Les Chants comparvero, non integralmente (solo il Canto I) in una prima edizione nell’agosto 1868 e in quella di un concorso poetico del gennaio 1869. Entrambe erano anonime, firmate con tre asterischi. Ben due pubblicazioni precedenti quella definitiva (estate 1869) con cui Isidore Ducasse diventerà le Comte de Lautréamont. Opera e autore sono avvolti nel mistero. Poco si sa di questo scrittore, i dati biografici sono scarsi e frammentari. La sua vita oscura si riflette e scorre in parallelo alla sua opera, spesso impenetrabile per contenuti e registri linguistici.

Nel sottotitolo, ho voluto alludere - al singolare - alla famosissima opera di Eugène Sue, I misteri di Parigi, perché è molto probabile che Ducasse, per il suo pseudonimo, si sia rifatto al protagonista di un’altra opera di Sue: Latréaumont. Les Chants possono essere definiti come un testo doppiamente ermetico, nella forma e nel contenuto. Sono stati scritti da un giovane che non avrà il tempo di godere dell’Olimpo letterario a cui aspirava poiché morirà a soli 24 anni nella Parigi occupata dalle truppe prussiane.

La città è allo stremo, piegata dagli stenti. Freddo e fame decimano la popolazione. Non sono a tutt’oggi note le cause del decesso e ciò ha consentito di addurre le più diverse ipotesi. Le supposizioni non concernono solo la morte, ma anche la sua vita, coperta da un velo misterioso che, purtroppo, ancora nessuno è riuscito a dissolvere.

La ricostruzione della vita di questo giovane scrittore franco-montevideano si basa su congetture, su scarsissimi documenti, su lacunose testimonianze e sui condizionamenti di un’opera “maledetta” che ha fatto spesso coincidere il personaggio con l’autore, giudicato da molti un omosessuale e uno schizofrenico.

Les Chants, poema in prosa in sei Canti, risente - per lo sviluppo di alcuni temi - dell’influenza del romanzo nero anglosassone e, per la sua visionarietà, la carica eversiva e l’utilizzo di un linguaggio libero da ogni condizionamento morale, può a buon diritto, essere considerato un antesignano delle opere surrealiste. Le teorizzazioni fatte da Breton trovano la loro concretizzazione, più di mezzo secolo prima, nell’opera di Lautréamont, vero manifesto dell’insolito, della contraddizione, dell’irregolarità, tutte caratteristiche che sono alla base dell’humour nero decantato dai surrealisti.

Gli argomenti sono molteplici. Ai grandi temi romantici della sete d’infinito, dell’esaltazione della Natura (soprattutto nei suoi aspetti più terrificanti: terremoti, tempeste, carestie sono cicliche, una distruzione perpetua. Nello spettacolo devastato e devastante del creato, di un paesaggio cangiante di mare, terra, cielo si può scorgere l’emblema di una Natura come specchio della vita) se ne aggiungono tanti altri.

Quelli della morte, del suicidio, dell’infanzia, della prostituzione, della lotta contro l’uomo e Dio (ma vedremo più avanti che non è solo il Dio cristianamente inteso), dell’onirismo, dell’ermafroditismo, delle metamorfosi (non è solamente un richiamo alla classicità, ma il recupero di uno degli aspetti fondamentali della corrente onirica tedesca che aveva dato il via alla trasformazione degli esseri e degli oggetti), dell’educazione (rousseauianamente intesa quando si riconosce l’effetto devastatore della società in campo formativo e quello, altrettanto deleterio, di un’educazione autoritaria e repressiva), l’ossessione per il patibolo (un filo rosso nella Letteratura francese ottocentesca, ma si sa che Ducasse a Montevideo assistette a diverse esecuzioni capitali pubbliche), il doppio (con i tanti alter ego di Maldoror, non solo malefici), l’insonnia…

Les Chants, scritti in un’epoca che si affacciava al Positivismo, non potevano non lambire anche la scienza. Ė assodato che Isidore Ducasse fosse un appassionato di scienze naturali e questo spiegherebbe, in parte, la ricchezza del bestiario dell’opera. L’autore fa del sarcasmo anche sull’esaltazione smisurata della scienza, vera religione dei tempi moderni e sulla fiducia accordatele dall’uomo. E un’attrazione-reazione a questo Positivismo imperante è l’aver affrontato il soprannaturale, l’inconscio e l’aver inseguito allucinazioni, visioni e fantasmi.

Les Chants possono essere considerati la ricostruzione di un lungo sogno, per la violenza delle immagini, di un linguaggio che dal derisorio arriva all’assurdo e, talvolta, è prossimo al sonniloquio. Ma l’apparente trasposizione delle esperienze oniriche intrapresa da Ducasse è la stessa dei grandi poeti romantici tedeschi, da Novalis a Jean-Paul Richter, per i quali sogno e rivelazione mistica sono l’essenza stessa della poesia. Il sogno però non è solo rifugio, è anche abitato da terribili immagini che rivelano il lato peggiore della natura umana. Il sogno romantico e, in misura maggiore, quello ducassiano sono bivalenti: all’angoscia e all’oppressione dei deliri notturni è legata la possibilità di una ricerca di se stessi e dello sdoppiamento della personalità.

Sono temi che Ducasse riprende da correnti e movimenti a lui coevi e non, per essere piegati anche a fini sarcastici e dissacratori. Il vampirismo è il tema dominante dell’opera. Maldoror è, tra le tante cose, anche un vampiro. In quello che sembra un dedalo di temi vi è, al contrario, un profondo nesso di causalità. Le diverse tematiche si richiamano continuamente a creare una sorta di catena, tanto sono complementari le une alle altre.

Les Chants, per la loro eterogeneità tematica e stilistica evitano facili schematismi e classificazioni. Opera altamente innovativa (e attualissima!) fonde diversi generi letterari parodiandoli al contempo. L’autore fa ampiamente ricorso a stereotipi della narrativa gotica, romantica, popolare, arricchendoli di particolari di medioevale memoria, così da dare a questo mixage un’originalità che sfugge a qualsiasi canone.

Ducasse è innovatore anche nell’utilizzo del vampirismo: la suzione e la seduzione vampiresca sono di tipo narratologico. Non è più solo il mito del vampiro come mito della paura e non è solo una chiara volontà di riattivare una delle figure portanti, principali del romanzo nero. Non è più solo il malvagio Maldoror (che azzardo a definire l’ottocentesco Alex dell’Arancia meccanica di Anthony Burgess, 1962, e poi di Kubrick nel 1972, per le numerose analogie), creatura metamorfica e terribile, ad imprigionare con i suoi tentacoli le vittime, ma lo stesso autore che mira alla paralisi mentale del (giovane) lettore.

Lettore a cui il narratore si rivolge già nell’incipit: lo coinvolge imponendogli un rapporto diretto e attivo con ciò che leggerà. Si tratta quasi di una sfida, di un gioco molto pericoloso che il lettore dovrà affrontare con coraggio e determinazione facendo leva unicamente sulla tensione intellettuale e su una grande attenzione. L’Avvertimento incuriosisce il lettore e dichiara quanto l’opera sia terrificante e arduo e pericoloso l’avventurarsi. Lo stile di Ducasse è “misto” e annuncia la scrittura automatica surrealista. La lingua è discontinua e frammentaria. Spesso sembra riflettere un pensiero spezzato e incoerente. Il linguaggio ducassiano è speculare al suo contenuto ermetico, ricercato nei meandri oscuri dell’inconscio.

L’opera è caratterizzata dall’intercambiabilità del narratore, a turno l’autore Lautréamont, un narratore esterno e uno interno. C’è spesso una confusione tra autore reale (lo scrittore propriamente detto, la persona storica Isidore Ducasse o, meglio, qui, le Comte de Lautréamont che inserisce, a sprazzi, episodi biografici), narratore onnisciente (quando la storia è narrata rigorosamente in terza persona) e il personaggio Maldoror (che racconta in prima persona).

Così succede che, non solo di strofa in strofa, si passi dall’uno all’altro, ma anche all’interno delle stesse. Il susseguirsi delle frasi mostra la presenza di questi narratori multipli che si alternano e si scambiano i propri ruoli. Chiunque sia a parlare, rimane invariato il lettore, continuamente interpellato, che dev’essere “cretinizzato”. Questi appelli sono il modo utilizzato dal narratore per concretizzarsi nel testo.

Ho già detto delle lacunose testimonianze biografiche su Isidore Ducasse che, erroneamente, lo fanno coincidere col personaggio Maldoror il quale dichiara apertamente di non amare né le donne né gli ermafroditi e ritenuta come vera ammissione dell’autore. Raramente la vita di qualcuno è stata così enigmatica come quella di Isidore Lucien Ducasse. Molti dei documenti relativi alla sua vicenda biografica (e anche i manoscritti delle sue due uniche opere, Les Chants de Maldoror e le Poésies) sono scomparsi: persi, bruciati, distrutti. Le uniche certezze sono l’atto di nascita, alcuni albi d’oro relativi ai suoi soggiorni nei Licei di Tarbes e Pau, qualche traccia di corrispondenza e l’atto di decesso.

Benché lo scrittore si sia spento a soli 24 anni, è davvero troppo poco. Tutto il resto è fatto di ipotesi e congetture, tutto è avvolto nel mistero, tutto fa di Isidore Ducasse un vero eroe romantico e un “uomo senza volto” poiché di lui abbiamo un’unica foto che lo ritrae all’età di 20 anni. Originario di una famiglia della zona degli Hautes-Pyrénées, nasce a Montevideo il 4 aprile 1846. Vede la luce in una città assediata, logorata da una guerra con l’Argentina che, per circa nove anni (quelli della cosiddetta “Grande Guerra”), impose la tirannia del caudillo Juan Manuel de Rosas.

Lo studioso Jean-Jacques Lefrère, nella biografia consacrata all’autore (Isidore Ducasse. Auteur des chants de Maldoror, par le Comte de Lautréamont, Paris, Fayard, 1998), ha ritenuto che parte del pessimismo de Les Chants sia da attribuirsi proprio a un’infanzia vissuta a contatto con gli orrori della guerra. Se così non fosse, perché chiudere il Canto I del poema con la rievocazione di uno degli episodi più cruenti della storia dell’Uruguay?

Orfano di madre e con un padre tirannico. L’assenza della figura materna deve aver sicuramente condizionato molto la sua crescita. Il padre, il Cancelliere François Ducasse, era funzionario colto, bizzarro, donnaiolo e autoritario. La sua figura, non troppo velatamente, è oltraggiata ne Les Chants.

Sappiamo che all’età di 13 anni viene mandato in Francia. Molto probabilmente il viaggio dall’Uruguay fu affrontato da solo o affidato a qualche altro passeggero. La traversata oceanica riecheggia nei versi del poema con l’invocazione al vieil océan. L’oceano è unanimemente considerato simbolo di un’estrema libertà che, di lì a poco, verrà rinchiusa nelle anguste mura dei collegi-prigione di Tarbes e Pau. Il giovane Isidore aveva già sperimentato a Montevideo la rigidità dell’educazione con gli insegnamenti di un precettore assai duro.

Il Liceo di Tarbes, città della sua regione d’origine, offriva agli allievi una vita severamente regolamentata. È proprio a Tarbes che l’autore viene soprannominato il Montevideano o il Vampiro (entrambi i nomignoli compaiono ne Les Chants). Il primo era un appellativo naturale per uno studente proveniente da Montevideo. Il secondo è invece più strano: non si ha la prova della motivazione di tale epiteto. Si sa con certezza solo che frequentò il liceo di Pau non prima del 1864.

Si ignora anche la data del suo arrivo a Parigi, ma grazie a una lettera a Victor Hugo del novembre 1868 sappiamo che viveva in uno dei quartieri tra i più lussuosi e animati di Parigi (in rue Notre-Dames-des-Victoires). Il padre, non si sa bene per quale motivo, affidò a un suo amico, Juan Pedro Andrade, l’incarico di spiare la vita privata di Isidore durante i suoi anni parigini. Ė in questo periodo che compone le sue due opere e, sicuramente, entra in contatto con una società culturale sudamericana. Queste società ispano-americane pullulavano nella Parigi del Secondo Impero. Esse avevano i loro circoli, i loro caffè, i loro giornali.

La frequentazione di Ducasse con questi circoli può essere considerata assolutamente certa. C’è un dato molto significativo al proposito; nelle Poésies I, Ducasse cita il suicidio di Dolores de Veintemilla. Poetessa ecuadoriana, nata a Quito e suicidatasi a soli 28 anni, le cui opere non furono ancora pubblicate quando Ducasse era in vita. Egli poteva esserne a conoscenza solo ed esclusivamente per il fatto che era in contatto con questa cerchia di colti viaggiatori sudamericani, amanti di poesia, trasferitisi nella capitale francese di fine Secondo Impero e che favorivano gli scambi culturali tra vecchio e nuovo mondo.

Questo è spia del fatto che Ducasse, una volta arrivato a Parigi, avesse voluto mantenere un legame con la sua terra natia. Egli sembra non essere stato per niente isolato o estraneo agli ambienti culturali parigini, a dispetto di coloro che lo vogliono perennemente rinchiuso nella sua camera d’albergo a fronteggiare i fantasmi della mente e preda delle allucinazioni.

Altra spia del suo eterno legame con la sua patria è il nome dato all’eroe-antieroe Maldoror: tra le tante interpretazioni, ci sarebbe anche l’assonanza con Maldonado, città uruguayana. Quello di Maldoror è un caso di nomen consequentia rerum. Esso richiamerebbe il “mal d’aurore”, il “don du mal” (sul modello di Théodore, dono di Dio), il “mal d’horreur”, “l’horreur du mal”. Ciascuna ipotesi è plausibile.

Numerose sono le “decodificazioni” date allo pseudonimo. Come si è accennato, l’assonanza fonica con il Latréaumont di Eugène Sue, romanzo storico ispirato a un fatto realmente accaduto e il cui protagonista ha caratteristiche analoghe a quelle di Maldoror. Per alcuni suggerirebbe “L’autre monde” o “L’autre Amon”, l’altro Amon-Ra, il Dio egizio. È dunque controversa la genesi di questo pseudonimo, il quale potrebbe essere stato voluto dallo stesso padre per impedire che il buon nome della famiglia venisse macchiato da un’opera così oltraggiosa.

La lotta contro il padre che Maldoror/Lautréamont intraprende è la lotta contro Dio. Egli è visto come una sorta di grande occhio che osserva e giudica e solo una costante forza della ragione (e della volontà) può impedire che esso penetri nei recessi della mente umana. Dio è anche l’inconscio, Dio è la coscienza. La coscienza-dio che tormenta Maldoror è rappresentata come un mostro, una belva feroce ma stupida, dotata di artigli e zanne che non esita a dilaniare e straziare l’uomo.

Senza posa lo tortura, gli toglie il sonno, rende spleenetici i suoi occhi, gli avvizzisce la pelle, lo impallidisce. Riflettendo sul carattere dispotico del “Tout-Puissant”, sul suo cinismo, sui mezzi che utilizza per combattere e punire, si può anche scorgere il simbolo di un potere politico che domina con leggi arbitrarie (ci sono ripetuti accenni alla pena di morte, ai condannati, ai detenuti).

Non bisogna trascurare il fatto, leggendo Lautréamont, che i suoi anni parigini coincidono con quelli del Secondo Impero, con le sue repressioni e le sue discutibili riforme. Le allusioni ai provvedimenti reazionari della politica di Napoleone III non sono più di tanto velate, specie quelle relative alla limitazione della libertà di stampa. L’imperatore esercitò una dittatura con l’imbavagliamento della stampa, il controllo poliziesco e con leggi che comminavano pene detentive senza processo. Chi altri avrebbe voluto impedirgli di scrivere se non una censura, quella famosa sixième chambre dall’alto regolamentata?

Egli (e qui autore, narratore e personaggio si confondono) ha il bisogno di trasferire sul foglio il flusso delle idee perché si tratta di un diritto naturale, è inammissibile che si voglia reprimere la libertà di pensiero. Una potenza esterna mira a far tacere questo rivoluzionario della parola mediante la paralisi e la folgore, simboli di un regime oscurantista.

Il potere attaccato da Ducasse è quello che vuole e giustifica le guerre, che colora falsamente le morti di eroismo e condanna al martirio gli innocenti che ostacolano il suo cammino. Certamente Lautrèamont non canta apertamente i marginali e i misérables, ma vuole incentrare l’attenzione sulla violenza, il dolore e la sopraffazione di questi (con)dannati della Terra.

Del resto, Maldoror, uomo in rivolta, in lotta contro tutti è l’emblema della contraddizione, dell’oscillazione tra Bene e Male. Lui, personaggio notturno, tormentato, malinconico, sadico e perverso, oscillante tra il naturale e il soprannaturale, umano e animale, dominato dall’istinto ma anche dalle più profonde riflessioni, serioso e ironico è, al contempo, mosso da pietà per i più sfortunati, in particolare i pazzi. Il suo male non è innato, ma lui stesso se lo è imposto dopo aver preso coscienza della meschinità dell’uomo.

Di certo, per Ducasse questo non è il migliore dei mondi possibili: egli ritiene che il desiderio di ricchezza, l’ambizione e le guerre hanno provocato e continuano a provocare terribili conseguenze che porteranno gradualmente l’umanità ad autodistruggersi. La presa di coscienza di tali infelicità non può che far approdare l’autore a uno smisurato orgoglio, superbia e disprezzo per la società in cui vive. La bontà è solo un’utopia.

Bibliografia

Isidore Ducasse, I Canti di Lautréamont. Poesie. Lettere, a cura di lanfranco Binni, I Grandi Libri Garzanti, Milano 1990.
Jean-Jacques Lefrère, Isidore Ducasse, auteur de Les chants de Maldoror par le Comte de Lautréamont, Fayard, Paris 1998.