Don Chisciotte attore: E adesso spiegami cosa siamo venuti a fare quassù. Mi attende forse qualche impresa?

Sancio attore: In un certo senso sì, signore.

(Dialogo dal Don Chisciotte della Mancia di Hans Werner Henze-Giovanni Paisiello, libretto di Giuseppe Di Leva, 1976).

Andrea Zepponi, primo contraltista diplomato in Italia, clavicembalista, professore, critico (è un elenco parziale), un’impresa l’ha già compiuta: pubblicare uno studio approfondito e accurato sulla prima rappresentazione del Don Chisciotte a Montepulciano e la nascita del Cantiere. Un’altra impresa la sogna per il 2026: una riproduzione celebrativa dell’opera per i cinquant’anni del festival toscano, “l’anti-Spoleto dei poveri” (Corriere della Sera del 7 luglio 1976) e i cent’anni dalla nascita del compositore tedesco (Gütersloh 1926-Dresda 2012).

“L’utopia di Henze” si ripete parlando del Cantiere toscano. Giuseppe Di Leva l’ha vissuta insieme con il musicista, che fu folgorato dalla bellezza di Montepulciano, e perciò è preciso: “Forse Hans era stato colpito da qualcosa di simile alla sindrome di Stendhal e comunque aveva preso quasi istantaneamente una decisione: organizzare lì una forma di resistenza musicale contro la “morte civile” che sembrava intorpidire la comunità - scrive il drammaturgo e librettista nella prefazione al saggio di Zepponi.

Trovato il consenso delle autorità locali e delle autorità culturali dell’allora Partito Comunista Italiano, si era messo immediatamente al lavoro, costruendo un programma utopistico: quattro allestimenti lirici, decine di concerti, una mostra impegnativa di Renzo Vespignani. E per tutto ciò contattando decine e poi centinaia di cantanti registi costumisti scenografi di tutto il mondo, perlopiù giovani, perché venissero a prestare gratuitamente la loro opera alla prima edizione di quel curioso festival che chiamò Cantiere Internazionale d’Arte per sottolineare, oltre all’internazionalità, il senso di luogo di lavoro dove realizzare i molti appuntamenti con la collaborazione di cittadini poliziani (i giovani, la banda, le maestranze comunali ecc.).

Conoscere la musica significa conoscere meglio se stessi. E poi: La musica ha anche la capacità di seminare amore e comprensione tra la gente. Su questi concetti teorici (e poetici) si manifestava l’utopia di Henze, la volontà di creare qualcosa che non c’è ma dovrebbe proprio esserci. Qualcosa di molto simile dice il Don Chisciotte di Cervantes”.

In un caffè di Bologna gelida, nella primavera che sembra averci ripensato, chiediamo a Zepponi della sua utopia. Testimone il professor Piero Mioli, per il quale servirebbe una lista di bravure che sarebbe anch’essa incompleta. In ogni modo, gli hanno appena dato dell’icona e, pur sapendo che oggi ci si felicita così, Mioli non si sente una madonna russa.

Maestro Zepponi, il Don Chisciotte a Montepulciano composto, a distanza di secoli, da Paisiello (Taranto 1740- Napoli 1816) e Henze.

Onorato e contento di avere qui con me Piero Mioli che mi conforta sul modo di riprendere le opere del Barocco, del Settecento, della musica che non ebbe una continuità interpretativa nel tempo, ma rimase alle prime rappresentazioni di musicisti dei nostri giorni cioè della fine del secolo scorso. Parliamo, però, di un’epoca in cui la filologia non era ancora presente come ricerca e realizzazione. Quando si facevano dei repêchage di opere liriche del passato, vedi L’incoronazione di Poppea di Monteverdi che venne data alla Scala, se non sbaglio, nel 1967 con, addirittura, Giuseppe Di Stefano nel ruolo di Nerone (cosa assurda!), erano delle operazioni che poggiavano sul direttore d’orchestra il quale si prendeva la responsabilità di rimaneggiare il materiale musicale, di rivisitarlo a suo piacimento. Qualcosa che era godibile, secondo certi canoni, ma non certo paragonabile a quello che oggi intendiamo per ripresa filologica: ciononostante il pubblico sentiva opere di grande fama che sarebbero rimaste nel dimenticatoio, titoli che si studiavano, ma che nessuno rappresentava ed eseguiva.

Per quanto riguarda il Don Chisciotte della Mancia la questione è un’altra: non si tratta di un repêchage dove il compositore riprende il materiale, lo adatta alle maestranze a lui contemporanee, assolutamente prive di ogni conoscenza filologica, di recupero del suono antico, della prassi esecutiva per cui si legge in un modo ma si suona e si canta in un altro. Il Don Chisciotte di Paisiello ebbe tutt’altro trattamento da parte di Henze, che pure in altri casi faceva ripescaggi (Jephte, Il ritorno di Ulisse in patria): un trattamento di ri-creazione. Con il risultato che venne fuori un’opera completamente nuova.

A cominciare dal libretto?

Sì. Giuseppe Di Leva fu chiamato a ricreare l’opera a livello letterario, con una riqualificazione del testo poetico che, destinato al pubblico montepulcianese, veniva sentito abbastanza paludato, troppo settecentesco, appartenente a una sensibilità passata, per adattarlo a una sensibilità odierna. Le scene manierate vennero tagliate oppure tenute con una patina ironica, in veste parodistica: il duetto delle due dame, duchessa e contessa, è una messa in scena di una società che celebrava se stessa e con la quale il musicista era fortemente polemico, in rotta. Questo si sposa a un discorso ideologico-politico che non è estraneo alla presenza di Henze a Montepulciano, quindi, è un tutto organico le cui componenti sono molto evidenziabili, ma Di Leva scrisse in piena libertà. Henze lasciava che i suoi collaboratori proponessero diverse soluzioni poi lui sceglieva, concordava. Non si atteggiava a dittatore, a unico responsabile del prodotto artistico.

Ci fu la scelta di introdurre il personaggio della Cardolella che si esprime in veneziano ricalcando certe figure goldoniane ed è la depositaria della parte patetica della pièce e, ovviamente, fu depennato dall’opera originaria di Paisiello ciò che era privo di attinenza con un concetto dell’azione molto più sciolto, sintetico, capace di creare una tensione ininterrotta nel pubblico. Ci sono anche termini lessicali di basso registro stilistico, per esempio cazzo.

La musica?

Henze decise lo scioglimento dell’originaria orchestra d’archi settecentesca optando per due tipi di orchestra, una cameristica con violini e fiati e l’altra di carattere bandistico, la banda del paese si integrò con quella del paese limitrofo, e diede il via a una dicotomia fra due entità sonore. Una parodiava il ‘700 e accompagnava certe movenze del canto, rappresentate da certi personaggi, l’altra era popolana, con un linguaggio più recitativo, verista, senza disdegnare le evoluzioni vocali per arricchire il personaggio di valenze ulteriori messe in atto da Henze che coltivava un sano eclettismo, lontano dal serissimo dogmatismo della scuola di Darmstadt, non ripetibile in ambito di Cantiere. Un operista deve visitare vari tipi musicali, farli propri, personalizzarli e non prenderli di peso, seppure con Paisiello si sarebbe potuto fare. A quel tempo non si sapeva come fare un’interpretazione autentica di Monteverdi, ma su Paisiello ci si avvicinava molto.

Lei vorrebbe che l’opera fosse riproposta a Montepulciano nel 2026, per il centenario di Henze.

Lo caldeggio! Ho scritto il libro in funzione di questo. Le testimonianze di Giovanni Soccol, disegni, costumi, scenografie, potrebbero far pensare a una rimessa in scena di quello che era stato, quindi con il posteggiatore che entrava in piazza e saliva sul palco con la Cinquecento, che oggi sarebbe una Smart. Allora erano delle novità assolute, accolte anche da Ronconi, che si ripercossero su tanti altri spettacoli degli anni Ottanta, penso al Rossini Opera Festival. Giovanni Soccol è stato il principale promotore del mio volume. Il suo materiale, tenuto gelosamente in archivio, è completo: il modellino, lo schizzo primordiale, quello sul sagrato che doveva avere già idea di corrispondenza fra pubblico e attori. In precedenza, all’opera lirica, i rimandi fra il palcoscenico e la platea non avvenivano. Riproporre il Don Chisciotte sarebbe un momento felice per rilanciare il Cantiere e la sua valenza culturale.

Cioè l’utopia di Henze?

L’utopia di Henze era una liason con la sua ideologia politica: non faceva mistero di essere iscritto al PCI. Nel tempo, coloro che auspicavano la rivoluzione nella società si accorsero che questa non era possibile, che il comunismo reale produceva mostri e quindi quella rivoluzione doveva essere attuata non a livello politico, ma culturale. Attraverso l’educazione, i bambini avrebbero dovuto avere un’idea della cultura non come lontana, inaccessibile. Nelle sue lettere Henze depreca il fatto che l’opera fosse un prodotto elitario, anche se poi era un’idea in parte abbastanza falsa perché il mio bisnonno, falegname, andava all’opera. L’utopia che si cercò di realizzare a Montepulciano è stata realizzata?

Glielo chiedo.

È un discorso problematico. Ci fu il tentativo di colui che, avendo perseguito una ideologia, essendosi affiliato a una concezione del mondo, cercò da compositore di realizzarla in un territorio vergine (è un’utopia anche questa): il suo rivolgersi ai giovani che, almeno, non avevano sovrastrutture mentali di sorta e quindi potevano essere educati alla musica, veicolare una certa idea dove il pubblico partecipa all’opera d’arte. C’era sempre una cabina di regia, è inevitabile. Henze era dietro, con i suoi accoliti e, soprattutto, i finanziamenti venivano dalla BMW e da altri sponsor. Le idee si pascevano di qualcosa di molto più concreto. Tuttavia, Montepulciano era il contraltare di Spoleto, era l’anti festival. Voleva essere atipico, anticonformista, se Spoleto incarnava l’élite, il salotto buono, anche se aveva le sue punte di trasgressività, il Cantiere doveva essere assolutamente fuori da qualsiasi schema, rompere. Infatti si faceva in piazza, con musiche contemporanee, con artisti che si prestavano a insegnare gli strumenti per la strada o a esibirsi in luogo assolutamente inusitati per la musica seria. Seria, detto tra virgolette.

E senza virgolette?

La vera musica.

Il suo libro ha una rassegna stampa ricchissima.

Sono avvezzo alle rassegne stampa perché penso di far corrispondere a ogni mia affermazione una documentazione giornalistica. È doveroso dare subito un riscontro cronachistico a ciò che si afferma nel testo. Poi sarà il lettore a discernere. È stata fatta grazie al lavoro di Silvia Ciappi, fiorentina, che ha scartabellato le collezioni cartacee della Nazione, e quelle di altri giornali che sono digitalizzati.

Henze parlava del divertimento di andare all’opera.

Non vorrei introdurre il discorso sul comico in senso filosofico concettuale per cui il comico a teatro, anche in sede teoretica, è deteriore perché ridere soltanto senza imparare nulla può essere visto come qualcosa di sconveniente. In realtà, la comicità pura l’abbiamo in Rossini che è amorale, non vuole insegnare, non vuole porgere alcun messaggio, se non quello della musica e questo credo sia importante da premettere. L’opera comica, soprattutto quella italiana, non veicola nessun messaggio moralistico o politico. Per Henze, figlio della musica tedesca e di una tradizione mozartiana alla quale non si sottraeva, invece il divertimento doveva essere anche sede di riflessione, di pensiero, di edificazione della persona. Per cui gli abitanti di Montepulciano, gli spettatori, che avevano già contribuito alla scena (chi aveva portato le scope, chi gli oggetti, chi aveva fabbricato l’ippogrifo), si sentivano parte di una comunità e quindi accolsero il senso di partecipazione a costruire l’opera d’arte che deve essere appannaggio anche del popolo. Questo si rifletté sulla musica attraverso l’utilizzo della banda, anche stonata. Nella prefazione alla partitura, Henze scrisse di volere che la banda non fosse intonata per aderire il più possibile a quello che può essere un uso popolare degli strumenti. Poi impiegò, addirittura, la musica elettronica, l’amplificazione, un procedimento che è tipico della musica odierna e che fece gridare all’orrore. Sulla scena c’erano inoltre tantissimi richiami all’attualità, come i jeans Jesus.

Chi mi ama mi segua?

Sì, Oliviero Toscani già imperversava e provocava. C’erano rimandi continui alla gerarchia classista, il tenore, Don Calafrone, si esprime in italiano e non in napoletano, la contessa e la duchessa sono messe in ridicolo in continuazione, sono oggetto addirittura di scempio scenico, partecipano a delle orge, si rotolano, ne combinano di tutti i colori mentre Don Chisciotte è un personaggio che ingloba tutte le caratteristiche e su di lui bisogna fare un lavoro di comprensione: la sua follia, finta o vera che sia, è il veicolo dell’utopia. Lui è così paludato e allo stesso tempo attento alle esigenze di Sancio: è una figura che incarna l’utopia. Chi è che non si diverte a vedere un Don Chisciotte che gira sulle pale? Non era un cantante, fu precettato un attore. C’erano i doppi sulla scena e questa è un’altra novità splendida che venne introdotta da Henze e Di Leva. Non so se prima esistessero i doppi dei cantanti… Don Chisciotte tenore non avrebbe potuto salire sul mulino, sarebbe stata una débacle vocale, e Henze era molto attento e diceva espressamente che quando i cantanti cantano un’aria tutto si deve fermare. Infatti non fu un trasgressore totale: era talmente rispettoso della tradizione formale dell’opera lirica che certi elementi fondamentali li preservava, eccome. Perché sono imprenscindibili.