Pur non esercitando la professione di musicista sono da sempre un appassionato autore di canzoni e il 2 febbraio 2025 è uscito sui principali stores digitali Di tanto, Ep contenente tre nuovi brani originali che ho scritto e registrato tra settembre e dicembre 2024. Le tre tracce presenti in Di tanto dipingono un piccolo quadro famigliare che abbraccia tre generazioni: un combattente della seconda guerra mondiale, una madre anziana che naufraga nei suoi ricordi e un figlio a passeggio in un parco in compagnia dei suoi dubbi esistenziali.

In particolare, il personaggio che ho descritto in Mario nel cortile è mio nonno e il brano – che da anni mi girava in testa senza trovare la sua giusta forma – si sviluppa da una suggestione suscitatami da una espressione di Gabriele D’Annunzio che ho poi utilizzato nel testo: al termine del primo conflitto mondiale il vate ebbe a dire in modo sprezzante ma al solito carico di effetto “sento fetor di pace”.

Questo motto è divenuto l’input per raccontare la storia vera ma allo stesso tempo incredibile di un ragazzo di Marene (CN) che scelse nel 1938 (mio nonno era del 1920) la carriera militare in marina non essendo soddisfatto della sua vita di agricoltore e di conducente di macchine a vapore per la trebbiatura del grano. Partito per Pola, nell’allora Istria italiana, frequentò i Corpi Reali Equipaggi Marittimi (CREM), scuola in cui si sviluppavano la preparazione tecnica e professionale delle varie categorie di specialisti quali motoristi, radiotelegrafisti, meccanici e cannonieri. E cannoniere diventò, non prevedendo probabilmente lo scoppio di una guerra che avrebbe trascinato lui e i suoi commilitoni a Massaua per presidiare il Mar Rosso a bordo del cacciatorpediniere Pantera.

Quando a un certo punto fu evidente che l’Africa Orientale Italiana doveva essere abbandonata a un nemico a pochi passi dalle retrovie, si decise di distruggere le navi non in grado di raggiungere uno scalo amico facendo compiere loro una missione suicida: cannoneggiare le strutture portuali di Porto Sudan per poi autoaffondarsi; il caso volle che l’aeronautica tedesca facesse pervenire proprio in quei giorni disperati ai comandi italiani di Massaua una proposta di azione combinata: un attacco aeronavale congiunto al porto di Suez. Vista la scarsità di carburante le uniche navi in grado di percorrere le 960 miglia che separano Massaua da Suez erano quelle della quinta squadriglia, formata dai cacciatorpediniere Tigre, Leone e Pantera.

La sera del 31 marzo 1941 le navi lasciarono il porto eritreo alla volta di Suez; le strumentazioni per la navigazione erano in uno stato di inefficienza completa e il Pantera era nelle condizioni peggiori: girobussola non riparabile, solcometro inservibile, bussola magnetica fuori uso dopo la scarica di un fulmine. Tutte le rimanenze di cambusa furono assegnate all’equipaggio, magro compenso per quell’avventura senza lieto fine.

Subito dopo la partenza, la nave Leone si incagliò sfortunatamente su una scogliera sommersa con conseguenti danni irreparabili e, dopo aver imbarcato i suoi uomini sul Pantera e sul Tigre, venne affondata dai cannoni della stessa Pantera. Il comandante Uguccione Scroffa, per sottolineare la tragicità dei momenti, portò con sé come bagaglio solo la sua sciabola. Vista la situazione ed essendo il fuoco generato dall’affondamento del Leone di certo avvistato dai britannici si decise per il ritorno a Massaua e di ripartire, questa volta senza fare più ritorno, per Porto Sudan l’indomani.

All’alba del 3 aprile 1941, a poche miglia dalla meta, Pantera, Tigre, Sauro e Manin furono attaccate dagli Swordfish della Eagle guidati dal capitano di corvetta Charles Lindsay Keighly-Peach: i velivoli erano inizialmente sei, ciascuno armato con sei bombe da 250 libbre. Nel rapporto del comandante del Pantera Andrea Gasparini si legge:

Inesatta conoscenza della posizione in zona idrograficamente pericolosa, specie verso sud. Azione aerea nemica già iniziata, con prevedibile ulteriore e maggiore sviluppo. Presenza di forze navali nemiche indubbiamente superiori per velocità ed armamento. Mancanza assoluta della sorpresa, dovuta all’esplorazione aerea nemica del pomeriggio precedente e confermata dalla presenza di aerei nemici sulle unità dalle primissime luci dell’alba. Assoluta non conoscenza della situazione delle forze navali nemiche in mare per la completa mancanza di nostra esplorazione aerea. Posizione di luce favorevole che era possibile conservare solo mantenendosi a levante delle forze nemiche avvistate.

Intanto gli aerei erano diventati una settantina tra bombardieri, aerosiluranti e caccia: la battaglia fu serrata grazie al fuoco della contraerea (mio nonno riceverà due croci di guerra al valor militare per quelle azioni) ma le navi ne uscirono seriamente danneggiate quando le avarie delle armi divennero ingestibili e le munizioni iniziarono a scemare. Il Tigre venne attaccato alle 8.58 dallo Swordfish del tenente di vascello Murray e alle 9.15 da quello del sottotenente di vascello Camage, ma entrambi non riuscirono a centrare il bersaglio.

Alle 11 del mattino rimanevano a galla solo Tigre e Pantera che riuscirono a sfuggire a tutti gli attacchi con pronte manovre evasive ma vennero inseguite da caccatorpedinieri inglesi e decisero di puntare sulle coste arabe; nella notte tra il 3 e il 4 aprile arrivarono al largo di Someina a sud di Gedda e gli equipaggi, dopo aver abbandonato e autoaffondato le navi, raggiunsero il litorale a nuoto mentre imperversano sulle loro teste gli attacchi aerei e il cacciatorpediniere Kingston cannoneggiava definitivamente ciò che ancora si poteva scorgere dei relitti.

Ennio Giunchi, comandante in seconda del Pantera, tratteggia nel suo libro Epilogo in Mar Rosso quei disperati momenti con queste parole:

Il Mar Rosso è (…) noto per essere (…) infestato di pescicani. Su tante varietà di squali, solo cinque o sei sono antropofaghe e quelle, nel Mar Rosso, ci sono tutte. Ricordando di aver letto nei libri di Salgari che i pescicani sono miopi e distinguono solo i colori chiari, mi ero vestito di blu da capo a piedi; appesa con cura la giacca al barcarizzo, indossai la cintura di salvataggio e mi filai in mare. Si buttarono con me Di Sambuy, con in testa un casco immenso che voleva salvare, certo pensando al sole del deserto, e il comandante Scroffa. Davanti a noi il mare brulicava di naufraghi, zattere, tavole semisommerse. Ma la corrente ci disperdeva e ben presto mi trovai solo. Le lance, mitragliate in costa, chi sa quando sarebbero potute venirci incontro; frattanto bisognava risparmiare le forze e, dopo le prime svelte bracciate per allontanarmi il più possibile dalla nave, me la presi con calma. Gli Wellesley continuavano a spezzonare e mitragliare le navi, ormai deserte, e il mare intorno ai naufraghi. Volevano essere sicuri del fatto loro. Con quegli argomenti persuasivi affrettavano il nostro distacco dalle vecchie navi e ci imbrancavano a riva. “Mettetevi una buona volta in testa – parevano dirci con gli scoppi fitti petulanti e coi sibili insidiosi – che è finita e che le navi non si devono più muovere di qui”. Vedevo gli spezzoni staccarsi, assumere l’elegante traiettoria parabolica, e qualcuno mi parve venisse giù dritto proprio sulla mia testa. Invece scoppiavano tutti lontano, ma non tanto da risparmiarmi dei villani pugni allo stomaco. Qualche volta un velivolo s’abbassava, il rombo diventava un ruggito, sfrecciando a pochi metri sul mare il pilota si sporgeva e gesticolava in segno di saluto. Rispondevo d’istinto, salvo imprecare quando una raffica di mitraglia mi fischiava troppo da presso alle orecchie; del resto credo che non volessero colpirci; se avessero voluto, pochi di noi avrebbero toccato terra. Non provavo risentimento per quei nemici. Ne erano caduti tanti dal cielo di Massaua; stavolta era andata bene per loro. Provavo per tutto e per tutti, me compreso, un blando interesse, quale possono destare le vicende fittizie in un racconto cinematografico. Soltanto a momenti mi assillava improvviso il timore che un sibilo, uno scoppio mettessero fine alla mia avventura. In uno di quei momenti di pessimismo sfilai la cintura di salvataggio e, quando un apparecchio mi pareva male intenzionato, mi tuffavo sotto la cintura galleggiante. Mi prendeva allora l’oscuro sgomento dell’abisso su cui ero sospeso e per qualche eterno istante ero certo che un pescecane stesse per azzannarmi o che forze invisibili mi avrebbero tratto al fondo (...) qualche cosa si torceva in me a furia, disponendomi alla lotta, ma quando tornavo a rivedere il sole dimenticavo gli attimi d’angoscia e mi risentivo tranquillo e distratto. Finalmente i giri degli aerei si fecero più radi, ora ci sorvegliavano dall’alto e la pioggia degli spezzoni si era mutata in stillicidio. “Rivedremo la nostra Romagna!” mi giunse una voce lontana, e poi riconobbi capo Placucci, un mio conterraneo. Ero meno solo, avevo raggiunto qualche nuotatore. Uno di essi, il capo cannoniere, si lamentava quasi fosse all'estremo delle sue forze: “Non ne posso più!” e, proprio quando pareva lì lì per andar sotto, partiva come una freccia a gran bracciate da far invidia a un giovanotto. Alzando gli occhi sul mare, da qualche tempo vedevo, ancor lontane, le nostre lance che raccoglievano i naufraghi. Eravamo in acqua da molte ore e cominciavano i crampi. Finalmente, verso il tramonto, una lancia giunse anche per me e mi raccolse”.

Giunti sulla costa i circa 500 naufraghi si accamparono per la notte su una duna osservando i bagliori dell’incendio che ancora ardeva sul Pantera prima del suo inabissarsi. Fu necessaria ancora mezza giornata di marcia nel deserto per raggiungere Gedda e scoprire però che sarebbero stati tutti internati da lì a poco sugli isolotti desertici di Jazirat Abu Sa’d e di El Wasta. In realtà non perché fossero prigionieri di guerra della neutrale Arabia Saudita ma, ironia della sorte, per essere entrati in un meccanismo diplomatico che non prevedeva il loro rimpatrio ma il fermo, e si trattava, compresi i marinai che sarebbero ancora arrivati nei giorni seguenti, di circa 800 persone.

L’11 aprile 1941 intanto il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, dichiarò il Mar Rosso aperto alla navigazione per le navi statunitensi.

Due anni sarebbero passati per quegli uomini, tra malaria, 50° all’ombra e riso al sugo di caprone come unico menù, senza nulla da fare se non aspettare che la situazione si sbloccasse. Fu a quel punto che nel giugno del 1942 il governo turco suggerì che gli internati italiani fossero scambiati con un pari numero di marinai britannici detenuti in Italia: imbarcati gli equipaggi sul piroscafo britannico Talma il 20 marzo 1943, non prima di essere stati bombardati ‘per sbaglio’ al largo di Alessandria d’Egitto da aerei italiani, ebbe luogo nel porto turco di Mersin lo scambio dei prigionieri e il rimpatrio a Bari con la nave ospedale Gradisca il 27 marzo.

Da quel momento mio nonno è stato reinserito in attività militari in marina fino al giorno dello sbandamento l’8 settembre: da allora fino al primo maggio del 1944 (ma è una mia supposizione) penso sia ritornato a casa tentando di sfuggire alla nuova chiamata alle armi e maturando la ferma convinzione della diserzione, non condividendo più gli ideali della neonata Repubblica di Salò.

Come attesta un documento rilasciatogli a Savigliano il 9 agosto 1945 dal commissario Stankof (Emilio Curtolo), divenne partigiano nella brigata “E. Carando” con dipendenza diretta dalla 11ª Divisione Garibaldi (Francesco) e dal 1º Gruppo Divisioni Garibaldi (Barbato) comandata da Tom (Giandomenico Bruno). Non era un gruppo corposo ma forse, proprio per questo, più unito: i rapporti interni erano cordiali, ci si dava del tu e la gerarchia nasceva solo con la stima nutrita verso chi si distingueva per azioni, coraggio e capacità di comando.

Questi partigiani agivano in un’area che andava da Fossano a Savigliano, servendo spesso da tramite tra le azioni di montagna e quelle di Langa. Le armi a disposizione erano poche e talvolta autofabbricate: alcuni sten vennero ad esempio assemblati con grande perizia ma rischio enorme dalle Officine di Savigliano, mentre un gruppo di ex avieri del campo di Levaldigi fabbricavano mine anticarro con bombe di aereo recuperate o non esplose.

Il 29 Aprile 1945 (il 25 è una data convenzionale ma non tutti i territori d’Italia erano ancora liberi) la Brigata Garibaldi Carando, mentre i tedeschi in ritirata facevano saltare un intero treno di munizioni fermo in stazione, entra, acclamata dal popolo in Savigliano.

Si tratta di una vicenda indubbiamente complessa e il mio tentativo di confinarla in quattro minuti di musica non sarebbe ovviamente comprensibile senza questa premessa. Per le strizzate d’occhio al celeberrimo dantesco naufragio del povero Ulisse e all’albatro infausto di Coleridge rimando a commenti più illustri.

Mario nel cortile

Il fienile che si apriva sull’immensa campagna;
la polvere dell’aia che saliva fin lassù
col vento dalle arcate che gira in controluce
e Antonio là nell’angolo che sposta due mattoni
perché dietro ci son soldi arrotolati e munizioni
per la M34 giù di sotto, che se arrivano chissà.

Mario nel cortile canta forte e controlla
la cinghia e il suo girare: lui l’unico a capire
come fare che ha studiato le pulegge e sa la forza
del manometro e i cavalli del vapore lui li conta ad uno
ad uno su quei punti di giunzione ma cos’è un nastro di
Möbius che si avvolge su quei coni lui però non seppe mai.

Il fumo del motore che batteva come un matto
con violenza come i pugni delle squadre del ’38;
Mario che partiva e sopra il treno verso Pola
ripensava a Caterina ma sentiva
che non l’avrebbe vista più.

Al corso cannonieri fame e guerra nell’aria:
morto insieme al Vate il suo “sentir fetor di pace”,
si armarono le navi che partirono per mete ancora ignote,
verso terre di conquista di cui mai sentì parlare.
Obiettivo militare nel Mar Rosso l’aviazione
maledetta sia la RAF, che se arrivano chissà.

L’albatro comparve una mattina all’orizzonte
e li seguiva a meridione col suo volo esasperante;
il fuoco che pioveva sulla nave che affondava
e la sua prora andava giù e il mar si chiuse per non restituirli più.

Mario nel cortile ha un fazzoletto rosso al collo.