“La realtà è uno stato della coscienza”, ha scritto sul suo immaginario sepolcro il filosofo Gottfried von Leibniz. Un’intuizione affilata come una lama, che col tempo il linguaggio del popolo ha tradotto in termini più spiccioli: “ognuno la vede a modo proprio”.

Lo stato psicofisico ed emozionale detto “coscienza di sé” è il momento, assai mutevole per la verità, in cui un individuo è presente a sé stesso. Questo comporta più fattori di unificazione, ma ci limitiamo al piano intellettuale che attiene alla personalità.

Che cosa forma la coscienza individuale, e quando si forma? Si può veramente definire coscienza qualcosa che non si basa sull’esperienza diretta? E le opinioni sono davvero espressione della coscienza, o piuttosto il riflesso meccanico di un sapere che il più delle volte non ha radici nel vissuto? L’uomo è capace di essere veramente presente a sé stesso?

Tutte domande legittime, direi quasi indispensabili, per cancellare la lavagna e avventurarsi lungo il terreno minato sotto il controllo del potere mediatico il quale, ad ogni latitudine, ha la funzione di forgiare il pensiero dell’umanità.

Quarto Potere, il film totem di Orson Welles, ricomparso recentemente in una copia restaurata, si addentrava nella vita di un magnate dell’editoria, Citizen Kane, per risalire finalmente a una parola da lui pronunciata in punto di morte. Mentre il mondo che lo circonda non scioglierà mai il mistero, malgrado l’ostinata ricerca di un cronista incaricato di scoprirlo, il film dà allo spettatore la chiave per comprendere il significato delle tre sillabe esalate da Kane prima di spegnersi.

È il ricordo di un momento di grazia, un dettaglio semplice, puro come il gioco favorito del bambino che era stato. Un modo con cui il vecchio Orson vuole dirci che la poesia è più accurata del giornalismo e dei suoi tentativi di ricostruire i fatti.
La carta stampata, però, il terreno di lotta del cittadino Kane adulto e spietato, era a quel tempo lo strumento più potente da offrire all’opinione pubblica (appunto, solo “opinione”) per potersi riferire a una realtà di eventi sconosciuti, farsene un’idea e parlarne con gli altri.

Uscire a comprare il giornale era una pratica abbastanza comune e assai diffusa fino a pochi anni fa. La lettura impegnava una fetta del tempo a disposizione, in compagnia del caffè per quanto mi riguarda, se questo accadeva di mattina presto, o di un’altra bevanda disponibile nell’arco della giornata. La realtà che ogni essere umano si figurava, secondo la propria eredità genetica, l’ambiente, il suo grado d’istruzione, in definitiva le sue circostanze di vita, era anche il risultato di quella lettura. La coscienza e il quadro della realtà conseguente progredivano, per così dire, secondo l’accumularsi di quel bagaglio d’informazioni.

Tutto ciò aveva dei ritmi lenti, una ruminazione e una digestione da erbivori, per quanto si volessero scorrere velocemente le pagine del giornale. Non di rado, nel rituale quotidiano, si poteva incappare negli articoli di signori scrittori, gente capace di affabulare e d’innalzare il livello della lettura fino a raggiungere picchi di sentimento e passione, creando quindi le condizioni perché la coscienza di Sé potesse avvalersi di un secondo elemento, oltre a quello intellettuale, l’emozione. Un arricchimento della realtà percepibile oltre le parole. Certo, un mondo ancora sconosciuto ad una moltitudine di analfabeti che popolavano le zone meno progredite della Terra e che della realtà si facevano un’idea meno diffusa, più inerente al loro limitato campo di azione.

Finché nacque il quinto potere, un ingombrante apparecchio parallelo ai giornali e alla radio, mai dimenticarla, visto che ha più di sette vite. Un potere dotato di un canone ferocissimo, un’arma letale di ultima generazione: l’immagine.

Eccola, la beneamata tv di Canzonissima, per restare in loco, e dopo qualche anno la miracolosa moltiplicazione dei pesci e dei pani, la raffica di canali a disposizione per sparare col telecomando e frustrare sul nascere le aspettative di che ti stava seduto accanto e si era fatto tutto un altro programma della serata. I killer del tubo catodico non sono mai stati arrestati, hanno imperversato, fatto scempio di oneste aspettative senza provare il minimo rimorso. Hanno fagocitato immagini e informazioni con l’avidità dello zapping, sovrapponendo piani della realtà e frammentandoli fino a stordire anche l’ultimo barlume di coscienza. Il traguardo dei cento canali ha gareggiato con la specialità principe dei giochi olimpici, la velocità. Si poteva anche essere analfabeti, ma bastava ammucchiarsi in un bar, oppure all’aperto, davanti alla divina sibilla che impartiva la propria lezione su come va il mondo.

Quinto Potere, il visionario film di Sidney Lumet, certamente uno dei più grandi registi della storia del cinema, complice il fenomenale sceneggiatore Paddy Chayefsky, ha avuto intuizioni che lasciano ancora tracce di sangue.

Basta rivedere la scena in cui Jensen, il grande capo della rete televisiva, convoca Howard Beale, il profeta dell’etere, il predicatore creato ad arte per innalzare lo share, ascoltato al punto di poter ordinare alla gente di affacciarsi alle finestre e di urlare la propria rabbia contro i giochi del potere: “sono stufo. Io non ci sto!”. Se avessero gridato: “andrà tutto bene!” come accadeva l’altro ieri sui balconi di casa nostra durante l’epidemia, non avrebbe fatto alcuna differenza. E un motivo c’è.

Tornando al film, Jensen fa sedere Beale nell’ampia sala delle riunioni, oscurata per l’occasione, quasi fosse una cerimonia iniziatica, e gli svela che ormai sul pianeta l’umanità di cui lui parla, a cui rivolge i suoi deliranti appelli alla ribellione e alla giustizia, non conta un bel nulla. “Non ci sono nazioni, non ci sono popoli, esiste solo un universo multivariato, multiforme, un multinazionale dominio di dollari, petroldollari, etc… è il sistema valutario internazionale che determina la vita su questo pianeta. Questo è l’ordine naturale delle cose… Non c’è l’America, non c’è la democrazia esiste solo IBM, ITT, AT&T, DUPONT, EXXON, sono queste le nazioni del mondo moderno…il mondo è un insieme di società per azioni”. Tutto è nelle loro mani.

Quindi, se la realtà è un intricato, interconnesso, invisibile sistema di affari, la coscienza quasi mai vi ha diritto di accesso. Cosa rimane allora? Un grande ballo in maschera, uno spettacolo circense che ha sostituito leoni, schiavi e gladiatori con la famelica ricerca dello share. Basta abbagliare il pubblico con la luce accecante di un fatto, preferibilmente doloroso, e al diavolo la realtà.

L’Asso nella Manica (Ace in the Hole), anno 1951. Il talento di Billy Wilder che viene a raccontarci come funziona l’ammaliamento delle coscienze. E poi, trent’anni dopo, l’azzardo nostrano, stavolta purtroppo non un film! L’esempio della diretta televisiva più seguita della storia italiana, la tragedia di Alfredino Rampi, la sua interminabile scansione e le imprevedibili derive. Un’ipnosi collettiva che dura tre giorni, con quel brusco, orribile risveglio da Vermicino a cui ho dedicato il mio romanzo, Tocco Magico Tango (edizioni Ensemble). Qualcuno potrebbe obiettare, “meno male che c’è Sanremo”. Amen, e così sia.

Sul sesto potere non credo ci siano dubbi, è arrivato a tenerci attaccati ad un display anche mentre si attraversa la strada, ignari del pericolo; risucchia diottrie altrimenti utili, inclina lo sguardo verso il basso in un ossequio permanente, vive addosso a noi come la remora con lo squalo. Se davvero Leibniz aveva colto nel segno, lo stato della coscienza è veicolato di continuo in un labirinto trita cervello e la realtà è solo una reazione a catena della dopamina. La coscienza di Sé ha poche energie residue a disposizione, le delega ad uno strumento che è diventato il timoniere di buona parte della giornata.

Il Servo, film imperdibile firmato da Joseph Losey, è una bruciante metafora di come qualcuno chiamato a prestare servizio in casa, non solo vi s’installa, ma poi riesce a buttarci fuori a calci. Specie nelle giovani leve l’effetto è devastante, perché è proprio in quegli anni che, con grande fatica e dolore, la coscienza prova a farsi strada, a tracciare segmenti di verità e di ascolto di Sé. Oggi tale sforzo è continuamente differito, distratto e quindi sempre di più temuto: l’efficacia e la perdizione appostati nel “piccolo schermo”. Una volta si definiva così la vecchia, stagionata tv, ormai riserva indiana per pensionati. Col tempo quello schermo si è ritirato in “pollicini”, ha le dimensioni di un nido per topi di laboratorio. Eppure, siamo noi quei topi, voglio dire, noi del genere umano.

Insomma, che cos’è, un pistolotto contro l’inevitabile progresso tecnologico, una nostalgia di retrocessione? No, ma la coscienza non vuole annegare, è fatta di una sostanza sottile, richiede sforzo per affinarsi, azioni non ripetitive, cura, attenzione, tempo fertile, gioia, vitalità. L’esatto contrario di ciò che il sesto potere ci apparecchia per ingolosirci.

L’ultima portata, il piatto del giorno a sorpresa sta chiuso sotto il coperchio. Come il vaso di Pandora, sollevando quel coperchio si scatena la tempesta, anzi, è già in viaggio e sta per investirci. La coscienza e la sua definizione di realtà si preparino al de profundis.

L’intelligenza artificiale, AI, quasi un’esclamazione di dolore, è il settimo potere che si annuncia, il capobranco decisivo. Se le immagini e le notizie false sono già capaci di confondere, proprio per la dipendenza che hanno creato, non sapere più se sono dei doppi partoriti da AI dà scacco matto allo sforzo di delimitare il campo di realtà. La coscienza può andare definitivamente a dormire.

Faccio un esempio banale, nato dalla routine di dare un’occhiata ai social. Un post su Facebook in cui un’infatuata spettatrice pubblica immagini di uccelli dai colori splendenti, invocando la genialità creativa di Dio. Sotto si legge il brutale commento di qualcuno che le consiglia di svegliarsi, perché quei magnifici esemplari della potenza divina, altro non sono che cloni creati dall’intelligenza artificiale. Avremo sempre qualcuno al nostro fianco capace di smascherare il trucco?

E che dire di quei cittadini cinesi, i precursori che stanno pagando tecnici specializzati per avere gli avatar dei propri defunti, costruiti ad hoc sulla base di foto e registrazioni delle loro amate voci, in modo da poter interagire con loro e ritrovarsi la sera a parlare del futuro.

Non sarà, come cantava Lucio Dalla nella sua struggente, Quale Allegria, che ci ritroveremo tutti “in un circolo serale per pazzi strasolati un poco scemi?”. Magari Leibniz a quel punto non dovrà neanche fare lo sforzo di rigirarsi nella tomba e continuerà a riposare tranquillo.