasia dell’osservatore esterno, ma un attimo di riflessione basta a metterla in crisi: in tempo di guerra guerrieri muoiono, ma se tutti muoiono alla prima occasione, chi resta per combattere? E in tempo di pace, come funziona?
Quasi contemporaneamente a Yamamoto no Tsunetomo, un altro bushi chiamato Yamaga Sokō, scrisse il libro Shidō. La posizione di Yamaga Sokō è la seguente: in tempo di pace, il compito del bushi è essere l’esempio, la manifestazione dell’etica e della virtù, per tutto il resto della popolazione. E per secoli, questa visione, non quella di Yamaga Sokō, è stata quella appresa e praticata dai bushi giapponesi. Ed è grazie alla presenza di questo sostrato culturale che la pratica delle arti marziali può essere investita di una funzione educativa e formativa, cosa che sfugge a coloro che rimangono affezionati all’idea del singolo individuo che ha un colpo di genio e di punto in bianco “inventa” l’arte marziale come educazione dell’individuo.
In Asia, in particolare in Cina e in Giappone, l’aderenza al solco tracciato dai predecessori è più importante dell’iniziativa individuale. “sono il primo a…” è una frase che suona stonata in bocca a un giapponese, per il quale è più importante sottolineare la continuità con la tradizione del passato e la gratitudine per l’eredità ricevuta, piuttosto che mettere l’accento su quanti “soffitti di cristallo” ha rotto, quante “barriere” ha abbattuto.
La realtà è che non è mai esistito un “sussidiario dei samurai”, chiamato bushidō, unico per tutto il Giappone. Esisteva la necessità di vivere e agire in un mondo in cui lo scontro armato era frequente, un mondo in cui l’insegnamento confuciano era la cornice di riferimento per i rapporti interpersonali e il buddhismo era la prospettiva standard per illustrare l’esperienza dell’essere umano in quanto singolo individuo. Naturalmente è più semplice dire “c’era il bushidō”, ma è una semplificazione che non rende giustizia alla complessità della cultura giapponese e porta fuori strada chi volesse avvicinarla.