Toccare la realtà, ecco la poesia.
(Carmelo Bene)
Poesia è sia soggezione che immaginazione.
(Valeria Casacchia)
Una poiesis che ricorda Neruda quella di Valeria Casacchia ma senza il suo eccesso di sentimentalità, la sua fretta di chiudere, di giungere a una conclusione lirica. Senza il suo compiacimento. Paradossale come Caproni, cruda come Merini, sognante in nuove lingue e intransitiva e autogena, come Campana.
Quello di Valeria è un poetare furioso, eccentrico, tremolante dove il sentimento è per prima cosa carne, sensazione persistente, postura fisica, cicatrice, sogno e poi eco della propria bocca. Eco sacrificale, che sostituisce fatto e azione con l’irrompere centrale di un volo immoto. Un dis-corso poetico che si regge con fierezza e gravitas. Valeria è una sibilla montana, italica, boschiva: sa coniugare istintivamente la solennità laconica dell’Italia arcaica con la vaghezza mediterranea e greca, sapiente per eccesso di luce. Una luce stordente, indeclinabile. Più linee di tensione animano la Poiesis chiamata Valeria e in tutte il soggetto si sfalda, frana in se stesso, si fa abisso e caduta, danza impazzita di una giostra che si schianta, bolide che non ha modo di fermarsi se non nel proprio silenzio.
In questo ricorda il ritmo delirante di Majakoskij che moltiplica ed elude il soggetto diffondendolo in una percezione plurale, infranta, fluente. Una “commozione attiva” quella di Valeria, incandescente. Non una “commozione” quale sentimentalità passiva, servile, parassitaria quale è oggi dominante nel sentimentalismo televisivo di massa che satura e dissolve il linguaggio. Valeria ci svela il nucleo più autentico e più profondo di Poiesis: la crudezza del tempo e delle scelte, la furia che dissolve le distanze e le possessività che spiritualizza e celebra, l’irreparabilità dell’impeto, i moti immaginali che squassano la ragione e la percezione.
Io vedo poesia, in questo caso la vedo in quelle parole pronunciate
e corredate di gesto del pianto che cade a terra con le braccia.
La visione non esce dal corpo ma lo dilata fino ad includervi ogni riconoscibilità.
Ho capito
che faccio sesso con più di un uomo,
più d’un uomo,
un amore sempre contemporaneo,
perché se penso a te, affondo in un vortice nero;
se penso a te, mi sciolgo in un liquido chiaro;
se penso a te, mi strappo il respiro.
Ecco la fisicità del poetare che è Valeria, un poetare fatto di morsi, succhi, sudore, gesti, cadute, sperdimenti, umori. Il corpo impazza, vaga, si fa vertigine, giunge ai suoi limiti. Paradossalmente è un poetare del limite anche se sembra immersa solo nel suo a-peiron.
Poesia è mio nonno che prova a leggere le mie poesie ma "non capisce tutte quelle frasi, che metto", ossia i versi; senza sapere che lui stesso è poeta, e con me ne converrebbero molti altri, quando dice, testuali parole, che "da ragazzo spendevo tutti i soldi che mi guadagnavo, ma quando è nata Maria, quando è nata Maria ho spento la brace con le lacrime". Ha quel modo di spiegare che è poesia. Poesia è negli occhi di chi guarda, nel cuore di chi sente.
La visione è carnale in Valeria, restando visione. Il tono teso, igneo, al “calor bianco”, fino al punto di fusione del materiale umano. L’essenza greca di poiesis è appunto la dinamica interna al senso del verbo: un farsi, un diveniente metamorfico incessante, un senso di processualità che da una parte appare quale accadimento (fatale) e dall’altra è anche offerta, elevazione, sacrificio, atto totale, rituale. Quest’aura linguistica d’origine si percepisce a pelle nell’operare poietico di Valeria il cui fuoco ricorda simile carisma igneo colloquiale e debordante proprio delle Laudi di Jacopone da Todi. Valeria ti sbatte in faccia la sua parola, come un vento selvatico. Poi sfugge, evapora, s’occulta nel loro silente riverbero, si fa ombra a sè stessa, eco, effetto doppler.
Anche se manca la storia
di noi coppia
nell’ora e nel presente che la ricorda,
anche se non m’ispiri un verso,
non un gesto,
e non m’avvinghi più,
tu, con il tuo intento,
tu rimani lo stesso, tu nero,
giallo, azzurro,
e mi pervadi
col senso d’un momento,
magari d’un ricordo,
o di ciò che sto vivendo,
ma non solo,
ma nuovo:
io lo vivo, lo prendo
e ci faccio
cosa voglio.
Ecco il selvatico e sibillino dispotismo del poeta-infante che plasma la propria immaginazione costruendo i propri labirinti come predicava Carmelo Bene. Una tirannia che non è dominio di sé ma immersione nella propria voce, nella propria calda tenebra. L’assenza, la mancanza si fa vortice, fuoco, franare delle distinzioni, tremolare dei confini dei pensieri. Il limite quindi si ribalta, si inverte sia esso un ricordo, una carenza, un bisogno illuminandosi o oscurandosi all’improvviso in un altro volo, un altro sognare, un’altra immaginazione. Il soggetto torna istanza soggiogante le proiezioni, i fumi delfici dando loro un ritmo, un minimo di misura ma anche si rivela quale un restare assoggettato nell’irrisolvibilità delle anomalie e aporie esistenziali. Si canta a sé stessi, al proprio tornare quale obiezione, resistenza, opacità, oscurità, scissione.
Ho un sogno
che non ricordo
che voglio morto
che voglio fisso fermo stanco
che non muti sempre forma
verso manto
che non si rinnovi
che non mi trovi.
Valeria è schiava di Poiesis e sua dominatrice. Artemide ed Estìa.
Irante ingorda
erinne errante
fagocito tutto l’amore
maschile lo avvinghio e lo succhio
lentamente.
Non rimane nulla, niente
di quel cuore
di quel giovane amore fatto carne
che mi prende le mani nella sua grande
che m’accoglie nel suo petto pulsante,
mia grotta complice
contro un mondo amaro e difficile.
L’ho sbranato tutto
coi suoi brandelli cucio un componimento,
un frammento
di un amante ingiustamente accusato.
Rincorro qualcosa che prendo svuoto e getto,
amo tutto e non amo nessuno
cerco solo il principio primo
che mi metta incinta,
che mi vinca.
Poiesis quale furia concupiscente, setacciante. Voluttà seria, tenace. La passionalità è un ritmo musicale, ontico, attivo, non passivo, un sognare lucido, un volo trasparente. Poetare quale conflitto ma un conflitto intimo quanto disindividuante. Così intimo da sciogliere ogni parvenza dell’illusione interno/esterno. Si resta dentro l’ontica del proprio corpo. Piuttosto un conflitto fra l’essere corpo e il suo declinare lo spaziotempo. Che gioia la distruzione implicita di ogni stereotipo lirico.
La tua lingua è bella
come una stella
che d'un tratto poi s'affloscia
nella mia rossa
che tra poco scoppia
la tua invece è chiara
che mi parla
mentre la mia intanto succhia
tutto l'amore dalla tua buccia.
Sembrano le donne vampire di Munch, le sue nordiche Lilith. Distruzione e attivazione non si distinguono; si intreccia proiezione e baldanza, esaltazione e celebrazione di un proprio presente lirico, parusico, non concluso, in corso.
Lo dirò nascosto. Polpa.
Più focoso. Morso.
Una finestra in testa come un tarlo,
un tarlo altro,
sulla montagna tutto in alto
che vede un mare
(suo malgrado)
tutto smeraldo.
Decorso di immagini sovrabbondanti ma rigorose, a ondate, a foglie, secondo logiche non immediate, parallele, sottili. E talvolta emerge Estìa con il suo calore dolce e intimo. Una carezza alla propria pelle
Che belle quelle
sere serene dove
per un attimo sembra che piove
e invece son solo
insettini riflessi dal sole
o dalla luce del lampione.Voglio una nuvola
che non si dissolva
su cui stare sopra
insieme a una farfalla…
bianca
che mi parla
che in quell’ora poi si sfoglia
in palline di carta straccia
che arrivano a te, al mare, alla spiaggia
fino al limite
del nostro confine
come polline di neve saggia
con incisi segni e forme
del nostro incerto avvenire
del nostro sogno d’amore infantile.
Il ritmo appare sempre incalzante, discendente, come una capriola, una caduta, uno scivolare, un balzo in discesa fino a schiantarsi nell’indicibile di cui la parola è latenza e sogno. Un soggetto imperioso e fiero che si inviluppa nel proprio slancio fino a farsi crisalide, bozzolo, escrescenza. L’ “altro” appare una sfinge muta, uno specchio unto o coperto, una nebbia, un fuoco nero, una voragine implodente, un varco murato. Il corpo si contorce. Poiesis è una questione di corpo, di corpi; del loro secernere, annusare, tastare. Un presente immediato, sfrontato, denudante, amplessivo, spiazzante nei suoi frequenti gerundi che alludono a una carne palpitante, assetata, febbricitante. Torna la femmina anarco-ancestrale, che già fu Sibilla Aleramo e Goliarda Sapienza. Valeria vive fino in fondo la sacrificalità naturale del vivere. Ogni poeta brucia e fumiga.
Il senso dell’interezza spinge il ritmo incalzante e mozzafiato del carmen quanto al contrario lo schianta contro la naturale paradossalità dell’andare oltre il limite senza eliminare il limite a cui comunque si torna come la risacca di una mareggiata:
non t’ho mai detto
che ancora sei tutto
la penna
l’occhio
il pianto
il lutto
E il peggio
È che sei mio frutto.
Valeria esalta uno dei nodi genetici di Poiesis: la tensione che squassa il soggetto-schiavo quanto l’incalzare che ne esalta le unicità liriche ed esistenziali. La Poiesis quale rivincita, grido guerresco, riapertura della cicatrice. Il soggetto pare annichilirsi da sé stesso nello slancio delle sue ossessioni quanto scindersi, moltiplicarsi, riverberarsi in un eco diffuso.
Che prezzo per il poetare?
Il prezzo è l’impossibilità di esprimersi e di raggiungere la verità, il prezzo è il prezzo di tutti, quello, detto con Montale, di andarsene da questo mondo, zitti, ognuno con il proprio segreto.
(Valeria è incontenibile. È fortunatamente impossibile farle un’intervista in quanto segue solo i propri tempi e i propri modi s-modati. Buon segno. Quindi facciamoci ascolto, condizione genetica di Poiesis, e ascoltiamola e siamone riconoscenti in quanto sta aprendo per noi qualche luce della sua intimità…è un qualcosa di prezioso, di delicato nella sua potenza, di suo, e di così suo che accade la magia che ci sembra un po’ anche nostro.)
Il primo testo che mi sento di chiamare poesia l’ho scritto in Sardegna, sulle rocce in riva al mare. Ero felice. L’ambiente esercitava in me una forza attrattiva, quasi risucchiante. E con l’adesione del mio corpo e delle piante dei miei piedi alle rocce solcate da millenni e ormai di ogni forma sinuosa possibile, con l’acqua trasparente brillante che si insinuava tra loro come serpeggiava tra le mie gambe e solleticava le mie membra, mi sentivo roccia, acqua, elemento rocciaqueo anch’io.
C’è quell’istante in cui mi sento materialmente parte dell’ambiente, non son più uomo, son finalmente serena, mi sento scorrere l’energia solare, acquorea, vegetale, rocciosa, sabbiosa dentro, sento meno il distacco tra la materia di cui sono fatta io e il resto. In quel momento non devo niente. Come le rocce, le piante e l'acqua. Forse percepiscono così costantemente gli animali, forse i vegetali. Per poco ho provato anche la difficile sensazione pacifica di essere roccia, lasciata in riva al mare, a farsi modellare. Un po’ come quando da bambino senti che puoi essere quello che vuoi. Ma l’«illusione manca», e bisogna alzarsi su due piedi, e lavorare con due braccia e due mani, che fanno male. Non siamo pietre, purtroppo. La poesia nasce da questa mia tensione, tra ciò che devo e ciò che sono. E ciò che sono è sempre in progressione.
Ora voglio solo più essere e capire come esprimerlo. Mi chiedevo il perché di questa (mia) condizione umana, così diversa, così strana, però, guardando meglio, alla caletta già deponevo le armi: ma mento, dico.
La vera domanda è: le armi si possono davvero deporre?
Il fatto che la poiesis sia, o possa essere, sempre aionica non toglie il fatto che abbiamo bisogno di usare una lingua. E una lingua è anche il risultato delle nostre esperienze di comparazione. Io, più che confrontare la mia lingua poetica con le altre, per ora, vado proprio alla ricerca e alla scoperta delle altre lingue “poetiche”, delle combinazioni logiche e di suono che le parole e le lettere arrivano a comporre. Il senso che mi lascia la composizione. Mi faccio sempre e solo attraversare, io, dai testi. Mi piace poco comparare razionalmente. Non mi piace più. La ratio arriva dopo aver sentito, per me. E a volte anticipo, nei miei testi, varianti che solo successivamente ricolgo in altri autori. E mi viene un sorriso. Perché capisco che la poiesis è anche aionica, appunto, e sento di esserci dentro. Anche solo per un secondo, s’intende.
Io non so se sono un poeta o se penso come tale. So solo che alcuni dei miei testi li reputo poesie, e che qualcun altro dei miei contemporanei ha fatto lo stesso. Alla prima domanda, molto bella e difficile, non so rispondere, e forse non voglio. Non riesco e non voglio spiegarlo perché in fondo una risposta univoca non c’è. Sarebbe come chiedere perché si ama, perché ci si stupisce. La risposta che identificherebbe la causa prima è: perché mi piace, perché è bella.
La lingua è bella, le parole sono belle e strane, dunque sorprendenti. Le parole sono belle per l’uso diverso che se ne può fare, per i diversi accenti che assumono a seconda di chi le pronuncia, di come gesticola, e delle parole che ci sono attorno; le parole hanno un significato di nascita, originario, e il loro etimo rispecchia l’essenza del concetto che l’ha concepita e della civiltà che l’ha creata, per questo possiamo seguire il cambiamento di senso di una parola nel corso delle civiltà che l’hanno usata e modificata parlandola. E possiamo quindi seguire il cambiamento di una civiltà in base alla parola. La parola sorprende nella sua mutevolezza, sia in senso sincronico che diacronico. Le parole contengono altre parole o sono contenute in altre parole; le parole sono fatte di lettere, le lettere rappresentano, detto alla buona, dei foni.
Il fono è l’unità minima di una lingua, di una parola. Il fono genera il suono. A me piace l’idea di poter giocare coi foni come, che so, un matematico gioca e si arrovella con i numeri e le formule, o come un compositore con le sue note. Mi piace l’idea di poter creare nuove parole, nuovi discorsi, nuovi ritmi, nuove sensazioni con i foni, creare immagini, dipingere con i foni, creare suoni con i foni. Per rappresentare ciò che vedo e il di più che sento, voglio, immagino, o che mi manca. Per me la parola è stata un rifugio, un rifugio per molto tempo: non è da tanto che ho capito di poterci creare qualcosa, con la parola. E mi è bastato capirlo per volere già la distruzione del discorso tradizionale. La sua frantumazione in suono, sensazione.
Come Carmelo Bene, anche io sono stufa del discorso. Sarà rassegnazione? Insomma, mi ci sono così arrovellata, con le parole, e ne abbiamo così abusato, che ne ho quasi la nausea. Per questo voglio che la mia poesia sia una poesia che esfolia, che si libera della tradizione, e che fa riemergere un nuovo senso, nuove sensazioni. Poesis è parlarsi su di sé e su di sé in rapporto al mondo e alla vita. Poesia è la capacità di un soggetto di sentire e di interrogarsi su quelle sensazioni. Il soggetto è soggetto alle sensazioni che sente. La creazione artistica viene dopo, se viene. Ci sono poeti che non hanno mai scritto. Che non si sono mai scoperti. Che nessuno conoscerà mai. Il paradosso non è la coesistenza di poesis e Soggetto. Poesis è una naturale capacità umana, è semmai una delle tante ovvie conseguenze dell’esistenza umana. Probabilmente, non esiste poesis senza uomo.
Per la poiesis, il paradosso risiede nel fatto stesso che l’uomo esista. Con poesis, ho la sensazione che l’uomo non raggiunga nulla che non sia già suo. È un potere? È un potere vedere le cose e crearle. Non so se sia un essere assoluto, una forza agente a sé stante, un’energia continuamente convertibile. Non credo. Se lo è, potrebbe identificarsi con l’amore. Il fatto è che, ora, parlare di queste forze, fare filosofia cercando di individuare l’amore come origine della poesia, diventa per me molto difficile. Diversi problemi mi hanno svuotata, mi hanno tolto la convinzione che vi possa essere una forza che leghi le cose, le vite, le morti, gli intenti, le volontà. Ora non credo che la forza prima sia l’amore. Non credo niente. Affermo, senza entusiasmo, che è una possibilità. E voglio essere sincera, almeno mentre scrivo. Ecco il paradosso o parte del paradosso nel rapporto tra poiesis e soggetto. Sono interdipendenti. Sono uno lo specchio dell’altro e, per evolvere, forse l’uno dovrebbe guardare sempre meglio l’altro.
Mi è piaciuto anche interrogarmi sul senso del cosiddetto “oggetto di una poesia”, che altro non è, ne converrai, che un altro soggetto. Una volta mi hanno detto: «Chissà chi è il soggetto della tua poesia». Intendevano la persona a cui mi riferivo con tu. La poesia può avere un soggetto, un soggetto che appunto viene assoggettato al nostro senso, alla nostra sensazione e immaginazione. La poesia, o almeno, i miei testi diventano poi altro, diventano espressione di me, di parti di me, di tante me! E il soggetto verso il quale provo la sensazione, che penso mi abbia spinto a scrivere, diventa poi secondario all'emersione, nel testo, di una parte di me nel rapporto con quel soggetto. Prima son pervasa da una cosa, la vivo e la assorbo tutta, poi cerco di rigettare fuori a parole quella sensazione o quel pensiero. Se sapessi disegnare e dipingere lo farei anche sulla tela, come Montale.
Nota bene: per soggetto qui intendo ogni oggetto assoggettabile alla mia sensazione e alla mia immaginazione, appunto: un frutto, un fiore, una corteccia, una pioggerella, e non solo e semplicemente una persona. Ho notato che a volte ho scritto pensando a una persona, sentendola coi miei sensi, immaginandola in dei momenti, magari con degli altri oggetti, e poi rileggendo il testo mi rendo conto che in realtà volevo solo esprimermi, esprimere ciò che sento e che sono in rapporto a quell’oggetto lì, a quel soggetto lì, a quell’evento, alle sensazioni che mi provoca. E la valenza simbolica che lega quelle parole a quella persona in particolare cade. Rimango solo io. Col mio testo, con la mia impronta. Con la mia domanda.
È chiaro che l’oggetto c'è ed è importante. Il soggetto-oggetto che il testo evoca è il secondo polo, diciamo, nella creazione del testo o dell’opera artistica in generale. È il secondo polo che ci poniamo noi. E lo studiamo, lo immaginiamo, lo evochiamo, ci chiediamo cosa sia, cosa sia per noi. Ma col secondo polo, chi scrive trova solo il modo di esprimere sé stesso sempre meglio, in ogni suo possibile ritmo, in ogni sua possibile forma. Sia che il soggetto sia il creatore, sia che sia il creato, la poesia è sempre autocelebrativa. Perché è un’intima intenzione, un intimo sfogo, uno sfoggio di sé.
La poiesis esisterà finché esisterà l’uomo che la sente e che la coglie. Non ci sono “condizioni” più o meno favorevoli a poiesis. Forse l’amore e lo studio. Dove per studio si intende, con Dante, l’applicare la propria anima a ciò che amiamo, che ci piace. Ma parlare di amore e di studio è troppo astratto, sembra parlare di tempo e spazio. La poesis non esiste solo se si scrive e quando si scrive. Poesis è negli occhi di chi guarda e nel cuore di chi sente. Sono arrivata a questa momentanea conclusione. Tutto, e dico proprio tutto, anche ciò che appare rivoltante può essere pervaso da poesis.
Ad agosto sono stata a Roma, e per qualche minuto sono stata da sola con un ragazzo esile e biondo a godermi il Ciclo di San Matteo di Caravaggio. Lui guardava la Vocazione, io la Crocefissione. Inizialmente non ho notato il ragazzo, volevo solo tuffarmi nel quadro. E guardavo le sfumature, le venature, le ammaccature, le piegature, i piedi sporchi, la pelle vecchia, lucida, tirata, schiacciata. Oh, non so neanche parlare, descrivere quanto quei corpi, quei solidi così dipinti volessero uscire da quella loro bidimensionalità. Gli occhi mi si sono inumiditi, pensando a quel miracolo che un povero tormentato aveva fatto intorno al 1600. E chi se ne frega della gente che si imbarazza per me.
Lo sguardo mi è caduto poi sul ragazzo, che invece disegnava. Mi ha guardato anche lui, forse ha visto la mia commozione, non so, e mi ha sorriso. Guardava la stanza, il fascio di luce, le forme emerse dal buio del quadro, o chissà cosa, e disegnava, su un piccolo blocchetto. Morivo dalla curiosità di vedere cosa stesse disegnando, e come. Con la scusa di guardare anch’io la Vocazione, mi sono messa dietro di lui. Pensavo facesse uno schizzo della Vocazione, invece stava tratteggiando una figura femminile, in piedi, col vestito lungo, ancora senza viso. Una donna! Di fronte a un dipinto di soli uomini, seduti. Perché guardasse ripetutamente il quadro per poi schizzare sul foglietto, dunque, non lo so. La Vocazione è passata così in secondo piano, sia perché le mie energie emozionali si erano già molto impegnate nella Crocefissione, sia per la stranezza del fatto del ragazzo.
Questa è stata una scena poetica. Gli stranieri del mondo si raggiungono con uno sguardo solo quando giungono entrambi a un punto, che è l’emozione per un qualcosa di bello che ti commuove e non capisci perché. E questa era la “condizione alta”. Insomma, un sentimento di inspiegata commozione contemplativa in uno dei luoghi più ricchi del mondo. Ora sono ancora troppo giovane, forse, per esprimere senza vergogna la condizione più bassa nella quale, neanche avrei mai immaginato, si celava poiesis. Sento di scoprirmi troppo agli altri, nel mio intimo, se la esprimo.
Quindi parlerò di quella volta che ho visto un animaletto a bordo strada, squartato da un’automobile qualche momento prima. Forse aveva appena finito di agonizzare. Si poteva vedere bene la bellissima pelliccetta con la quale, grazie a dio, abbelliva il mondo vagando nei boschi circostanti, ormai accerchiati da strade, rotonde e macchine. Avrei quasi voluto toccarla, poi riattaccargliela. Farlo rivivere. Come Pinocchio, gli avrei detto: Rivivisci! Ma ormai ero là dentro, dentro la macchina, ormai lontana, dall’altra parte della staccionata, ormai ero uomo. E sono rientrata in casa con questa specie di aspirapolvere nella pancia e nello stomaco. Mi stava risucchiando tutta, e faceva male. Sarò stupida, bambina? Chi se ne frega. Sono viva, e reagisco alla vita. Al sangue, al dolore, al brutto, al bello, a quella che penso sia ingiustizia, impedimento.
Due giorni dopo, ho rifatto la stessa strada in macchina. E quasi al posto del volpino morto, non so se un po’ più spostato, ho visto una montagnetta di terra. Subito mi sono sentita in un cartone animato. Un elemento del genere, con tutte le volte che avevo percorso quella strada, non l'avevo mai visto. Chi mai, e per quale ragione, avrebbe dovuto creare una montagnetta di terra a bordo strada, di uno stradone in mezzo a campi ed alberi frequentato solo da macchine? Se anche qualcuno avesse rimosso il volpino, l’avrebbe buttato o seppellito nel prato in mezzo agli alberi che ci sono lì a qualche metro di distanza dalla carreggiata. Non avrebbe certo fatto una montagnetta sull’asfalto.
Quella visione buffa e misteriosa, al posto del volpino morto, mi ha subito fatto pensare a un simbolo. “Ma sì! è un segno che riguarda il volpino morto!”. Non so perché ho ringraziato dio. La cosa mi sembrava così sorprendente che ho iniziato a credere che quello fosse un simbolo, arrivato da chissà dove, per il volpino, e per me, per dirmi che il volpino stava bene, anche solo per il fatto che qualcuno avesse sofferto per la sua brutta morte. Quella montagnetta di terra era un omaggio al volpino, un ricordo, come quei fiori o quelle madonnine che si mettono a bordo strada sul punto dell’incidente quando qualcuno muore.
Poesis è quando Picasso dice che la più bella forma d’arte sono le pitture rupestri; poiesis è Malvezzi che lo cita e me lo rivela; poiesis sono le pitture rupestri (questo intendeva Picasso); poiesis è mio nonno con la quinta elementare che dice di aver “spento il braciere con le lacrime” alla nascita di sua figlia; è mio nonno a scuola, che veniva picchiato e deriso perché sua madre non gli dava i soldi per inchiostro e carta; o è mio nonno bambino costretto a scappare di casa, che dorme e piange sotto gli ulivi, o costretto a servire un signore, lontano dal mondo dei giochi dei bambini; poiesis è mia nonna che lo guarda interdetta, la sua cucina, le sue mani pulite; poiesis è il dare incondizionato di mia madre, è mio padre che mi pulisce il musetto con le sue manone; poiesis sono i bambini; poiesis è la bellezza di un dipinto realizzato in condizioni difficili, tremende, terrificanti; è Van Gogh che si spara un colpo in testa nei campi che tanto ha dipinto, come unico e insostituibile.
Poesis sono io che credo che sta roba sia poesis. Poiesis è solo negli occhi di chi guarda, e nel cuore di chi sente. Fare poesia ha un prezzo, un aspetto sacrificale, solo perché si sente di più? Si sente di più il dolore, ma anche la gioia, la commozione. Il fatto è che forse non serve a niente. Il vero sacrificio è vivere. E nel digitare questa ultima frase, stavo prima scambiando “vero” con “verso”, poi “vivere” con “ridere”. “Il vero sacrificio è ridere”. Simpatico. Sì, vivere sentendo, volendo e vedendo più di altri è un sacrificio. Ma io ho fatto un ulteriore passo. Dato il sentire così, in questo modo, la condizione umana stessa è un sacrificio. Il vivere umano è sacrificio. Il prezzo è sempre lo stesso. Sia che si scriva, sia che non si scriva, sia che si abbia a che fare con poesis sia che no: il prezzo è l’impossibilità di esprimersi e di raggiungere la verità, il prezzo è il prezzo di tutti, quello di andarsene da questo mondo, zitti, ognuno con il proprio segreto.
Montale lo dice bene. Il prezzo è quindi quello di soffrire per una mancanza. Mancanza di ciò che vogliamo essere e che ancora non siamo. Mancanza di un qualcosa che eravamo, che avevamo e che sembra irriacquisibile almeno fino alla morte. Forse mancanza di un’unità col tutto, di far parte di una vita davvero sentita in eterno divenire. Mancanza di vedere realizzata fuori tutta la potenza che abbiamo dentro. Questa potenza potrebbe chiamarsi capacità di amare, di sentire come l’altro, che sia legno, pianta, gatto o persona. Di viverlo all’interno, di esserlo anche solo per un momento, e di amarlo, come naturalmente si ama la propria capacità di vivere e di sopravvivere. Questa potenza potrebbe anche chiamarsi senso di immortalità del pensiero, o di noi stessi.
Non so quale prezzo sia. So solo che si nasce, e si ride e si soffre non sapendo cosa sia la morte. Questa incertezza spinge qualcuno alla malattia, qualcun altro alla pazzia. E la poesia potrebbe proprio far parte di una delle due. Sto pensando che a dieci anni, molto probabilmente, avrei risposto allo stesso modo. Che buffa la vita. La passi a cercare di crescere, imparando a ragionare, analizzando e capendo, per capire che da bambino sapevi, pressappoco, le stesse cose.
Se non volessi spiegarmi troppo, quindi, risponderei solo che tutto ciò che è poiesis è sorpresa, passione, interrogazione. Ciò che si oppone a poiesis è la costrizione, l’impedimento. Quale costrizione? Quale impedimento? Qualsiasi cosa che sentiamo essere impedimento alla nostra espressione. Il dolore, ad esempio, può essere sentito sia come motore che come impedimento. Soffro, mi esprimo, e magari creo qualcosa di bello: motore. Non vorrei soffrire, vorrei scoprire le mie capacità creative senza un senso di dolore sullo sfondo, ma sono limitata alla semplice espressione di quel dolore: impedimento. Non si può definire poiesis solo in negativo.
Qui dissento con Montale, ma solo in quel verso, se letto in senso assoluto, filosofico. Quindi dissento solo relativamente, perché, in realtà, condivido anch'io la critica che lui faceva alla tradizione poetica italiana. Non si può definire la poiesis solo in negativo anzitutto perché è creazione, è un segno positivo, un di più rispetto al concreto esistente. Poesis è intenzione di creazione, è voglia di modellare il mondo per come ci sembra e per come lo vogliamo.
È chiaro però che si possa e anzi si debba parlare di negativo per quanto riguarda il poeta. Il poeta è soggetto a una forza, a un’energia espressiva di cui non può fare a meno e che, il più delle volte, è generata da una mancanza, oltre che dal bisogno di esprimersi e di-spiegarsi. Per me e per ora, il negativo necessario in poesia, il negativo connaturato alla poesia è solo la mancanza che il poeta, attore della sua realtà, sente al principio della creazione. A noi manca qualcosa. Che eravamo, che sentiamo di essere, che vorremmo essere. Sì, poi c’è anche la “semplice” contemplazione di ciò che c’è ma, se è efficace, è sempre corredata di una domanda intima, soggettiva, nascosta. Questo è il presupposto di ogni poetare intelligente e creativo, modificando di un termine la bella frase di Costanzo Preve.