Ultimamente sta prendendo piede l’ipotesi che il vero Shakespeare possa essere un italiano. In particolare sono stati fatti i nomi di Giovanni Florio e Michelangelo Florio come possibili autori delle opere del Bardo di Stratford. Su quale base si è fatta tale ipotesi? Per via dell’ambientazione italiana di diverse opere, come Romeo e Giulietta, Otello, Il Mercante di Venezia, Molto rumore per nulla, I due gentiluomini di Verona per non parlare delle tragedie romane come Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano e Tito Andronico. Basta questo per far pensare a un’origine italiana del più grande scrittore in lingua inglese di tutti i tempi?
In realtà se consideriamo “italiano” Shakespeare per le ambientazioni, allora dovremmo dire lo stesso di altri autori elisabettiani. Tralasciamo l’ambientazione romana, che ha sempre avuto molto fascino su tutti gli autori europei di tutti i tempi, e vediamo quella più propriamente italiana. Se prendiamo anche solo il più famoso autore elisabettiano dopo Shakespeare, ovvero Ben Jonson, ci accorgiamo che la sua opera più famosa, ovvero la commedia Volpone, è ambientata a Venezia. Si potrebbe citare anche The Jew of Malta di Christopher Marlowe.
Il fatto è che si usciva dal Rinascimento, e l’Italia era vista ancora un po’ come il centro del mondo civile, mentre l’Inghilterra era sì una potenza emergente, ma la sua cultura era ancora abbastanza locale. Dobbiamo immetterci in un contesto rovesciato rispetto a quello attuale, dove è più facile che autori italiani ambientino opere in Paesi anglosassoni perché il prestigio culturale dei due mondi si è rovesciato rispetto all’era di Shakespeare. Ma non è solo questo, a parer nostro, che smonta la teoria italiana di Shakespeare. C’é dell’altro, ovvero il fatto che, leggendo le tragedie, deduciamo che Shakespeare conoscesse poco e male il Bel Paese.
Prendiamo la più famosa tra le tragedie ambientate in Italia, ovvero Romeo e Giulietta, adattamento teatrale della Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti di Luigi da Porto. Quali sono gli errori di Shakespeare?
Una è un’omissione fondamentale, ovvero il motivo di odio tra le due famiglie, che Shakespeare non spiega. Ed è, ovviamente, la secolare divisione tra guelfi e ghibellini che spaccò l’Italia. Una divisione che ovviamente un inglese di età elisabettiana non comprende. Ma c’è anche un altro errore, fondamentale: delle due famiglie solo i Montecchi (o Monticoli) erano veronesi, capi della fazione ghibellina locale. I Capuleti (o Cappelletti) erano un casato guelfo cremonese. A Verona erano i guelfi Sambonifacio a opporsi ai Montecchi prima che Cangrande della Scala, il mecenate di Dante, bandisse questi ultimi.
Da dove arriva l’errore di Shakespeare? Molto probabilmente da un passo della Divina Commedia di Dante, precisamente Purgatorio VI, 106-108 che così recita “Vieni a veder Montecchi e Cappelletti/Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura/color già tristi, e questi con sospetti”. Dante qui denuncia le lotte fratricide nei Comuni italiani, citando alcune famiglie non necessariamente della stessa città, e Shakespeare equivoca. Shakespeare ha letto Dante? Molto probabile perché ai suoi tempi, al contrario di quel che accade oggi, la letteratura italiana aveva diffusione più ampia rispetto a quella inglese: lo stesso Shakespeare prenderà Petrarca a modello per i suoi Sonetti.
Passiamo alle tragedie veneziane, cominciando da Otello tratta da una novella degli Hecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio. Qui il problema, oltre a un romanzamento della Storia (vediamo i veneziani strappare Cipro ai turchi quando, nonostante la strepitosa vittoria di Lepanto, accadde il contrario) è nell’onomastica. Nella novella di Giraldi Cinzio l’unico personaggio ad avere un nome è Desdemona (in originale Disdemona parola greca che significa “sfortunata”) mentre Otello è semplicemente “il Moro” e Iago “l’Alfiero”. Shakespeare battezza Iago il personaggio dell’alfiere. Un nome non italiano, ma spagnolo: Shakespeare, da buon anglosassone, confonde lingua italiana e lingua spagnola.
Nel Mercante di Venezia il personaggio dell’usuraio ebreo porta addirittura un nome inglese, Shylock. Senza contare che spesso il Bardo, nelle opere veneziane, scrive “Signior” con grafia errata.
Il Giulio Cesare è un adattamento di Plutarco. E qui Shakespeare fa errori che un umanista italiano dei suoi tempi non avrebbe mai fatto. Il più clamoroso è nella prima scena del secondo atto, nel quale i congiurati si trovano a casa di Bruto. A un certo punto un orologio batte i colpi e Cassio conta i colpi. Un anacronismo che ricorda quello dell’orologio al polso del legionario nel film Scipione l’Africano. Ma vi sono tante cose che un umanista avrebbe segnato come errori da matita blu, dall’uso di termini di origine cristiana nel 44 avanti Cristo (“perché Bruto era l’angelo di Cesare” “sei un dio, un angelo o un diavolo”) o il nome errato di uno dei congiurati più importanti che Shakespeare indica come “Decio Bruto” quando era “Decimo Bruto”.
Se invece passiamo ai drammi inglesi notiamo che l’Inghilterra del tempo e anche quella precedente è descritta con grande cura, persino nel “color locale”. Ad esempio vengono citate almeno tre volte le ballate di Robin Hood, popolarissime in Inghilterra ma pressoché ignote fuori (sarà solo col romanticismo e Walter Scott che la figura di Robin Hood diventerà famosa a livello europeo). E anche qui Shakespeare fa dire la frase “per la nuda testa del grasso frate di Robin Hood” a un personaggio dei...Due gentiluomini di Verona. Oggi a Verona tutti sanno chi era Robin Hood. All’epoca di Shakespeare no.