Se le porte della percezione fossero purificate tutto apparirebbe come è, e cioè; infinito.

William Blake, Le nozze di Cielo e Inferi.

Dai puri di cuore e poveri di spirito Samsara e Nirvana, apparenza e realtà tempo ed eternità sono sperimentati come un cosa sola.

Aldous Huxley, La Filosofia perenne.

Un mondo che fosse quello della pura distaccata contemplazione, un mondo in cui la determinazione avesse di fronte a sé la pura, impassibile presenza dell’Io, sarebbe un mondo liberato. Un mondo sotto specie non di divenire ma di essere.

Julius Evola, Teoria dell’Individuo Assoluto.

Ho ascoltato un esperto di radio al festival “L’eco della parola” e il relatore citava spesso Radio Days di Woody Allen. Ho pensato allora a quel film e l’ho gustato quale racconto poietico sul senso del disfarsi del tempo. Un disfarsi continuo e costante, pura poiesis. Perché? Enigma esistenziale. Non dovrebbe darci angoscia?

E invece le plurime salite sul tetto del palazzo in quel film trasmettono un senso di quiete, di sospensione aionica, facendo emergere un’aura di stasi, di contrazione lirica del medesimo tempo nella sua pura contemplazione quale continuum all’interno del kairos del cambio rituale dell’anno. Questo è permesso anche dal situazionismo dell’altezza del palazzo e del suo porsi fra le giganti insegne metropolitane al neon, luminescenti, senza tempo. Guardare senza essere guardati ci conferisce un’illusoria ma percepibile pace?

Ho pensato allora a tutti gli incipit dei film di Woody Allen. Di solito si tratta di uno swing o un jazz anni venti-quaranta. Una musica che si percepisce, fisicamente, come una musica che s’annunzia da una radio. Non si vede la radio ma se ne sente la sottile presenza in una visione sonora intima ma oggettuale. Ho pensato specialmente all’inizio di Storie d’amore e di infedeltà: l’unico film dove Woody porta un codino. L’unico film ambientato del tutto a Los Angeles, di solito ironizzata a favore della venerata Manhattan. Allora ho capito; e ho capito sentendo quel paesaggio semidesertico pieno di foschia dove la megalopoli si confonde con l’indeterminatezza gialla e chiara dell’orizzonte.

Nonostante la bellezza di You do something to me di Cole Porter lo sguardo filmico contempla la propria opacità, il proprio deficit di apprensione sul “mondo”. O il “mondo” è questo deficit? Un senso di un’immensità vaga e inconcludente non si muove nella sua passiva fissità. Il carattere alieno di questo paesaggio filmico possiede qualcosa di ipnotico e attrattivo. L’ho sentito nella modalità con cui Woody inizia tutti i suoi film. Non importa che sia una via di New York o una pianura sconfinata o una scena di traffico urbano. Chi è colei che sale dal deserto?

La Visione. L’a-peiron nella sua immensa ambiguità. Ecco la visione del “totalmente altro”, del pienamente esteriore, lontano, distante. Una sorta di sintesi fra necessità e spontaneità. Come nei sogni o nel dormiveglia. Nei suoi incipit si coglie uno sguardo oggettuale all’estremo quale pura constatazione di un divenire costante in cui la contingenza assume una sua nudità e assolutezza. Tutte le storie sono già lì dentro, dentro quella foschia, dentro il chiasso del traffico urbano, fra la selva di palazzi e grattacieli, nella penombra di pub e caffè, tra lo scintillare di teatri e ristoranti, nello skyline notturno di Manhattan.

Ecco l’anomalia: il massimo dell’esteriorizzazione sfiora il senso più profondo della presenza dell’Io a sè stesso. La nudità dell’effimero quale flusso costante risuona con la vacuità del soggetto quale forma ridotta al minimo, silente testimone passivo. E’ così, paradossalmente: è proprio la filosofia dell’idealismo estremo di Julius Evola quel pensiero speculativo che ci permette di cogliere nel profondo le ragioni sottili che rendono gli inizi dei film di Woody Allen così allusivi, intensi, sublimi. In quegli inizi c’è già tutto, già tutte le vicende apparentemente casuali o necessitate delle linee di vita che si incrociano nelle sue storie. Lo scorrere del tempo quale pura potenzialità. Ma la visione è attuale, è scelta dell’Io, sua proiezione.

Nell’unicità di una visione che si dà completamente “ascoltata”, totale passività lucida e trasparente, ecco quindi il divenire nella sua essenza basica di un Io che si guarda perpetuarsi. L’Io quale testimone radicale, muto, impassibile. Ecco la pre-condizione del divenire quale desiderio/alienazione. L’Io quale “potenzialità della potenzialità” e l’attualità del divenire quale passività dell’Io, sua condiscendenza. La mediazione diviene allora evolianamente “assoluta” cioè nuda, pura, semplice, riducendosi al senso del continuum e di un flusso-totalità privo di scissione con l’inquadratura che lo permette.

È l’esserci al di qua e al di là della cinepresa secondo Carmelo Bene amante di Buster Keaton e del Grande Gatsby. Questa “via del totalmente altro” induce un senso di piena incertezza e ambiguità e nel contempo un senso di intensa certezza. Evola ce lo spiega parlando di “incondizionato nel process” e di “ogni cosa è ambigua a se stessa e contingente, per il fatto che essa ha il proprio principio non in sé ma nell’affermazione incondizionata dell’individuale. In altre parole è l’unicità dell’Io che guarda a generare il senso di totalità della visione e a trasfigurare il contingente nel suo flusso in un’aura di pura e piena potenzialità. Il divenire quale “opacità dell’Io” che attende di farsi “tutto attualità” divenendo individualità assoluta già si coglie nell’auto-appropriarsi di sé a livello di visione scoprendosi solo e sovrano nel permettere nel suo ritrarsi il senso di una necessità musicale e temporale dell’accadere del qualsiasi.

La coscienza è scelta d’inquadratura. Tutto il resto si adegua e consegue. La stasi dello sguardo sospende la distinzione fra esistente e possibile, fra Io e “non-Io”, avvicinandoci alla radice pre-desiderante dove nulla distoglie dall’olos della visione. La contrazione cusaniana degli opposti co-implica il ritorno all’unità dell’indifferenziato, cioè alla radice nuda del vedere quale auto-rispecchiamento dell’Io assoluto. Le costanti nell’equazione della vita si elidono ma permangono nel loro nascondersi, cioè nel loro ri-velarsi. Già Eraclito sapeva che è la distanza giusta fra le corde della lira o la giusta tensione della corda dell’arco a determinare l’efficacia del volo e il senso del suono.

Il contrarsi dell’Io genera una spazialità di distanza che rende luminescente l’oggetto quale “oggettualità assoluta”, estrema esteriorizzazione. L’apparente indifferenza dell’avvicendarsi dei fatti colti nella loro inesplicabilità (casuale o necessitata, poco importa) è fatto esso stesso generato dalla sua precondizione: il silenzio impassibile che l’Io si auto-impone. L’attimo si dilata, evapora volontà e proiezione, emerge il senso dell’autotelos nell’apprensione-appercezione del solo disfarsi del contingente. L’Io guardando l’apparente “massimo esteriore” guarda in realtà solo il proprio discorrere tra sé. Di fronte alla fissità dell’Io quale pura e vuota attualità ecco la pienezza della danza del divenire che è “venire da”, cioè decadere, perdersi, dispersione, cioè la pienezza della passività e opacità.

La foschia sul deserto. Il pensiero e la volontà si ritraggono. Resta un puro occhio, dentro il quale (e non davanti al quale) nulla sussiste a lungo. La luminescenza-risonanza appare nella tensione fra unicità (della visione) che discende dalla singolarità dell’Io e totalità del flusso quale indeterminatezza. Che sia la Time Square nera e luminescente di Pallottole su Broadway oppure il delicato e spietato rigore arcadico-hopperiano di stanze vuote d’umanità in Settembre e Interiors oppure l’aereo in Blu Jasmine o la Parigi da cartolina in Midnight in Paris quanto l’insegna del locale in Broadway Danny Rose e i vicoli scuri praghesi-veneziani di Ombre e Nebbia, troviamo in filosofico stupore il medesimo perfetto e spiazzante equilibrio fra incanto e disincanto nell’assolutizzazione visiva del paesaggio filmico quale dato asemantico e pre-narrativo. Persino gli incipit di tipo documentaristico come nel Prestanome o il treno da incubo in Stardust Memories dove la sabbia del tempo si disperde da una valigia abbandonata nelle rastrelliere e il teatro vuoto finale rivelano la medesima estremizzazione del “distacco oggettuale” che richiama tutto ciò che non dipende dall’Io e non è controllabile dall’Io, neppure narrante.

Woody evita stirnerianamente ogni afflato simbolicizzante in quanto i suoi inizi da paesaggio visivo esprimono al massimo una “segnaletica esistenziale” e mai un via alienante verso la metafora o il simbolo. Anche la pallina da tennis colpisce la rete all’inizio di Match Point sebbene sia sovranarrata dalla voce del protagonista tuttavia resta un’immagine sola, muta, nuda che non può esprimere altro che la freddezza del caso, cioè la massima e intrinseca alienità situazionistica dell’“essere nel mondo” proprio di tutti. Il Madison Square Garden visto dall’alto in Misterioso Omicidio a Manhattan non indica una semplice autocelebrazione dell’affetto del regista per New York ma esprime più sottilmente, dentro questo affetto, la durezza e opacità ineluttabile dell’indifferenza che sostanzia quello che chiamiamo “mondo”, cioè “l’altro da noi”, il quale contiene e può contenere tutto e il contrario di tutto.

Gli edifici newyorkesi nei film di Woody Allen recano una “poesia della Necessità”, di ciò che ci sopravvive, di quello che resta indifferente e distaccato dal nostro stesso occhio poetico che pur viene stimolato e chiamato in causa da determinati paesaggi urbani che possono per un attimo brillare pindaricamente di una bellezza effimera ma suggestiva. Identico senso filosofico lo troviamo nelle coloratissime vie trafficate del centro di Roma in To Rome with love. Non cambia nulla: è il chaos-apeiron del continuum diveniente la matrice necessitante e sopraveniente di ogni caso narrato. L’autonomia auto-narrativa dell’“esteriore” e del “già lì” non si fa scalfire da nessun caso; neppure dalle più straordinarie e originali narrazioni. Non ci rivolge neppure uno sguardo.

Tutto ciò lo cogliamo in massimo nitore nella celebrazione più plateale del paesaggio urbano filmico che ritroviamo nell’inizio e nel finale di Manhattan. Mai come in questi attimi iniziali e finali Woody Allen si è rivelato così solenne, quasi epico. Sembra rispondere a suo modo al motivo più celebre di Così parlò Zarathustra di Richard Strauss. Se prescindiamo dalla grandiosità della musica del capolavoro di Gershwin, Rapsodia in blue, che potenzia l’immagine già teatrale e monumentale di Central Park esaltato all’alba e al tramonto, possiamo cogliere nella luce che taglia il profilo e i volumi scuri dei palazzi e dei grattacieli, resi in un rigoroso bianco e nero, un senso di totale estranietà, di perfetta e spietata alienità come se gli edifici che affacciano su Central Park possedessero una loro naturalità non umana, distante. Una grandiosità che si palesa proprio grazie all’assenza della presenza antropica.

Un “esserci altro” che non è più solo mero sottofondo o quinta teatrale rispetto alle storie narrate ma loro condizione essenziale e ambiente immersivo imprescindibile, seppure a suo modo complessivamente silente nel chaos rumoristico dell’indifferenziato quotidiano. Qui ritorna la “visione d’insieme” filosofica dell’“occhio uno e solo” proprio paradossalmente attraverso la poesia del “totalmente oggettivo-estraneo”. La distanza percettiva è tesa dallo stesso Io quale pre-condizione del senso del flusso e della totalità da cui la singola contingenza nel suo disfarsi assume per un momento un’aura di necessità. Ma è l’attualità costante dell’“osservatore silenzioso” la “potenzialità della potenzialità” che permette il senso del flusso e della totalità, che non si darebbe fuori di questa superiore indifferenza dell’Io. Lasciando la presa sul determinato l’Io sale di livello (o scende di profondità) rinviando la negata identificazione ad un a-peiron che precede e segue ogni atto dell’Io stesso che così si pone centralmente quale auto-mediazione assoluta. I film di Woody Allen finiscono all’improvviso come iniziano: musica, scene veloci e totali, indifferenti ma fascinose, proprio perché intransitive e inesplicabili.

“Paesaggi filmici” che sono come evoliani “atti puri” che lasciano cader fuori di sé l’elemento del divenire attraverso la rimozione di ogni senso di filtro, finalità, s-viluppo. O meglio: il chiasso o il silenzio si equivalgono musicalmente nell’ “indeterminato inferiore” che in realtà è av-viluppo e non esplicazione. L’Occhio né accetta e né vuole se non la sua totalità. La “costante” quale “incondizionato” dentro il divenire. Il rifiuto dell’identificazione e del consumo, l’autonegazione dell’Io che si ritrae nella visione dell’“assoluto esteriore” generano il senso del flusso e della totalità del contingente. Se ogni atto-visione è mediazione l’Io cerca di divorare queste mediazioni per appropriarsi della propria incondizionatezza. Ma in questa ascesi immanente dove emerge “l’osservatore silenzioso”, quasi un daimon arcontico “della soglia” lo stesso Aldous Huxley nella sua “Filosofia perenne” come pure A.Dugin nel Soggetto Radicale ricordano il passaggio necessario della contemplazione vuota ed estrema che rende incandescente il mondo alienato in mero oggetto distaccato, che è costretto ad incendiarsi e a svuotarsi se lasciato solo e nudo nella sua inconsistenza.

Il senso d’indifferenza del paesaggio visivo esprime l’assenza di radice del divenire. Solo lo scorrere e l’aura dell’olos conferiscono pathos lirico al non senso del caso o del necessitato. È l’alienazione la radice del mondo. Il vuoto che genera il moto, la fuga. Solo l’“osservatore immoto” sa coglierlo e sostenerlo, senza avvincersi. Sono inizi e conclusioni delle storie narrate le quali, se rimuoviamo la musica, mostrano una loro profonda freddezza. La musica quale controcanto compensativo dell’assurdo, del vacuo, dell’inconcludente. Le conclusioni delle sue opere appaiono identiche agli incipit e compaiono all’improvviso recidendo crudamente il groviglio delle storie quasi mai dipanato. Sembrano conclusioni liriche solo perché intervengono dopo il discorrere narrativo del film ma l’unica loro liricità è quella del paesaggio visivo distaccato e trascendentale dell’inizio.

Trascendentale proprio in quanto l’occhio si pone vuoto e distaccato. Anzi le scene visive e musicali finali sembrano più intense e sottilmente amaramente ironiche, quasi compiaciute nel confermare nel loro flusso e senso di totalità situazionistica l’absurdum esistenziale posto quale dato intrinseco e inestricabile. Non è un chaos vitale perché non c’è reale sviluppo né alcuna progressività: è un chaos che non porta a nulla, un mero rumore di fondo che l’artista trasfigura in musica, traduce con lo swing e il jazz conferendogli almeno un po’ di bellezza e di levità.

La musica quale celebrazione della liberazione dal peso del dover ascrivere per forza un significato all’incessante flusso situazionistico. Anche quando i suoi film iniziano e finiscono al contrario con il fondo nero, il font “anni ruggenti” e la musica frizzante che riconosciamo il discorso non cambia: qui è il nero-ventre-camera scura che prepara l’irrompere improvviso di storie differenzianti che non spostano di un millimetro il continuum nero-musicale, vera radiazione di fondo universale.

Geniale e minimale stile nel giocare la dialettica caso-necessità. Il nero quale ascolto puro, passività totale, matrice di per sé musicale nella sua aniconica pre-sonorità. Il nero dell’attesa ri-velativa. Il nero del tappo che chiude la telecamera. Il nero di quell’unica “inquadratura” che è “l’occhio sul mondo” dove non si capisce chi guardi cosa. L’occhio-inquadratura quale ob-jectum cioè “farsi di mezzo”, ostacolare per un momento il flusso indifferente del chaos. In questo senso il sub-jectum serve l’ob-jectum, regge il “mettersi in mezzo”. Il soggetto tradotto a “costante mezzo”.

Ma chi può gareggiare con il flusso complessivo? Nel contemplare distaccato quest’alienità irrisolvibile risiede l’inizio della liberazione data dal riassorbimento di ogni illusione. Quando l’Io torna uno, allora il divenire sembra tutto, e il tutto trova luogo nell’uno. Perché questa speciale percezione spirituale ci sembra anche lirica e poietica?

Per la nostra tendenza di riappropriazione di ciò che sembra sfuggirci? Per l’irresistibile fascino sirenico dello srotolarsi del contingente con il suo circo di apparizioni allucinatorie? Forse per una nostra struggente certezza: anche quest’“occhio liberato” possiede breve durata. La nostra visione svanisce, si disfa ineluttabilmente come l’effimera scia di una nave sull’oceano. Chiunque sia sulla nave. Qualunque sia la nave.