A Dongo, comune sul lago di Como, una colonna tedesca in fuga venne fermata dai partigiani della 52esima Brigata garibaldina “Luigi Clerici” intorno alle quattro del pomeriggio del 27 aprile 1945.
Tra i passeggeri seduti nel cassone di uno dei camion, ne venne riconosciuto uno camuffato da soldato della Wermacht: era Benito Mussolini. Venne immediatamente arrestato e preso in consegna da colui che l’aveva identificato, Urbano Lazzaro. Ciò che il prigioniero aveva con sé, in modo particolare una borsa con documenti strettamente riservati, assegni e sterline oro, gli venne sequestrato.
Il partigiano Luigi Canali fece portare tutti i bagagli di Mussolini e del suo seguito in municipio, comprese le valigie trovate nell’automobile del prefetto Luigi Gatti, che era stato segretario di Mussolini, piene di valuta e gioielli. Il proficuo bottino è poi stato affidato alla partigiana Giuseppina Tuissi, che doveva ritirare anche i valori che erano rimasti addosso agli altri arrestati.
Consegnato Mussolini, i tedeschi che l’avevano nascosto con loro sul camion in fuga poterono ripartire, portandosi appresso le sue cinque valigie che nessuno aveva scaricato. Fermatisi per la notte, guardarono nelle valigie e gran parte dei soldi che vi trovarono venne bruciata, mentre il resto venne gettato nei pressi del lago di Como, nel fiume Mera. Un pescatore lo rinvenne l’indomani e scoprì fossero quasi 36 chili di oro che consegnò a Hoffman, svizzero che fungeva da interprete per la 52esima Brigata, al quale vennero consegnati anche dei denari che non erano stati distrutti e che pare ammontassero a oltre 33 milioni di lire.
L’uomo consegnò la somma al comandante della Brigata Garibaldi, perché venisse depositata nella banca di Domaso, ma per prudenza i soldi vennero prelevati e affidati al commissario politico della Brigata, Michele Moretti, che li doveva consegnare al comando di Milano, tranne una certa somma (circa tre milioni di lire) necessaria per le spese della Brigata. Poi del denaro si persero le tracce.
La vicenda arrivò in tribunale. Il processo di Corte d’Assise di Padova iniziò il 29 aprile 1957. Un testimone fu anche Enrico Mattei, responsabile amministrativo delle formazioni partigiane, secondo il quale il bottino di guerra restava alla formazione che lo aveva trovato o catturato, e lo poteva mettere a disposizione dei comandi. Il numero dei combattenti era aumentato in modo esponenziale e a ciascuno era stato dato un “premio” a guerra finita, perciò di soldi ne erano stati usati tanti.
Dal processo, molti si aspettavano chiarimenti circa gli ultimi giorni di vita di Benito Mussolini e dei gerarchi al suo seguito. E alcune precisazioni infatti si ebbero.
Il 24 aprile 1945 il Ministro delle Finanze della RSI firmò un mandato di pagamento per un miliardo di lire che la Banca d’Italia versò nelle casse del Partito Fascista Repubblicano. Il gruppo di persone che si mosse da Milano verso Como, nel tentativo di mettersi in salvo fuggendo o di consegnarsi agli alleati, aveva con sé 66 chili d’oro, 1150 sterline d’oro, 147mila franchi svizzeri, 16 milioni di franchi francesi, diecimila peseta.
Il ministro dell’Interno Zerbino aveva 18 milioni di lire personali; il ministro della Cultura Mezzasoma 15 milioni; il sottosegretario alla Presidenza Barracu 8 milioni, mentre mogli e amanti e amici avevano soldi e gioielli. Cinque o sei valigie con 400 milioni e pellicce. Insomma, una buona garanzia sia se si fosse reso necessario nascondersi in Valtellina o in zona, in attesa dell’arrivo degli alleati ai quali consegnarsi, sia se si fosse reso indispensabile scappare all’estero.
Il dibattimento di Padova continuò fino al 24 luglio, quando uno dei giurati dovette essere ricoverato in ospedale e così il processo venne rinviato al 5 agosto, ma nel frattempo l’uomo, Silvio Aldrighetti, si suicidò in ospedale e il processo non poté più essere ripreso, per mancanza di nomina di giudici supplenti. Dovette essere tutto rinviato a un nuovo ruolo di dibattimento, che non venne più fatto per lentezze, amnistie e prescrizioni.
La prescrizione assicurò tutti gli imputati dell’impunità, per gli omicidi e per il furto ai danni dello Stato.
La questione dell’oro di Dongo è emersa ripetutamente per varie ragioni, tra chi voleva conoscere e chi chiedeva giustizia, ma soprattutto per il fatto che, all’insaputa del questore di Como, un collaboratore a capo dell’ufficio politico della Questura, fece una copia degli atti ufficiali. Così, anni dopo, ricomparse le copie degli incartamenti, la notizia riprese concretezza.
Tra quei documenti infatti si citava l’oro di Dongo, una sorta di favola della quale si è tanto parlato e che ancora oggi, ottant’anni dopo le vicende, è in fondo circondata da un alone di mistero.