Una pioggia martellante. Sotto il berceau di un giardino un po’ nascosto di Palazzo San Niccolò, a Firenze, siede una donna non comune, dalla capigliatura gloriosa. Viene subito voglia di saperne di più. Il rumore della pioggia crea un isolamento che porta alla confidenza.
“Chi è lei, Nandita?”.
“Sa che sto parlando così tanto di lui che ho dimenticato chi sono io?”.
Nandita Ghatge è interior designer, restauratrice, artista, giramondo, ma queste occupazioni non c’entrano con l’intervista.
Indiana di Kolhapur, seppure abbigliata all’occidentale, ha appeso nell’armadio sari spettacolosi, pronti a essere sfoggiati per non deludere chi se l’aspetta in versione consueta. Si sente un po’ fiorentina, perché sulle sponde dell’Arno, il fiume è fondamentale nella vicenda, ha assaporato un momento di utopia alla John Lennon, il suo personale “Imagine all the people Livin' life in peace”.
Indiana, “fiorentina” e, soprattutto, riconoscente. I doni ricevuti dei quali Nandita ci parla sono due: la fortuna di narrare un episodio di tolleranza internazionale e l’onore di appartenere a una delle famiglie illustri d’India, attestata dal 1398, che, pur essendo profondamente sua da quando si è sposata, ancora la incuriosisce e le suscita un po’ di stupore. “Quando nasci nella storia, la dai per scontata - racconta con un sorriso - per mio marito Pravinsinh è così. Infatti fu un po’ sarcastico sul richiamo che Rajaram Chhatrapati esercitava su di me. Non era per niente interessato!”.
Rajaram Chhatrapati, Maharaja di Kolhapur: lui.
Bombay, all’inizio del 1870. Ispirato, dopo la visita del duca di Edimburgo, il giovane maharaja partì per un grand tour europeo e ne raccontò le tappe in un diario che fu pubblicato postumo nel 1872 dal tenente colonnello Edward W. West.
Firenze, verso la fine del 1870: Rajaram Chhatrapati morì di polmonite, prima di compiere ventuno anni, al Grand Hotel Royal de la Paix in piazza Ognissanti che oggigiorno si chiama St. Regis. Alle prime ore del primo dicembre fu allestita la pira funebre sul limitare del parco delle Cascine, alla confluenza di due fiumi, l’Arno e il Mugnone, come prevede la tradizione indiana.
Ubaldino Peruzzi de’ Medici, sindaco di Firenze, aveva dato il permesso per la cremazione, allora proibita, probabilmente su pressione del ministro inglese sir Augustus Paget, ma pose la condizione che l’incenerimento avvenisse all’una della fredda notte affinché la faccenda fosse sbrigata alla chetichella, all’insaputa dei cittadini. Non ci indovinò: ad ammirare le spoglie del ragazzo nobile giunto dall’altrove, vestito sontuosamente di rosso, con turbante del suo rango e gioielli, accorse un bel po’ di gente, solleticata dall’occasione esotica.
A conclusione del mesto rito, le ceneri furono riposte in un’urna di porcellana che prese la strada per le Indie.
Poco dopo, a memoria eterna dell’accadimento fu eretto un monumento, progettato da Charles Mant e scolpito da Charles Francis Fuller, che è stato restaurato di recente.
Rajaram Chhatrapati era cugino del bisnonno di suo marito e Nandita ne ha ricostruito la vita brevissima in A maharaja in Florence, con il contributo di Deirdre Pirro, editorialista del periodico The Florentine, molto seguito dalla comunità anglo-americana di Firenze. Pirro, insieme con Larissa e Ariele Bartolini, hanno reso una festa il soggiorno fiorentino dell’autrice che aveva già pubblicato Ghatges: The Rise of a Royal Dinasty, 1398-2022.
Come mai ha deciso di divulgare le ricerche su Rajaram Chhatrapati?
Non mi considero una scrittrice, né una storica, ma qualcuno doveva farlo, altrimenti il racconto sarebbe andato perduto, per sempre. Durante la pandemia non c’era nessuna distrazione e ho avuto la piena concentrazione per farlo. Ero un po’ spaventata perché non è un romanzo e ho verificato ogni frase. Volevo evitare che qualcuno potesse dire: ma che ha scritto questa? Mi sono immersa negli archivi inglesi. I documenti sono difficili da decifrare. Ma è stato molto eccitante essere la prima.
Ho realizzato che la nostra famiglia era in relazione, direttamente o indirettamente, con alcune fra le più sorprendenti figure storiche in India o all’estero.
Rajaram Chhatrapati arrivò in Europa a giugno e morì a novembre. Incontrò la Regina Victoria, visitò la Francia, il Belgio, la Germania, l’Austria. Vide la neve e provò un tale stupore che, con il suo seguito, avrebbe voluto portarne via un po’ in una scatola.
A Colonia cominciò a sentirsi male, il gelo di Innsbruck peggiorò la sua condizione e quando giunse a Firenze si fece visitare da un medico occidentale e dopo un illusorio miglioramento, si spense. Era giovanissimo ma in viaggio visse molte esperienze.
All’epoca a vent’anni erano giovani, ma uomini fatti.
Appunto. Adesso nemmeno a cinquanta.
Era già stata a Firenze?
Sì, da turista. Ma l’interesse per lui è nato dopo, forse otto anni fa. Avevo in mente un acquerello che mostra la visita del principe Shahu I, Maharaja di Kolhapur, al monumento fiorentino di Rajaram Chhatrapati, nel 1911. Questo dipinto mi è stato dato da mia suocera quando mi sono sposata.
Quando decisi di andare a cercare il cenotafio, sapevo solo che si trovava lungo le banchine dell’Arno. In internet non scoprivo niente perché ignoravo il nome locale: l’Indiano. Al principio fu solo curiosità di viaggiatrice, senza che ci fosse un collegamento con la nostra famiglia. Camminammo sotto la pioggia intensa, doveva essere ottobre: un’avventura. Senza nessuno al quale chiedere e con le scarpe sbagliate, dai tacchi alti.
Ora ha stabilito con Firenze una relazione interiore fortissima.
È come arrivare in famiglia, al di là del tempo. Io sono sola qui, ma mi sento a casa. Mio marito sarebbe dovuto venire con me, ma mio nipote è impegnato con le elezioni e mio marito è come un padre per lui. Mio figlio e mia nuora non potevano lasciare il paese perché stanno facendo campagna elettorale. In politica la famiglia è molto importante…
È che ho apprezzato tanto la generosità dei fiorentini. A quell’epoca, in un paese cattolico, la cremazione era vietata, credo punibile addirittura con la prigione. D’altronde, essendo Chhatrapati un hindu di casta alta non c’era altra scelta che cremarlo. Certo le relazioni diplomatiche avranno contato, ma ci fu molta sensibilità nella gente della città. Dare il permesso di incenerire il corpo del principe per rispettare un’altra religione dimostrò un’apertura di mente straordinaria. Un atto di grande gentilezza, qualcosa di cui essere grati e non dare assolutamente per scontata.
Se volgiamo lo sguardo sul mondo di oggi, per esempio, è triste: nonostante il nostro approccio moderno siamo ancora tanto dogmatici su certi aspetti. L’Induismo è aperto, una specie di “vivi e lascia vivere”, ma ci devi essere cresciuto per comprenderlo. È molto spirituale e difficile da spiegare.
Ha accennato anche alla gratitudine che prova per la sua famiglia, i Ghatges di Kagal.
È un privilegio appartenervi e aver scritto il libro è una restituzione, un’espressione della mia gratitudine. Penso di essere molto fortunata anche si ci sono un sacco di obblighi: non puoi far questo, non puoi far quello. Quando mia nuora si innamorò di mio figlio e venne a conoscermi le dissi che avrebbe dovuto rinunciare ad alcune cose, e indossare il sari. Se mi domandassero perché, aggiunsi, non saprei dare una risposta logica: semplicemente lo devi fare. In cambio, la famiglia ti darà molto di più.
Quando mi sono sposata, a ventiquattro anni, alcune persone toccavano i miei piedi in segno di rispetto. Non avevo fatto niente: il rispetto era per la famiglia, non per me. Anche ora, lei non sta intervistando me, ma chi ha combattuto per la libertà. Io rimango con i piedi per terra, so chi sono e non pretendo di essere qualcun altro.
L’umiltà dei Ghatges è qualcosa da cui imparare, specialmente mia suocera è una signora interessante. Ha avuto una tata anglo-americana e prima di sposarsi ha girato per il mondo. Anche su Firenze mi ha consigliata, e i suoi non erano periodi di blog e social: mangia questo formaggio, bevi questo vino, vai in un certo luogo. Una lettrice instancabile, con un grande senso dell’umorismo.
Il ponte intitolato a Rajaram Chhatrapati, inaugurato nel 1978, sa quante volte all’ora è nominato? Imbocco il viadotto dell’Indiano, prendi l’Indiano…
Il maharaja di Firenze è proprio diventato un’icona!