La tenebra russa è unica,
è la sola a poter essere consacrata.
La tenebra russa, materna e profetica

(Alexandr Dugin, Il soggetto radicale)

Perché il pensiero di Alexandr Dugin dà fastidio a non pochi? Eppure anche il professore americano Samuel P. Huntington (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000) presenta tesi simili per un mondo multipolare sulla base di aree culturali omogenee, eppure solo Dugin accende vivaci simpatie quanto altrettanto vivaci antipatie. Anche una certa affinità per Eraclito e il suo principio del Polemos/Fuoco quale animatore del divenire accomuna l’americano al russo ma mentre l’approccio ermeneutico dell’esperto statunitense appare tecnico-asettico, l’approccio di Dugin si mostra olistico, mitizzante, performante e forse questa è la ragione del turbamento che circonda il suo pensiero: il timore che questo pensiero possa attrarre i giovani e possa farsi azione rivoluzionaria e contestatrice, anche se l’approccio dughiniano assume quasi sempre un tono ermeneutico-riflessivo e non rivoluzionario-proiettivo.

Proviamo ad analizzarlo in chiarezza, per quanto si possa farlo in poche pagine. Per prima cosa si tratta di un pensiero sociale e politico nel senso più profondo e pieno del termine.

Dugin è professore di sociologia e la sua filosofia è una “filosofia del sociale”, quindi già in questo aspetto appare originale e strana per un pubblico italiano non più abituato ai temi sociali. Ma con che approccio? Dugin riutilizza il concetto di “paradigma”, in Italia poco valorizzato, cioè il suo è un pensiero che parte dal mito della Praxis per volgersi tutto alla plasmazione delle coscienze e delle relazioni percettive e psicosociali. Il “soggetto radicale” che lui propone nel suo libro più importante dal medesimo nome, è un nuovo “paradigma” cioè un modello performante pensato per plasmare la materia psicosociale umana.

Il presupposto del pensiero paradigmatico lo possiamo trovare ovviamente nella dialettica hegeliana ma presenta una sua anticipazione nel pensiero di Pico della Mirandola del Discorso sulla Dignità umana dove l’umanista quattrocentesco configura l’essere umano non più tanto quale “persona” inattaccabile ma quale “uomo-ponte” tra l’angelo e l’animale, gettando così le premesse su un approccio demiurgico-sperimentale alla politica culturale e sociale. Da Pico al Nietzsche dell’Uomo-corda passando per Hegel (ma senza deviare né a destra e né a sinistra), Dugin rilancia un pensiero sperimentale-prometeico che mira a trasformare nella prassi l’autocoscienza umana.

Il “Soggetto Radicale” assume così la forza dell’ideale mista all’efficacia del concetto esemplare e compendia umanisticamente tutti i paradossi degli opposti del divenire ponendosi quale sorta di nuovo “punto zero” o “sole di mezzanotte” per una “trasvalutazione dei valori” neo-nicciana-hegeliana.

L’arte pittorica magnetizzante e iconica del suo amico e collaboratore Alexey Beliayev-Guintovt riassume in immediatezza questa nuova sintesi ermeneutico-mitopoieutica tentata dal pensatore russo: il rosso sovietico-imperiale congiunto alla lamina d’oro bizantina-metafisico-mistica. L’arte spesso permette di comunicare con una velocità, chiarezza e interezza che le parole per loro natura non possono garantire.

Dal punto di vista russo questo pensiero mira a soddisfare un’esigenza vitale per la sopravvivenza dell’autocoscienza russa e della Russia quale Ideale: ricostruire un tessuto storico-culturale-ermeneutico organico e continuativo nel e dell’anima russa che oltrepassi creativamente i traumi della storia: una Russia che domini il suo passato e non lo subisca in modo da porsi di nuovo quale modello universale e mondiale per il futuro.

Dugin sembra realizzare nel suo pensiero le istanze del movimento Pamjat, il quale faceva sfilare in cortei pubblici le foto di Stalin e dello Zar Nicola II come fossero icone complementari della “russità”. Epifanie che stupiscono un occidentale ma possono essere comprese psicosocialmente e culturalmente.

Il problema è dato dal fatto che questo approccio di “alta strategia politico-culturale” appare molto distante dalla percezione occidentale degli ultimi due secoli: Dugin è un filosofo dell’“etnos” (per riaggregare la Russia quale potenza euro-asiatica) ma il concetto di etnos è stato spazzato via in Europa occidentale dal 1789, data di nascita della modernità quale “mito di massa”.

Dugin riassume la dialettica hegeliana in una prospettiva da ekpirosi orfico-apocalittica e così facendo apre a un nuovo “marxismo totale”, non più ateo ma spiritualista e assorbente ogni istanza sciamanica, magica, neo-etnica: un approccio poco comprensibile per molti occidentali che hanno perso il senso dell’Evoluzione quale istanza superiore, storica e/o interiore ma quasi logico per la storia della cultura russa.

Per un occidentale è difficile cogliere in unità il pensiero dughiniano in quanto vuole essere un pensiero imperiale e ogni impero ha bisogno di un pensiero utile a mediare tra più polarità culturali. La Russia comprende Ortodossia, Buddismo e Islam. Dugin apprezza la teologia della luce dell’Islam iranico e sciita, come lo spirito essenziale, ascetico e ritualizzante del Buddismo più tradizionalista e aristocratico. La sua filosofia non può che porsi come essa stessa “multipolare” se vuole dimostrarsi utile ad una Russia neoimperiale.

Ma quale è il nucleo essenziale, quindi, di tale metamorfismo? Certamente il Dugin più profondo e autentico: quello ortodosso, slavo, russo. Personalmente apprezzo degli scritti dughiniani quelli che esprimono uno spirito apocalittico, messianico, profetico perché questa è l’essenza della Russia quale Comunità-Destino mossa da una missione messianica universale e tutto ciò irradia un senso di entusiasmo mitogonico, irradiante.

Il nostro autore in questo si mostra coerente: recuperare una spiritualità cristiano ortodossa più autentica e tradizionale di quella ufficiale seguendo l’esempio dei “Vecchi credenti” cioè di quella parte (minoritaria) dell’Ortodossia che rifiutò le riforme occidentalizzanti e istituzionalizzanti di Pietro il Grande. Una sorta di “ortodossia con elementi sciamanici e ancestrali” più vivi e più pulsanti alla ricerca di un’idea di “comunità totale”, sorgiva.

Appare però un’apparente contraddizione (sempre agli occhi occidentali), e dico “apparente” perché in una dialettica eraclitea-hegeliana ogni opposto tende a ri-sintetizzarsi in un livello di evoluzione ulteriore: Dugin riprende con forza e insistenza due autori occidentali, cioè Guenon ed Evola. Il primo gnostico-massone-islamico sufi e l’altro esoterista, neopagano e vicino ad ambienti massonici neotradizionali romani espressi, tra i molti, dall’amico e collaboratore neopitagorico Arturo Reghini.

Perché? Si vuole rilanciare la Russia non solo quale polo tradizionalista ma pure quale vessillo-forma esoterica? La via della rinascita della Russia quale Impero non implica il rifiuto di ogni contaminazione occidentale? Certo: sono due autori neotradizionalisti affascinanti e favorevoli a un Impero spirituale superiore ma a mio parere appaiono anche profondamente occidentali proprio nel loro percorso. Guenon ed Evola possono anche essere apprezzati quali tentativi di uscire dall’Occidente quale crisi attraverso pratiche magico-rituali. Ma il tema della crisi dell’individuo resta centrale e non eludibile quale presupposto stesso della loro opera.

Un Guenon e un Evola asiatici avrebbero poco senso e infatti non si ravvisano figure simili fuori dall’Europa occidentale. Guenon è vero che lascia l’Europa per un Egitto islamico-sufico ma è stato per molti anni appartenente alle correnti più gnostiche della Massoneria. Evola rilancia un Impero ma si tratta di un sogno nostalgico neopagano, anticristiano, e il suo sciamanesimo sincretista se assorbe anche elementi stoici e plotiniani, che possono piacere ad una Russia neotradizionale “per via bizantina”, dall’altra parte non permettono di apprezzare il “mago” siculo-romano al di fuori dell’individualismo occidentale che lui stesso vuole estremizzare ed esasperare per provare a superarlo dialetticamente.

Il pensiero di Evola infatti appare una “filosofia della volontà” che spinge all’auto-eroismo interiore, ma pure appare dottrina assolutamente non originale ma in gran parte debitrice da una parte dell’opera di Giordano Bruno (totem assoluto del pensiero massonico) e dall’altra della filosofia di Fichte e di Stirner. Nulla di nuovo sul fronte occidentale. Non a caso Evola cita spesso (pur senza indicare gli autori che riprende) passi di Agostino, Tommaso d’Aquino, Francesco Bacone e Aristotele ma ripresi in senso neoevolutivo-dialettico.

Lo stesso Evola si pone, infine, come ultimo alfiere-baluardo dell’Occidente quale mistero e quale essenza. L’equazione dell’idealismo volontaristico di Fichte “Io = Io” che sostituisce l’Essere di Dio con un Io che si auto-plasma ritorna nei paradigmi di ascesi eroica guenoniani, evoliani e dughiniani. Il concetto stesso di “paradigma” appare performativo al massimo a patto che l’uomo sia qualificato gnosticamente in classi ontologiche e gerarchie esistenziali, oltre che visto quale materiale sperimentale plasmabile per via rituale.

L’obiezione del solipsismo e della non alternatività al potere che possiamo muovere inoltre all’Unico di Stirner vale anche per il Soggetto radicale di Dugin che appare più un’Idea-Simbolo temporanea, utile per una fase di una guerra culturale totale, che una nuova categoria filosofica.

Il problema del paradosso dell’auto-legittimazione ontologica che possiamo giustapporre all’Io assoluto di Evola quale Essere impersonale a cui si accede però solo per via individuale-egoica, ritorna con il soggetto radicale di Dugin. Immagine affascinante, quasi omni-inclusiva, ma vuota, a-nomica, autoreferente. L’”Individuo Assoluto” di Evola stenta similmente a proiettarsi socialmente ma appare ripiegato esotericamente su sé stesso in una singolarità non negoziabile ma pure intransitiva, monadica.

Oltre a ciò l’esoterismo guenoniano-evoliano se può aiutare a rileggere e rimitizzare la storia e orientare alcune politiche culturali si mostra più debole e più criticabile quale alternativa politico-sociale al modello tecnocratico-borghese di potere, oggi dominante in due terzi del mondo. Questo in primo luogo per un semplice fatto storico inoppugnabile: anche il liberalismo ha le sue filosofie e i suoi esoterismi. Uno di essi è potente e molto organizzato e si chiama Massoneria: una filosofia che ha due secoli di storia europea e mondiale.

Non basta quindi l’esoterismo di per sé a scalzare un modello di potere. Gli esoteristi infine spesso collaborano con l’assetto di potere in corso come la vita degli stessi Guenon ed Evola dimostrano e questo da sempre, da Francesco Bacone e John Dee in poi almeno per quanto riguarda la storia occidentale moderna. Ma quale potente nella storia non ha avuto i suoi maghi e i suoi filosofi a corte? Aleister Crowley non aiutò Churchill con rituali magici per la vittoria militare?

Oltre a ciò l’esoterismo moderno appare difficilmente gerarchizzabile e distinguibile ai più: appare facile confondere Papus con Sri Aurobindo, Eliphas Levi con la “Philosophia perennis” di Aldous Huxley, molto simile a quella impersonale e sincretistica di Evola tra l’altro. Come distinguere l’iniziazione guerresca-romana predicata da Evola con quella gnostica o sufica di Guenon? Come distinguere la filosofia della storia di Evola dai Grandi Iniziati di Eduard Schuré?

La Modernità nasce sempre da radici magico-esoteriche (c’è un rivoluzionario che non sia stato indirizzato esotericamente?) e i suoi cambi di paradigma appaiono scansiti da pubblicazioni esoteriche: Il mattino dei maghi di Louis Pauwels e Jacques Bergier (1960, ma rilanciato in Italia negli anni 80-90), le opere di rilettura gnostica della modernità e del Novecento di Giorgio Galli, e la stessa “teologia greca del sesso” di Roberto Calasso che con le sue Le Nozze di Cadmo ed Armonia (1988) segnò il passaggio italiano al postmoderno de-storico.

Fu l’Inghilterra vittoriana che inventò, per scopi di egemonia geopolitica in India e nell’Asia, l’esoterismo moderno quale forma di sincretismo neognostico di mediazione fra Induismo e Cristianesimo. L’Università di Benares ne fu l’incubazione, al fine di ottenere una dottrina-prassi utilizzabile dai livelli intermedi della classe dirigente imperiale britannica come pure dalle élite locali. Chi può garantire poi che un rilancio dello sciamanesimo, oggi molto in voga, non abbia esiti solo tribali se non addirittura anarchici o violenti, contrari quindi ad una visione riaggregativa e imperiale?

L’esoterismo infine non è solo la base della Modernità quale mito rivoluzionario e quale regime totalizzante ma sorge anche quale succedaneo-palliativo occidentale per la crisi delle religioni storiche rivelate. Il rilancio dell’esoterismo quindi può attecchire solo in quegli occidentali che non praticano una religione storica rivelata ma nel contempo pongono al centro della loro vita un’istanza di ascesi e di trascendenza. Scelta di vita radicale, non semplice gusto narrativo nel leggere i testi guenoniani-evoliani.

Si tratta di una piccola minoranza, eccessivamente esigua per rappresentare un fattore rivoluzionario. Questi due stessi autori avevano indicano la loro “via” quale via per pochi, non per molti. Ma allora come distinguere chi ama una società organica e rifiuta il modello tecnocratico-recitativo da chi aderisce a uno stile elitario? Non certo appunto per le letture o per pratiche magico-sciamaniche.

Se non si propone una reale “filosofia dell’Essere” come quella cristiana o greco-heiddegeriana allora non ci sarà limite ai processi egoici autoappropriativi, e quindi anche un vip miliardario elitario e autoritario potrebbe ritenersi evoliano e praticare la magia quale “scienza dell’Io” o fondare una confraternita sufi secondo lo gnosticismo sincretista che accomuna questi due autori.

Tutto questo confligge con la naturale socialità della Russia quale Stato-Comunità. Russia, Stato, Terra e Comunità sono realtà archetipali non scindibili. Simul stabunt et simul cadunt. Completamente differente la visione occidentale della democrazia borghese, oggi in piena crisi, dove lo Stato coincide invece con l’individuo e i suoi diritti-libertà. La “storia” per Evola è la storia dell’“uscire dal mondo”. Il movimento inverso, di egemonia cratofanica sul mondo, resta un dilemma aperto. Lo snodo problematico del “soggetto” resta quindi critico e ambiguo. Il tema di come mediare tra immanenza e trascendenza è in realtà il medesimo tema partecipativo di come mediare fra i singoli soggetti.

Se quindi Dugin appare convincente, da un punto di vista russocentrico, nel valorizzare i “Logoi” incarnati nell’etnos centroasiatico insieme ad un carisma cristiano constantiniano-greco-romano, dall’altra il suo assorbimento di gran parte della parabola filosofica occidentale (Hegel, Heidegger, Evola) rende difficile la reductio ad unitatem della sua filosofia, come rende difficile per una certa idea di Russia fare del tutto a meno dell’Occidente stesso.

Eppure il nostro autore sta svolgendo un ruolo storico per la Russia in quanto l’Ortodossia, a differenza del Cattolicesimo, non ha mai sviluppato un significativo e autonomo pensiero-prassi di tipo sociale e per questo l’Impero zarista prima e il comunismo dopo sono intervenuti per colmare questa carenza storica con un certo spirito di riforma comunitaria. Ora ci sta provando questo etnosofo russo dal pensiero non soggettivista ma comunitario e russo-olistico.

Il rischio per ogni filosofia politica integrale nel tempo del globalismo è finire involontariamente a svolgere un ruolo di mero ingrediente tra i molti della società-fiction e/o un ruolo di mero fattore di un conflitto mondiale in realtà solo orwelliano, fine a sé stesso.

Abbiamo quindi due Dugin: quello russo-imperiale e cristiano-sociale sulla scia di Kostantin Leont’ev e Nicolaj Berdjaev (coerente e non privo di fascino) e il Dugin “magico-sciamanico” più asiatico e più ancestrale, ma nel contempo questo è anche il Dugin che sconta appunto l’incoerenza di recuperare pensatori occidentali, anzi massimamente occidentali proprio nel loro stigmatizzare l’implosione dell’Occidente quale Ideale. Il rivalutare temi-immagini archetipali tratte dal mito greco e dall’Orfismo (come l’immagine dell’Uovo e della Notte) appare operazione affascinante ma non sembra bastare a trarre in unità queste due polarità differenzianti. Lo stesso “Soggetto Radicale” appare più un nuovo totem magnetizzante, una polarità psico-culturale ri-aggregante che un nuovo percorso filosofico.

Forse l’Occidente, abituato a una filosofia speculativa, stenta a comprendere un pensiero così sperimentale, magmatico e prometeico. Forse sarebbe stato più efficace per un nuovo pensiero russocentrico olista fare del tutto a meno dell’idealismo estremo occidentale, rifiutare alla radice “l’abisso della fine dell’Occidente”, anche perché come ricorda lo stesso Nietzsche in “Al di là del bene e del male” (1886): “quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro” (con esiti imprevedibili…) ma per ogni Impero è chiamato a proiettare un suo influsso culturale (oggi detto: soft power) e quindi era necessario proiettarsi anche dentro l’Europa occidentale alleandosi con il pensiero di autocritica neotradizionale dell’Occidente stesso, anche se alieno dall’autentica anima russa.

Certamente l’Italia appare lontana culturalmente da questo pensiero in quanto ha da tempo abbandonato a favore dell’individualismo borghese ogni senso di Comunità e di Stato, come ogni percezione mistico-sociale di un Fato imminente. Oggi parlare di “civiltà” in Italia può valere ancora solo per il passato. Per la Russia invece è il tema del futuro, è il futuro.

Un discorso ancora in corso…