Il maestro Fausto Taiten Guareschi mi disse una volta che la cultura giapponese ha molto più in comune con quella ebraica che con quella europea. Più studio e più tempo passo in Giappone, più trovo conferma delle sue parole.
Presumo che tutti conoscano la descrizione dell’inizio del mondo in Genesi 1-5: “in principio, Dio creò il Cielo e la Terra. La Terra era informe e vuota, e l’oscurità era sulla faccia dell’abisso. E lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. E Dio disse: sia fatta la luce, e la luce. E Dio vide la luce, ed era cosa buona”.
Al di là della prospettiva religiosa, non posso fare a meno di apprezzare la poesia della narrazione della Genesi, e sottolineare due aspetti che mi premono particolarmente; -l’inizio di tutto è nella parola di Dio, e infatti il cristianesimo chiamerà Cristo il Logos, perché la parola richiede volontà (thelos).
-Dio riconosce la luce come buona, il che significa che il bene precede il male.
I teologi ebraici hanno riflettuto a lungo sulla dinamica della Creazione, sui meccanismi tramite i quali Dio ha portato il mondo in essere. Fra di essi ve ne è uno chiamato Tzimtzum, parte del sistema Arizal elaborato da Isaac Luria. L’idea è che è necessario riconciliare l’infinitezza di Dio con la finitezza del mondo. In altre parole, se Dio è infinito e quindi riempie tutto lo spazio dell’esistenza, non c’è spazio fisico per la nascita del mondo.
L’induismo si era trovato ad affrontare un problema simile nel momento in cui aveva immaginato l’essere primordiale, Prajāpati, e aveva risolto brillantemente il problema. Prajāpati si sente solo e desidera compagnia, ma lui è tutto ciò che esiste. Così decide di sacrificare sé stesso e creare l’universo. Prajāpati è contemporaneamente l’autore del sacrificio, l’oggetto del sacrificio, e il risultato del sacrificio. In tutto ciò che viene creato rimane una parte di lui. Prajāpati desidera però tornare ad essere uno, ma le cose non vogliono più smettere di esistere, il che succederebbe se venissero richiamate all’interno di Prajāpati. Egli allora istituisce il sacrificio come mezzo per sostenere sé stesso, in modo che la realtà possa continuare ad esistere e al tempo stesso egli possa tornare a essere integro.
La soluzione di Isaac Luria è altrettanto brillante: per far sì che l’universo possa esistere, Dio contrae sé stesso, creando lo spazio fisico e metafisico perché la cosmogonia possa verificarsi.
La cosmogonia shintō è di natura completamente diversa e riguarda un ambito molto più ristretto, ma dimostra un’intelligenza e una saggezza straordinarie descrivendo il mondo e tutto ciò che in esso esiste come il risultato del rapporto sessuale tra i due kami Izanagi no mikoto e Izanami no mikoto. Questo stabilisce un rapporto diretto tra la sfera fisica e la sfera metafisica, e rende gli esseri umani fratelli di sangue della Terra.
Tornando allo tzimtzum, e facendo le debite distinzioni, trovo che sia un concetto utile per spiegare come i giapponesi vivono insieme. Invece di dare origine a un mondo che può essere conosciuto attraverso i cinque sensi, i giapponesi in gruppo danno origine al minna 皆, letteralmente “tutti”.
La vicinanza di più esseri umani in uno spazio ristretto con risorse limitate è una potenziale fonte di conflitto. Questa vale sia in senso lato che nel contesto più modesto di una casa o di un appartamento.
Osservando i giapponesi in gruppo, si notano una serie di caratteristiche. Anche nei momenti più affollati, quasi nessuno prende contro a qualcun altro. Al momento di mettersi in fila per salire su un treno, la disciplina è assoluta. Se si è abbastanza fortunati da conoscere la lingua a sufficienza da prendere parte a una conversazione, si percepisce distintamente lo sforzo di tutti per mantenere tutti in una condizione di armonia e di soddisfazione.
Ricordo distintamente quello che mi insegnò uno dei miei colleghi quando lavoravo come insegnante di scuola: “se prendi un gruppo di dieci persone straniere e chiedi: dove volete andare in vacanza?, ti danno dieci risposte diverse. Se fai la stessa domanda a dieci persone giapponesi, ti danno tre o quattro risposte diverse, perché prima di rispondere pensano a dove vorrebbero andare tutti gli altri”.
Per chi è abituato a considerare l’individuo più importante del gruppo, e la libertà individuale come il diritto fondamentale, è difficile abituarsi a vivere in un mondo come questo. Il modo in cui i giapponesi ci riescono è concettualmente affine al tzimtzum: non tradiscono la propria natura e non mentono, ma “contraggono” il proprio ego in modo da creare lo spazio in cui il “minna” può esistere. All’interno del minna, nessuno può avere tutto quello che vuole esattamente come vuole, ma tutti possono avere l’opportunità di esistere.