L'anonimo protagonista del racconto Le Renégat ou Un esprit confus è un religioso sostenuto da un’incrollabile fede in Cristo e da una vanità tanto ambiziosa quanto sterile. Un giorno decide di raggiungere una remota città scavata nel sale – abbacinante e desolata quanto un paesaggio beckettiano – per insegnare le virtù cristiane ai suoi indocili abitanti e mostrare loro il suo Signore. Malgrado i tentativi dei confratelli, che avrebbero voluto dissuaderlo dal compiere un'impresa evangelica destinata a fallire certamente, si reca alle porte di questa fantasmatica città convinto di poter «regnare su una schiera di malvagi».

Fatto prigioniero da quegli stessi uomini che aveva intenzione di convertire, l'uomo subisce abominevoli torture, al culmine delle quali gli viene amputata brutalmente la lingua. Giunto infine alle estreme conseguenze del suo ignobile servaggio, comincia a venerare il feticcio dei suoi persecutori e con esso «l'anima immortale dell'odio». Non solo, la dedizione a questi «nuovi padroni» e alla schiavitù da loro imposta è talmente compiaciuta che, venuto a conoscenza dell'arrivo di un altro missionario, fugge dal proprio carcere con l'intento di ammazzare il religioso e provare così la sua completa dedizione ai carcerieri. Come aveva già congetturato, la fuga è comunque breve e, subito dopo l'uccisione premeditata del missionario, viene ricatturato dagli «uomini dai veli neri», i quali lo sottopongono poi a nuove percosse e umiliazioni.

Fino a qui, il testo era stato racchiuso tra virgolette, come se la narrazione fosse il dissennato monologo del Rinnegato, qualcosa a metà fra il soliloquio e l'incubo; l'ultima frase, emblematica, è formulata invece in terza persona e senza l'ausilio delle virgolette: Une poignée de sel emplit la bouche de l'esclave bavard (Una manciata di sale riempì la bocca dello schiavo chiacchierone).

Apparsa nel 1957, questa novella non è mai andata in contro alle fortune critiche che le altre opere di Camus possono vantare. Se ne capisce bene il perché già dalle prime frasi: il racconto procede per strappi, condotto freneticamente da uno «spirito confuso» che rende conto del proprio delirante piano di catechizzazione inframmezzandolo ai ricordi dell'infanzia e a un rapsodico mutare degli umori. Una novella decisamente scomoda – come scomodo doveva apparire lo stesso Camus, in Francia, ai grigi intellettuali del suo tempo –, che sfugge alle facili categorizzazioni e che risulta tanto fitta di motivi e allegorie da scoraggiare preventivamente ogni esegeta (quanto meno gli esegeti abituati all'idea di un redde rationem senza ricorsi eventuali). C'è il bene, quello presunto che il Rinnegato pensa di perpetrare all'altro, senza il suo consenso, e c'è il male, incarnato dal popolo che abita la città di sale e dal suo orribile feticcio. Ma c'è anche il caos, il capovolgimento e lo stato di inalienabile confusione che ne deriva, giacché il protagonista, partito per imporre il proprio bene, finisce per abbracciare il contrario, per adorare il male e farne parte.

Non sono morto, un odio nuovo s'è levato un giorno insieme a me, è andato verso la porta in fondo, l'ha aperta, l'ha chiusa dietro di me, odiavo i miei, il feticcio era là e, dal fondo del buco in cui mi trovavo, ho fatto più che pregarlo, ho creduto in lui e ho negato tutto quello a cui avevo creduto fino allora.

Non c'è dubbio che si tratti di un racconto sul valore delle opposizioni – non soltanto fra bene e male, ma anche tra il caldo e il freddo, le tenebre e la luce, il silenzio e la parola; ma lo è anche sul senso del limite, esile a tal punto da far sì che tutto possa essere qualcosa e quasi contemporaneamente qualcos'altro, come l'intollerabile freddo della notte che, all'inizio del racconto, sta per trasformarsi nel caldo asfissiante di ogni giorno. Il Rinnegato stesso, d'altronde, è allo stesso tempo monologante e muto, privo dell'uso della parola e logorroico. Al silenzio e alla parola, fra l'altro, è consegnato un gioco criptico di simboli e metafore, un intrico che difficilmente si potrebbe – e vorrebbe – districare. Quel che resta è il sentimento di una solitudine incolmabile, dove ai richiami fonici dell'allitterazione sale / solo (sel / seul, in francese) si aggiunge il potere emblematico della luce solare, tanto abbacinante da cancellare ogni altra cosa e rendere la diafana distesa di sale una tabula rasa come una «frattura tra il mondi dello spirito e quello della coscienza».

Una possibile chiave del racconto – o una suggestione comunque utile ad assumere la prospettiva del suo autore – potrebbe trovarsi forse nel saggio L’Homme révolté, quando Camus afferma: «Per i cristiani così come per i marxisti è necessario ammaestrare la natura. I greci, invece, son dell'avviso che sia meglio obbedirle». A patto di supporre che i riottosi abitanti della città del sale incarnino qui il ruolo che spetta alla «natura», o che ne siano comunque un'emanazione oppure un componente, questo spiegherebbe in un colpo solo molte cose.