Rapito (2023) racconta le vicende reali di un bambino ebreo che, per ordine del Vaticano (nella persona di Papa Pio IX) nel 1858 a Bologna, venne rapito perché battezzato segretamente e pertanto obbligato a condurre una vita rigida in collegio seguendo -contrariamente al suo credo- i precetti della vita cattolica. Si scoprirà, in seguito, che ad impartire questo battesimo improvvisato fu la balia. Battesimo di cui però era informato il Sant’Uffizio.
Edgardo Mortara, questo il nome del bambino, interpretato dal bellissimo e bravissimo Enea Sala, crescerà lontano dai suoi affetti più cari e apparentemente si adatterà subito ai cambi di norme e riti religiosi. Diventando uomo e sacerdote, si allontanerà definitivamente dal suo vecchio mondo e dai suoi familiari abbandonando anche ogni ricordo, plagiato e plasmato in ogni fibra del suo essere. Non si sentirà più di appartenere né alla propria famiglia, né alla cultura ebraica d’origine.
Nell’impossibilità di raccontare le moltissime scene emblematiche, per questione di sintesi ne descriverò solo tre, tra le più significative. La scena di Edgardo che, all’irruzione delle truppe papali in casa prima di essere preso con la forza e rapito, si rifugia tra le vesti protettrici e protettive della madre è speculare a quella in cui, già adattatosi alla vita del collegio grazie alla sua straordinaria intelligenza, gioca nel giardino con i compagni, a nascondino. Per evitare di essere trovato, si cela tra le vesti del Papa che, da rapitore diventa in questo momento ludico, protettore, considerando però sempre il bimbo come una sua proprietà, come un suo diritto.
Conformemente alla visionarietà del regista Marco Bellocchio, cineasta sempre originale, versatile e controcorrente, anche qui non manca quel suo tipico tocco surreale: nelle caricature dei giornali che si animano e soprattutto quando Edgardo, in chiesa, contempla il Cristo crocifisso e delicatamente lo libera dai chiodi. La statua si anima all’istante e, diventata uomo, si disfa della corona di spine e se ne va lentamente, incontro ad un nuovo destino. Non un’allucinazione, ma la proiezione di un sogno di quel bambino ancora scisso tra ebraismo e cattolicesimo.
Il rapimento di Edgardo Mortara, di inaudita violenza psicologica, è - come altri episodi legati all’ambiente ecclesiastico - l’antitesi di quello che dovrebbe essere il credo cristiano, ammantato com’è dell’idea dell’amore totale, di fratellanza e di carità. Il tema e i temi religiosi qui affrontati, testimoniano di quanto il regista, da laico, si interroghi sul sacro e sul suo mistero e mettendo proprio in dubbio che l’amore sia il motore del mondo e di tutta la vita (L’amor che move il sole e l’altre stelle, per dirla con Dante). Ossia, quasi misconoscendo uno dei principi cardine del cristianesimo.
Il rapimento di Edgardo non è solo fisico, ma un vero e proprio scardinamento e scollamento all’interno del suo essere. Rapimento dei sentimenti, dell’anima, delle idee, delle tradizioni e della cultura della razza d’appartenenza. Rapimento come allontanamento dalle certezze. Rapimento come contaminazione totale. Riconosco che prima di vedere il film, da cui son stata letteralmente rapita, non avevo mai sentito nulla su quest’episodio assurdo e significativo della Storia vaticana, benché fosse stato un caso internazionale. Bellocchio lo racconta a suo modo, procedendo spesso per frammenti ed immagini.
Ho sempre amato questo regista ribelle, erede di Godard, che già con l’opera prima I pugni in tasca (1965) ha demolito il mondo borghese con tutte le sue falsità, l’ipocrisia e le sue sovrastrutture trovando la sua eclatante, eccessiva e fortemente discutibile manifestazione nel gesto estremo del giovane protagonista: lo sterminio della famiglia, monade e dogma della borghesia. E in questo aspetto è lunga l’eco di Buñuel. In effetti in Bellocchio è proprio la triade Dio, Patria, Famiglia che dev’essere non solo messa in discussione, ma scardinata del tutto; come già avevano sapientemente fatto i Surrealisti e, prima ancora, l’ottocentesco e dissacrante poeta maledetto, Isidore Ducasse conte di Lautréamont.
Rapito è film storico e drammatico, coinvolgente e teso in cui non mancano la suspense, il pathos e la tragedia. Commovente (strazianti sono le grida di Edgardo rivolte ai genitori, tra i momenti più toccanti della pellicola) e cinico allo stesso tempo. Film d’impegno assoluto, e qui si potrebbe aprire una parentesi enorme sul valore educativo/informativo della cinematografia, sul suo valore profondo di canale di conoscenza e non semplicemente d’evasione. Film a tratti cupo e non sempre di immediata lettura, ma che conferma -ancora una volta- il genio di Marco Bellocchio, unanimemente riconosciuto in Italia e all’estero.