Ogni volta che leggo nella mia lingua un libro di un autore o un’autrice stranieri, mando un simbolico ringraziamento a chi quel libro l’ha tradotto. A chi cioè, trasferendo da un idioma all’altro storie e concetti, geografie e sentimenti, mi regala l’incontro con scrittori e mondi che altrimenti non avrei occasione di conoscere. Di più: se leggendo mi emoziono, sorrido, piango, mi stupisco, mi capita di pensare che, grazie a chi traduce, in quello stesso momento in un altro luogo del Pianeta dove si parla con vocaboli lontanissimi dai miei, c’è qualcun altro che, con in mano lo stesso libro, sorride, piange, si emoziona in quello stesso passaggio della storia. È un filo invisibile che unisce: a me pare una specie di magia, meravigliosamente umana.
Per questo sono grata a chi traduce: col suo lavoro è capace di attraversare confini e di farli varcare anche a te che leggi, senza mai lasciare la tua comoda postazione. È una professione da retrovie, di ricerca e indagine, che si muove sulla sottile linea tra fedeltà e creatività, richiedendo una smisurata conoscenza delle lingue nelle quali immergersi, dentro le quali scavare per scoprire il termine più appropriato, che restituisca non solo il senso, ma il colore e l’intenzione originale dell’autore. E però, nella mia vasta stima per chi svolge questo encomiabile mestiere, culturalmente e anche socialmente utile, un piccolo tarlo resta: quanto sono davvero fedeli al testo?
L’ho chiesto a Ilide Carmignani, figura di spicco nel mondo della traduzione letteraria dallo spagnolo, che negli anni ci ha portato tra le pagine di grandi scrittori. Per citarne solo alcuni: Roberto Bolaño, Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Gabriel García Márquez e Luis Sepulveda, del quale è stata traduttrice ufficiale tutta la vita.
Traduttrice traditrice, traduttore traditore: è un vecchio adagio, ma la colpa è della natura stessa delle lingue. Ognuna ha parole intraducibili e questo è il bello: descrivono la realtà in modo unico, dicendo certe cose e tacendone altre. Perfino un fenomeno universale come i colori è percepito diversamente in ogni idioma. Non è una maledizione di Babele, ma una benedizione: la pluralità è ricchezza. Pensiamo a Pirandello: anche all’interno della stessa lingua ognuno ne parla una personale, una parte comune e un’altra con coloriture uniche. L’incontro con chi si esprime con parole estranee, straniere, diverse (anche il dialetto) è fertile e arricchente: t’invita a metterti nei suoi panni e a vedere te stesso da fuori, evitando il destino di Narciso che si perse nel proprio riflesso.
Le parole intraducibili le racconta nel libro Saltare nelle pozzanghere (alla seconda ristampa) che ha scritto insieme con Elena Battista, illustrato da Anna Godessi. Espressioni che esistono solo in una lingua, ma che possono raccontare emozioni universali. E lì come se la cava chi traduce?
Il libro è un elogio di Babele: una raccolta che abbiamo voluto concentrare solo su vocaboli di pace e bellezza, che esplorano come si è felici in diverse lingue. Lemmi che permettono di nominare emozioni che non avevamo mai incontrato prima. Laddove manca il nome, manca la piena consapevolezza. Pensiamo al piacere, al senso di pace e comunione con la Natura che dà passeggiare da soli in un bosco, descritto da una parola tedesca unica: waldeinsamkeit. Anche se culturalmente diversa, questa esperienza risuona e ci insegna qualcosa: oggi che anche in Italia abbiamo ritrovato maggiore consapevolezza del rapporto con la Terra e il verde potremmo perfino usarla ed è anche un suggerimento per accorgersi della felicità nei piccoli piaceri a costo zero.
Oppure espressioni come blüttle (di radice svizzera tedesca, ndr) che celebra il piacere di spogliarsi nudi e godersi l’aria o il sole sulla pelle: in un Paese freddo questo piacere è raro e quando capita viene goduto così appieno da avere, appunto, un vocabolo unico per indicarlo. E ancora: l’araba tefejjej che descrive il senso di pienezza che si prova dopo aver trascorso una giornata in un giardino, in mezzo al profumo dei fiori e al mormorio dell’acqua. Sono esempi, che mostrano come la lingua possa modellare il nostro modo di vivere e percepire il mondo. Di fronte a queste parole chi traduce è costretto a utilizzare perifrasi, descrizioni. Ed è quanto abbiamo fatto nel nostro libro.
Ecco e lì entra in gioco il potere (e la responsabilità) del traduttore.
Il traduttore deve essere una sorta di socio dell’autore, il quale deve fidarsi perché non può attingere alla fonte. In questo caso, sì, è la maledizione di Babele: quando nasce Babele non nascono solo le lingue, ma anche i confini, le nazioni e i barbari, quelli che quando parlano non li capisci. Questo doversi affidare al traduttore è vissuto con un po’ di diffidenza, ed è comprensibile. E allora entra in gioco il modo in cui si approccia il testo.
E qual è il suo approccio che può ridurre la diffidenza dell’autore?
Per spiegarlo userei l’intraducibile fargin, parola yiddish che definisce la gioia che si prova per il successo di un’altra persona: per me significa che chi traduce non vuole aggiungere nulla di suo, vuole scomparire dietro e dentro le parole dell’autore o dell’autrice e non vuole perdere nulla di quello che c’è nel testo. Come a indicare il desiderio di scrivere quello che gli scrittori avrebbero scritto, se lo avessero fatto nella tua lingua. Daniel Pennac dice che siamo gli psicanalisti degli autori. Spesso non sai se quel colore azul che il poeta mette nella sua poesia è un azzurro, un blu o un celeste perché in spagnolo, per esempio, è una parola sola. Serve documentarsi, investigare, leggere tutto su e dell’autore. Se è vivente puoi chiederglielo direttamente, altrimenti ti trasformi in un rabdomante di significati.
Se gli autori sono viventi può succedere pure che si creino relazioni speciali, com’è capitato a lei con Luis Sepulveda.
È stato un regalo della vita. Ci conoscemmo vent’anni fa, volle incontrarmi lui, a Milano. Prima di allora non mi era accaduto con nessun altro autore. Pensai che volesse farmi un esame. Cominciai a pormi un sacco di domande, mi preparavo alla valutazione. Poi arrivai in casa editrice, vidi quest’omone, gli dissi che ero la sua traduttrice, mi guardò e dichiarò: “sei la mia compagna di strada”. Da allora ha voluto che fossi io a tradurre tutto ciò che usciva in Italia, inclusi i suoi articoli. La nostra collaborazione si è trasformata in un’amicizia. Non accade sempre, ma quando succede è una magia.
Dalla sua passione sembrerebbe che non abbia desiderato altro lavoro che questo.
Da piccina volevo fare il fisico nucleare (ride). Era una missione impossibile, ma in fondo anche la traduzione lo è (ride).
Com’è cambiata l’attività da quando ha iniziato quest’avventura?
La rivoluzione è arrivata con internet, grazie al quale il nostro lavoro è mutato radicalmente. Abbiamo accesso immediato a informazioni sterminate su luoghi geografici lontanissimi, per esempio. Possiamo verificare i nomi delle piante o esplorare una città mai visitata, con un click. Questo ha alzato la qualità della traduzione, ma anche il tempo necessario, perché ogni dettaglio va controllato con cura.
Suggerirebbe ai giovani di intraprendere questo lavoro e ha un consiglio per loro?
Per diventare traduttori bisogna desiderare perdersi nelle lingue: questo è il primo requisito imprescindibile. Bisogna essere curiosi, rigorosi e sapere flâner, come dicono i francesi, cioè passeggiare senza meta tra le lingue e dentro la propria. Suggerirei: vivetele, esploratele e non dimenticate che la vera sfida non è solo tradurre il ‘cosa’, ma anche il ‘come’. Bisogna ricordare che ogni parola tradotta è un ponte tra mondi: celebra la diversità e l’incontro tra culture.
Quale “intraducibile” userebbe per definire l’emozione che le dà il suo lavoro e quella che definisce meglio il suo rapporto con la professione?
L’emozione è il contrario di feierabend, che in tedesco esprime la sensazione di sollievo e allegria alla fine di una giornata di lavoro: ecco, io la provo invece quando inizio a lavorare, smontando un testo, cercando i mattoncini italiani per restituirne senso e colore, sfumature e toni. Mentre, per dare l’idea di quale sia il mio rapporto con questa professione impossibile (sorride), prendo a prestito la parola urdu goya: il piacere di lasciarsi trasportare da una bella storia, al punto da non distinguere più tra fantasia e realtà.