Tra le divinità del Pantheon greco, originale ed affascinante risulta la figura di Efèsto (Ἥφαιστος, Héphaistos), che viene ricordato nel racconto mitologico come figlio di Zeus e di Era (cfr. Poemi omerici, Iliade, Libro I, versi 590-594; Iliade, Libro XVIII, versi 394-405; Odissea, Libro VIII, versi 266-366), oppure, secondo altra tradizione (cfr. Esiodo, Teogonia, versi 927-929), come figlio della sola Era che lo avrebbe creato con una forma di partenogenesi (senza intervento maschile), in quanto indispettita e ingelosita dalla nascita di Atena, generata dalla testa di Zeus senza il contributo di alcuna donna.
Efèsto veniva adorato nel culto religioso degli antichi Greci come dio del fuoco terrestre, che si manifesta soprattutto nei vulcani, nonché come protettore delle arti umane basate sull’elemento igneo: quindi, dio delle fucine e della metallurgia, fabbro divino, artefice di straordinarie opere di tecnica e forgiatura artistica dei metalli; anche l’etimologia del nome del dio potrebbe essere ricollegata a queste caratteristiche, se si ritiene plausibile la derivazione dal verbo ἅπτω, hápto, “accendere il fuoco”, “incendiare”, che nella declinazione passiva presenta anche la forma ἥφθην, héphthen, “infiammarsi”, “prendere fuoco”.
Il dio dei vulcani, sede prediletta delle officine del dio-fabbro (Vulcanus per i Romani), viene descritto in modo costante e ricorrente come “zoppo”, in seguito ad un’infermità che il mito racconta in due versioni principali: secondo una prima leggenda (cfr. Omero, Iliade, Libro I, versi 590-594 ), durante un litigio tra Zeus ed Era, Efèsto si schierò in difesa della madre e, per questo motivo, fu afferrato dal padre per un piede e scagliato giù dall’Olimpo fino ad atterrare esausto, dopo un intero giorno di viaggio in aria, sull’Isola di Lemno (di natura vulcanica), nel Mar Egeo settentrionale, dove fu raccolto e curato dai Sinti, popolazione tracia che lo trasse in salvo senza tuttavia poter evitare la disabilità causata dalla caduta.
Secondo un’altra versione del mito (cfr. Omero, Iliade, Libro XVIII, versi 394-405), invece, Efèsto sarebbe stato zoppo sin dalla nascita e, pertanto, risultando “sgradito” alla madre Era - che, vergognandosi del suo aspetto fisico “imperfetto”, non voleva mostrarlo alle altre divinità -, venne precipitato dalla stessa Era dall’alto dell’Olimpo e cadde nell’Oceano: qui fu accolto dalle Nereidi Teti ed Eurinòme, ninfe marine, le quali lo salvarono, lo accolsero e lo allevarono in una grotta sottomarina, utilizzata in segreto per nove anni come prima fucina del divino fabbro che in questo periodo forgiò “molte artistiche cose”, tra le quali collane e monili di splendida qualità; in seguito, per la dovuta riconoscenza, egli fabbricò anche lo scudo, l’elmo, la corazza e gli schinieri richiesti da Teti per suo figlio, le nuove e scintillanti armi di Achille.
La dettagliata descrizione omerica dello scudo “in ogni parte adorno” e delle altre armi di Achille, articolata in oltre cento versi (cfr. Omero, Iliade, Libro XVIII, 478-612), evidenzia l’ampio concetto greco di τέχνη, téchne, inteso sia come “tecnica” sia come “arte”, e quindi come perfetto connubio e mirabile sintesi dell’abilità artigianale del dio del fuoco nella lavorazione dei metalli e della capacità di produrre manufatti contrassegnati dalla bellezza e dall’armonia dell’arte: Efèsto, infatti, di fronte a Teti, intervenuta per richiedere le nuove armi di Achille in sostituzione di quelle cadute delle mani dei Troiani a causa della morte dell’amico Patroclo, la rassicura dicendo: «avrà armi bellissime, tali che le ammirerà ognuno che le veda, anche fra molti mortali» (cfr. Omero, Iliade, Libro XVIII, versi 466-467).
La straordinaria abilità tecnica di Efèsto, e il suo eccezionale ingegno artistico, risultano attestati anche da altri due famosi episodi tramandati dalle fonti letterarie, nei quali si evidenzia inoltre l’ulteriore portato semantico della téchne greca, intesa altresì come “stratagemma, tranello, inganno, astuzia”: in un primo caso, secondo il racconto di Igino, mitografo del II secolo d.C. (cfr. Fabulae, 166), Efèsto, verosimilmente per vendicarsi dell’espulsione dall’Olimpo, costruì per la madre Era un magnifico trono d’oro contenente catene invisibili che, non appena seduta, la imprigionarono senza possibilità di riacquistare la libertà, se non grazie all’intervento del divino fabbro, il quale, tuttavia, non era inizialmente disposto a sciogliere i lacci immobilizzanti; alla fine, Efèsto fu persuaso da Diòniso, dio del vino, che a tal fine lo fece ubriacare e lo ricondusse nella Casa degli dei a dorso di mulo insieme ad un corteo festante; Efèsto liberò la madre Era ed ottenne, in contropartita, di poter avere in sposa Afrodite, dea della bellezza e dell’amore.
L’estro ingegnoso del divino fabbro ricorre anche in un’altra occasione, nella quale Efèsto utilizza di nuovo le catene invisibili, questa volta per svelare il tradimento di Afrodite, nel frattempo divenuta amante di Ares, dio della guerra: Omero, infatti, racconta (cfr. Odissea, Libro VIII, versi 266-366) che Elio, il Sole, che tutto vede nel Cielo e sulla Terra, aveva confidato l’adulterio ad Efèsto il quale, al fine di smascherare i due amanti e rendere il tradimento di pubblico dominio, aveva forgiato una rete invisibile che intrappolò Afrodite ed Ares non appena distesi nel talamo, esponendoli così - immobilizzati da lacci e nodi indissolubili - alla vista ed alla derisione degli altri dei, fino a quando, su intercessione di Poseidone, le catene furono sciolte dal dio tradito e gli amanti, svincolati, fuggirono lontano.
La fucina di Efèsto viene descritta nei poemi omerici come un luogo magico e misterioso, nel quale si muovono creature meravigliose, assimilabili ad automi semoventi, stupefacenti prodotti di ingegneria meccanica, plasmati dalla perizia tecnica del dio nella lavorazione dei metalli: quando Teti, per chiedere le nuove armi di Achille, arriva presso la dimora di Efèsto (“stellata”, “indistruttibile”, “bronzea”, cfr. Omero, Iliade, Libro XVIII, versi 369-377), trova il dio-fabbro al lavoro nella sua officina, intento a forgiare venti tripodi d’oro, tavolini robotizzati, dotati di ruote grazie alle quali potevano spostarsi automaticamente (autómatos in lingua greca), cosicché erano in grado di entrare da soli nell’assemblea degli dei e di ritornare autonomamente a casa, dopo aver esaurito la loro funzione di servizio.
E ancora: nella sua officina, Efèsto aveva come aiutanti “due ancelle d’oro, simili a fanciulle viventi per intelletto, voce e forza, istruite nel lavoro per dono degli dei immortali” (cfr. Omero, Iliade, Libro XVIII, versi 417-420); inoltre, le fornaci della fucina venivano alimentate da venti mantici automatici che soffiavano sul fuoco modulando l’intensità in base agli ordini del dio (cfr. Omero, Iliade, Libro XVIII, versi 468-473); anche in questi casi, si trattava di creature metalliche meravigliose, automatizzate, animate (in quanto si comportavano come esseri viventi) ed immortali (in quanto costruite in materiale non deperibile). Efèsto fabbricherà lo scudo di Achille intarsiato con metalli di vari colori, dopo aver preparato la relativa lavorazione:
rame indistruttibile gettò nel fuoco, e stagno, oro prezioso e argento; e poi pose sul piedistallo la grande incudine, afferrò in mano un possente martello, con l’altra afferrò le tenaglie.
(cfr. Omero, Iliade, Libro XVIII, versi 474-477)
L’immagine di Efèsto, intento nella sapiente lavorazione dei metalli con gli strumenti tipici del fabbro, ed altre raffigurazioni del dio del fuoco, sono state tramandate non soltanto dalle fonti letterarie, ma anche da altre fonti documentarie, quali le rappresentazioni nelle arti figurative e ceramiche, nonché le testimonianze numismatiche, tra le quali risulta particolarmente interessante soprattutto la monetazione di Lipari (odierna provincia di Messina), in quanto prodotta in un’isola vulcanica presso la quale la tradizione poetica narrava la presenza di una fucina amministrata dal dio del fuoco con l’ausilio dei Ciclopi, i mitici Giganti dotati di un solo occhio:
subito andò alla ricerca dei Ciclopi; li incontrò presso l’isola di Lipari che stavano sull’incudine di Efèsto intorno ad un ferro incandescente.
(cfr. Callimaco, Inno ad Artemide, 46-49)
La Zecca dell’Isola di Lipari, nota nell’antichità con il nome di Lipara, la più grande dell’Arcipelago delle Eolie (sito di fronte alla costa nord-orientale della Sicilia), fu attiva a partire dal V secolo a.C. nelle coniazioni monetarie in bronzo recanti come tipi caratteristici Poseidone (dio delle acque), suo figlio Eolo (mitico fondatore dell’isola e re dei venti) e, soprattutto, Efèsto: tra le più antiche rappresentazioni di quest’ultimo, riportiamo i due seguenti documenti monetali, databili intorno al 420 a.C., nei quali, al dritto, viene riportata la testa del dio “barbato” (cioè, dotato di barba) e “pileato”, che cioè indossa uno degli attributi iconografici più ricorrenti, il pìleus, voce latina indicante il pileo, il berretto conico di feltro usato come copricapo tipico degli artigiani.
Al rovescio, la legenda in caratteri greci (ΛΙΠΑΡΑΙON, LIPARAION e ΛΙ, LI), ovverosia l’iscrizione che attesta (per esteso o in abbreviazione) il centro emittente, circonda alcuni “globetti” circolari, che fungono da “segni” di valore, cioè sono rappresentativi del peso/valore della moneta, che nella fattispecie è un sottomultiplo della litra (di bronzo, in origine circa 218 grammi), tipica unità ponderale-monetaria della Sicilia, suddivisa (come la libra, “libbra” romana) in 12 “once”; mentre la litra d’argento era una moneta di piccole dimensioni (0,87 grammi circa), assimilabile all’òbolo ateniese, la litra di bronzo (talvolta anche detta dracma) era una moneta di grandi dimensioni, frazionata per comodità d’uso in unità divisionarie minori, più facilmente spendibili nelle ordinarie transazioni quotidiane alla stregua degli “spiccioli”.
Nei mercati al dettaglio, pertanto, circolavano le suddivisioni della litra di 12 once: l’hemílitron (“mezza litra”, 6/12, corrispondente al semis romano), il pentónkion (5/12, pari al quincunx romano), il triâs (4/12, pari al triens romano), il tetrâs (3/12, pari al quadrans romano), l’hexâs (2/12, pari al sextans romano), l’ounkía (1/12, pari all’uncia romana).
Nella prima immagine (sopra), si tratta di un esemplare di tetrâs (pari al “quadrante” romano) o quarta parte della litra, indicata da 3 globetti = 3 “once” = 3/12 o ¼ di litra, moneta rinvenuta con peso variabile tra 20 e 28 grammi circa; nella seconda immagine (sotto), si tratta di un’ounkía, “oncia”, indicata da 1 globetto = 1 “oncia” = 1/12 di litra, moneta rinvenuta con peso variabile tra 6 e 10 grammi circa.
La successiva moneta rappresenta al dritto un Efèsto giovane e nudo, seduto su un trono rivolto a destra, nell’atto di impugnare un martello (altro caratteristico attributo iconografico), tenuto nella mano destra con braccio abbassato, ed un kántharos (tipica coppa per il vino) tenuto nella mano sinistra con braccio proteso.
Al rovescio sono presenti tre globetti circondati dalla legenda ΛΙΠΑΡΑΙON, “LIPARAION”, relativa al centro emittente; si tratta di un altro bel esemplare di tetrâs, moneta del valore di 3/12 di litra, databile intorno al 410 a.C. circa, rinvenuta con peso variabile tra 1 e 10 grammi circa.
Per concludere questa breve rassegna numismatica, di seguito un bronzo più recente, databile al III-II secolo a.C., moneta molto rara, rinvenuta con peso variabile tra 5 e 7 grammi circa: al dritto viene riprodotta la testa giovanile e pileata di Efèsto, nel campo a destra l’iscrizione dell’etnico di Lipari, al rovescio una tenaglia, altro tipico strumento di lavoro ed attributo iconografico del divino fabbro.
Fonti numismatiche
M. Puglisi, La Sicilia da Dionisio I a Sesto Pompeo. Circolazione e funzione della moneta, 2009.
G. Buceti, Monete, storia e topografia della Sicilia greca, 2010.