Ettore Majorana, celebre fisico siciliano, nato a Catania il 5 agosto del 1906, fece parte dei "ragazzi di via Panisperna", un gruppo di giovani scienziati italiani capeggiato da Enrico Fermi, che si riuniva presso il “Regio istituto fisico” dell'Università di Roma, ubicato per l’appunto - fino al 1935 - in via Panisperna.

Questi ragazzi effettuavano importanti studi nel campo della fisica nucleare, incessanti ricerche e sperimentazioni, con lo scopo di far evolvere le conoscenze fisiche in loro possesso: nel 1934, individuarono le proprietà dei neutroni lenti, scoperta che condusse Fermi, dopo quattro anni, a prendere il premio Nobel. Il risultato fu la realizzazione del primo reattore artificiale a fissione nucleare a catena e subito dopo della bomba atomica.

E non ebbe poca influenza l’apporto di Majorana con le sue opere più importanti sulla fisica nucleare, la meccanica quantistica relativistica e le applicazioni nella teoria dei neutrini. Allora chiedetevi perché questo promettente scienziato, che conobbe i più grandi, all’apice del suo successo, scomparve nel nulla?

La fisica è su una strada sbagliata. Siamo tutti su una strada sbagliata.

(Ettore Majorana)

Di tutte le elucubrazioni e speculazioni generate dalla sua scomparsa, le ipotesi più interessanti sono contenute nell’opera di Leonardo Sciascia La scomparsa di Majorana un saggio del 1975 fondato sulla presunta morte o scomparsa del fisico siciliano.

La sinossi della versione Adelphi 2012 recita:

Dal 26 marzo 1938 si perdono le tracce, fra la partenza e l’arrivo in un viaggio per mare da Palermo a Napoli, del trentunenne fisico siciliano Ettore Majorana, che Fermi non esiterà a definire un genio, della statura di Galileo e di Newton. Suicidio, come gli inquirenti dell’epoca vogliono credere e lasciar credere, o volontaria fuga dal mondo e dai terribili destini che una tale mente può aver letto nel futuro – e nel futuro vicino – della scienza? Su questo interrogativo Sciascia costruisce uno dei suoi libri più belli, di un’intensità di analisi e quasi di immedesimazione nelle motivazioni non dette, nella logica e nell’etica segreta del personaggio, che sfiora l’incandescenza della verità.

image host Leonardo Sciascia

Sciascia era davvero addolorato per il destino del suo conterraneo e si accanì in tutti i modi per ricercare la verità che forse non sapremmo mai:

L'unica certezza è che già a gennaio del 1938 Majorana aveva chiesto di prelevare dalla banca i suoi soldi, e qualche giorno prima del 25 marzo aveva ritirato 5 stipendi arretrati, che fino a quel momento non si era preoccupato di riscuotere. E così forse, il nostro silenzioso scienziato, per non essere responsabile di quella strada sbagliata che stava prendendo la fisica, uscì dalla storia e si consegnò all’anonimato.

Del resto, come affermò lo stesso Enrico Fermi:

Con la sua intelligenza, una volta che avesse deciso di scomparire o di far scomparire il suo cadavere, Majorana ci sarebbe certo riuscito.

Eppure, questa uscita prematura dalla scena pubblica, lasciò molte menti pensierose, avvolse nel mistero la scelta, diede luogo a ipotesi, supposizioni, ricerche, a domandarsi il perché… Sciascia indaga a fondo, non vuole accettare nessuna delle versioni ufficiali o ufficiose o romanzate e qualcun altro segue la sua via trasponendo in un poetico film documentario di Egidio Eronico – intitolato Nessuno mi troverà l’ipotesi di Sciascia. Del saggio La scomparsa di Majorana, Fabrizio Catalano, nipote del grande scrittore, ha curato la Trasposizione teatrale e regia con il titolo omonimo in tournée in Italia e all’estero dall’inizio del 2019.

Cosa ha condotto Sciascia a intestardirsi sulla ricerca della verità sulla vicenda Majorana?

Nel 1975, quando il libro è uscito, mio nonno in realtà aveva già da un po' di tempo degli appunti: risultato di alcune ricerche sulla vicenda di Majorana. Li aveva come su altre vicende sulle quali non necessariamente ha scritto. Successe poi questa cosa (più o meno abbiamo ricostruito gli eventi insieme a mio fratello): il 3 maggio di quell’anno Sciascia è ospite insieme ad Alberto Moravia e a Emilio Segrè, uno dei ragazzi di Via Panisperna, ossia uno degli scienziati che aveva lavorato al progetto della bomba atomica, di una trasmissione della RadioTelevisione Svizzera Italiana che commemora i trent’anni dalla Seconda Guerra mondiale.

Nel corso della trasmissione vengono mandate in onda anche delle immagini di esplosioni atomiche e mio nonno ha la percezione che Segrè le guardi compiaciuto. Questa impressione non è del tutto errata perché poi durante la trasmissione Segrè per esempio racconta, esaltato, che un operaio americano gli aveva baciato la mano per avere inventato la bomba atomica. Per cui mio nonno emerse da questa trasmissione con l’idea che questi scienziati neppure col distacco della storia avevano capito che cosa avevano fatto, e che erano ottenebrati dalla vanagloria, dal loro successo, da una sorta di astrazione scientifica; e quindi, nella sua testa, Majorana divenne un personaggio diverso, cioè uno che ha avuto il coraggio di fare la scelta opposta, il coraggio di dire di no di fronte alla prima intuizione – perché probabilmente è stato il primo ad averla – che quelle ricerche che tutti facevano in quel periodo negli Stati Uniti, in Italia, in Germania, avrebbero portato a un'arma di distruzione micidiale.

E per questo fugge. Io tra l'altro, affrontando lo spettacolo, mi sono reso conto che ormai, a oltre ottant’anni dalla scomparsa di Majorana, letterariamente e potrei dire politicamente, non è così necessario sapere o tentare di stabilire davvero che fine ha fatto quel giovane scienziato. Al di là del fatto che l’ipotesi che si sia rifugiato in un convento rimane la più probabile, è anche bello e poetico, appunto, piegare il destino di Majorana alle nostre esigenze. In questo momento di scienza senza etica, di “tanto se non lo farò io lo farò qualcun altro”, immaginare che Majorana abbia rinunciato al successo, al Premio Nobel, alla fama, ai soldi, perché aveva orrore della sua scoperta, perché – si potrebbe dire come espressione semplice ma efficace – perché voleva la coscienza pulita, è estremamente utile, perché il nostro mondo va in tutt'altra direzione.

Con quale metodologia aveva condotto la sua indagine?

Mio nonno raccoglieva materiale – quando i suoi libri erano ispirati da fatti realmente accaduti – anche grazie all'aiuto di amici, leggeva, studiava, lasciava sedimentare. La stesura del romanzo o del saggio era poi piuttosto celere, e gli prendeva più o meno un mese, in genere ad agosto.

Quali responsabilità attribuiva Majorana ai suoi colleghi scienziati che condussero il mondo verso la bomba atomica?

Possiamo immaginare quale sarebbe la risposta che avrebbe dato il nostro Majorana, cioè il personaggio che noi abbiamo scelto di plasmare. Lui era molto riservato, forse con qualche problema caratteriale o di relazione, avrebbe avuto in orrore questa vanità degli altri, questo non preoccuparsi del prossimo. Perché, attenzione, gli scienziati del progetto Manhattan consegnarono la bomba con le istruzioni per l'uso: la bomba doveva essere sganciata in città con 500.000 - 1.000.0000 milione di abitanti, con una certa percentuale di costruzioni di legno... I giapponesi in questo caso vennero trattati da formiche; non so se sui tedeschi gli americani avrebbero fatto la stessa cosa…

Qual è il tuo personale punto di vista su questa sparizione?

Sono abbastanza in linea col pensiero sciasciano. Credo che si debbano cercare le ragioni psicologiche che hanno indotto Majorana a scomparire: che si sia veramente suicidato, che sia scappato in Argentina, oppure in Venezuela, non solo è poco importante, ma è anche difficile condividere un’ipotesi basata sul confronto di fotografie più o meno sfocate, più o meno nebbiose, basata per esempio sul confronto di due arcate sopraccigliari, in piccole foto ingrandite degli anni '30, dove l'arcata sopraccigliare del 25% della popolazione mediterranea corrisponde a quella di Majorana. La domanda è perché sarebbe dovuto andare in Venezuela, perché sarebbe dovuto andare in Germania.

Qualcuno ha accusato per esempio Majorana di avere simpatie naziste, ma lui in realtà apprezzava l'ambiente di lavoro tedesco perché si parlava di fisica come se fosse filosofia, perché non c'era l'ambiente competitivo o ruffiano che c’era in Italia, dove tutti dovevano essere “cortesi” con Enrico Fermi. Quindi la mia idea è che io voglio credere che Majorana sia stato diverso, che sia stato un esempio anche per noi che non ci occupiamo di scienza, che saremmo spinti dal sistema a cedere a dei compromessi, e invece dobbiamo sempre rifiutarci di cedere a compromessi che coinvolgono la nostra etica e la nostra morale.

Quest’opera di Sciascia ti ha affascinato più di altre?

Sicuramente è una di quelle per me più affascinanti e scherzosamente potremmo dire che questo spettacolo, che abbiamo cominciato nel 2019 – ma addirittura l'idea di trarre uno spettacolo da quest’opera risale al 2017 – si è rivelato iettatorio, perché all'epoca, sì si sapeva che potenzialmente c'era sul mondo un pericolo nucleare e che la scienza non sempre aveva un'etica, ma oggi, dopo anni di deliri socio-sanitari e di guerre di cui si parla e si straparla nei nostri mezzi di informazione, abbiamo la prova scandalosa e bruciante, tanto della dell’esistenza di una scienza senza etica, quanto della potenza del pericolo nucleare. E quindi credo che quest'opera anche diversa, dove magari non si parla della corruzione della politica, della mafia, dovrebbe avere un fascino su tutti noi; e comunque è sempre in linea con i temi sciasciani, come la giustizia, la ragione. Anche in un certo senso l’innocenza potrebbe aver guidato Majorana. La giustizia, la ragione e l'innocenza che non guidano decisamente le decisioni dei governanti di oggi.

Non è facile passare da un saggio a uno spettacolo teatrale, come ti sei orientato?

In verità, è stato piuttosto agevole. La struttura narrativa mi è stata suggerita dalla data di nascita di Ettore Majorana. Ma meglio non anticipare nulla, per chi ancora deve vedere lo spettacolo.

Su quali tematiche hai incentrato la tua Regia?

Ho dei miei piccoli marchi di fabbrica – non oso dire uno stile – che ormai accompagnano i miei spettacoli: una recitazione molto naturalistica – di realismo oltranzista aveva parlato anni fa un noto critico – in uno scenario metafisico o simbolico, spesso popolato da giochi di chiarore e d'ombre. Lo spettatore, allo spegnersi delle luci di sala, dovrebbe sentirsi trascinato in un mondo riconoscibile eppure diverso, potrei dire magico. Usando la parola magico nella sua accezione ancestrale: un rito che rinnova, dalle caverne degli albori della storia umana a oggi. In questo percorso, ho trovato degli eccellenti compagni di viaggio nei quattro attori che compongono il cast – Loredana Cannata, Alessio Caruso, Roberto Negri, Giada Colonna – che in un crescendo d'intensità e ritmo riportano gli spettatori a una tremenda notte del 1945.

Come hai bilanciato narrazione, personaggi, scenografia e musica?

Tutto ha un peso, tutto concorre alla (ri)costruzione di un'atmosfera, di un'armonia, di una magia. La messa in scena di uno spettacolo, se realizzata senza egocentrismi e se non vissuta come sfogo di frustrazioni, è un bellissimo ed entusiasmante lavoro di squadra.

Quale messaggio hai in serbo per gli spettatori?

Che si può dire di no. Si possono rifiutare i compromessi, cercare di essere sé stessi, cercare di essere migliori, anche se a parlare così si ha l'impressione di sconfinare nella retorica. Un po' di sani principi mancano al mondo in cui viviamo.

Cosa pensi della strategia del silenzio che ci ha insegnato il grande fisico?

Questo apre una serie di riflessioni molto contemporanee. Io sento da più parti appoggiare una strategia del silenzio; cioè in questo frangente storico che stiamo vivendo, quel potere che, non discutiamo se ha torto ha ragione, viene definito occulto, sembra così schiacciante, così preponderante che molti suggeriscono di rifugiarsi nel silenzio, di coltivare il proprio universo interiore, il proprio mondo intimo, il proprio mondo immaginario e di aspettare che in qualche modo i tempi siano maturi perché il pianeta sia gestito e gestibile in maniera migliore. È una strategia possibile e che indubbiamente tenta, perché ti spoglia da alcune responsabilità che forse sono un po' grandi per ogni singolo essere umano; ed è probabile che questa sia stata la scelta di Majorana. Tra l'altro lui caratterialmente era una persona molto schiva, come anche Sciascia (e non esattamente come me).

Ecco questa scelta ha un suo fascino e io devo dire ho percepito questo fascino fin da quando ho cominciato ad adattare questo saggio per il teatro. E anche viaggiando a ritroso nella mia vita, capisco che quella estate del 2017, in cui io mi sono cominciato a confrontare con il personaggio di Majorana, ha cambiato qualcosa dentro di me, perché nella solitudine di questo personaggio io ho sentito qualcosa addirittura di mio, anche se ovviamente non mi sento un genio e tanto meno della fisica, visto che sono pure stato rimandato in matematica. Io quando sento parlare di questa vita monastica, non tanto mi permetto di dire per la routine religiosa in sé, ne sono attratto.

E ho anche avvertito un certo fascino perché proprio sulla via del ritorno dell'ultima replica che abbiamo fatto di questo spettacolo, in una amena località chiamata Oriolo, in provincia di Cosenza, con Giada Colonna, abbiamo fatto una deviazione per Serra San Bruno, località del convento dove si dice essersi rifugiato Majorana (o più probabilmente Majorana vi si è rifugiato dopo un percorso in altri con conventi certosini). Io questo convento me lo immaginavo diverso, una specie di Rocca medievale, invece, il convento si presentava quasi come una cittadina, perché ci sono queste ampie e alte mura dietro le quali si vedono delle Torri e ormai nessuno può più entrare nella Certosa. Prima gli uomini potevano entrare, potevano visitarla, ora non si può più entrare.

Eppure, questa vita del certosino dove c'è la regola del silenzio, non soltanto verso il resto del mondo, perché in realtà mi spiegavano che praticamente ogni monaco ha la sua cella, ha un suo giardino privato, possiede ai miei occhi grande fascino. Alla fine, l'estrema laicità raggiunge l'estrema religiosità. Il giardino ha delle mura per cui non vedi il monaco a fianco a te, quasi mai vai a mensa a mangiare, cioè ci sono dei monaci che cucinano e ti portano il cibo nella tua cella. E anche quando durante la notte vai a pregare, indossi una cappa nera, per cui in linea teorica tu non sai chi sta pregando in chiesa accanto a te.

Si tratta di un ritiro estremo che però ti rende in qualche modo plausibile il fatto che una persona in fuga dal mondo, in fuga anche dal proprio tormento, possa scegliere un’opzione del genere, e devo dire che mi tenta a tratti; poi in qualche modo pure a Roma, quindi una località non esattamente così isolata dal mondo, anche il mio appartamento per me può diventare una cella e in essa ho il vantaggio di avere una connessione internet, i miei libri, i miei quadri...

Però capisco la fascinazione di questa scelta in un mondo che rifiuta sicuramente le creature più sensibili e sembra rifiutare anche quelle un po' più intelligenti.

Mi è piaciuto tutto lo spettacolo, ma quando è arrivato il monologo, a me e a tutti quelli che stavano accanto a me sono scese le lacrime, perché è stato talmente emozionante, talmente accattivante, talmente intelligente e pieno di riflessioni che mi sono davvero sentita in catarsi profonda col personaggio.

Io devo dire che il monologo è anche un esercizio di stile sciasciano, nel senso che nel monologo ci sono delle parti che vengono dalla Scomparsa di Majorana, ma una serie di frasi viene anche da altri romanzi, da Il cavaliere della morte, da Candido, viene da saggi come Nero su nero. Forse in questo lungo discorso finale di Majorana – non anticipiamo perché lo fa – può essere interessante appunto citare due cose. Una parte che viene dal Candido, che mio nonno riscrisse sulle orme del Candido di Voltaire «Un fatto è un fatto, ognuno di noi», dice Sciascia, «i rimorsi dentro di sé può girarsi come vuole fino alla follia, ma un fatto è un fatto: non ha contraddizioni, non ha ambiguità, non contiene il diverso e il contrario».

Invece noi viviamo in un mondo in cui anche i fatti – lo vediamo nelle guerre che sono alle porte dell'Europa, lo vediamo per come vengono narrate – diventano menzogne: nel mondo di oggi si è invertito il significato di narrazione, cioè narrazione è diventato un sinonimo di menzogna, non un sinonimo di racconto. E quindi si negano, si tendono a negare i fatti e, anche di fronte all'evidenza, molta stampa o molta tv racconta le cose in maniera diversa. E poi c'è una bellissima citazione che viene da Nero su nero: «Un’idea morta produce più fanatismo di un’idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte. E sono tanti, e talmente brulicano sulle cose morte, da dare a volte l’impressione della vita».

Ora questa scena noi ce le possiamo immaginare: una savana, con un animale come lo gnu o la zebra morto, e tu lo vedi coricato su un fianco: da lontano sembra che dorma e che respiri e invece ci sono gli animaletti che lo stanno mangiando da dentro. E questa è la società in cui viviamo, questa è la società capitalista, questa è la società patriarcale, dove per patriarcale non intendiamo che il presidente sia un uomo, intendiamo che il modello ubbidisca alle regole della sopraffazione, come tutte le società in cui noi viviamo su questo pianeta, a cui tutti i governi che abbiamo su questo pianeta si adeguano. In questo senso anche la scelta di Majorana, la scelta di Sciascia, di non schierarsi mai dalla parte del potere, è una lezione e un monito per tutti noi. Eppure, il mondo intorno a noi, anche i presunti intellettuali che ogni tanto girovagano nei canali televisivi, vanno esattamente nella direzione opposta.

La scelta, ammesso che fosse questa la scelta di Majorana, comunque la scelta che noi abbiamo fatto fare a Majorana, di scomparire nel nulla, significa anche che del suo personaggio noi non avremmo quella traccia nella storia che hanno avuto altri personaggi, per esempio, come Fermi, quindi la morte diventa davvero “una livella”, cioè Majorana, scegliendo di scomparire, diventa un monaco qualunque, che riflessione ti viene in mente?

Se davvero facciamo questo gioco paradossale, se davvero Maiorana ha scelto di rifugiarsi in un convento di certosini, è scomparso per sempre, perché il destino dei certosini è finire in una fossa comune, quindi a meno di fantomatiche riaperture delle fosse e analisi del Dna di tutte le ossa che sono nella fossa, ammesso che in una fossa comune le ossa sopravvivano al tempo, non si potrà mai identificare un corpo. Questa domanda apre anche una riflessione a proposto di derive della scienza e sul rapporto che noi abbiamo con la morte. Quest'estate mi è capitato di leggere i saggi di uno storico francese che si chiama Philippe Ariès su come è cambiata la nostra percezione della morte.

Egli sostiene, lo sintetizzo e lo banalizzo, che per secoli c’è stato il tabù della nascita, si diceva vieni portato dalla cicogna, ti trovavano sotto un cavolo, ma non c’era il tabù della morte, il bambino andava a salutare il padre, la madre o il nonno o la nonna che stava per morire, o altri; come racconta anche Sciascia, andavano dal morente a dire di riferire i loro saluti alle anime dei loro cari trapassati, mentre nella società di oggi non c’è per niente il tabù della nascita, perché il sesso ha perso qualunque mistero e questo gli ha fatto perdere credo agli occhi dei più giovani anche una buona parte della sua bellezza.

Mentre invece c’è un rifiuto dell’idea della morte, sembra che siamo immortali perché la società capitalista ti fa accumulare come se ci fosse un perenne domani, nessuno vuole sentire parlare della morte – in nome di un labile pericolo di morire, ci siamo accollati tre anni di repressione – la morte avviene spesso in ospedale, quindi lontano dallo sguardo, non ci sono più i tre giorni di esposizione del morto, del cadavere che c'erano prima, mentre nella maggior parte dei casi, il giorno dopo il morto viene seppellito, scompare dalla vista.

Dice Philippe Ariès: tu non devi neanche essere triste, è tutto un “vabbè basta, però ora questo trauma lo devi superare” ed è molto strano, perché deve essere una società – questa è l'immagine che i social network vogliono proiettare – in cui devi essere sempre allegro, sempre figo, sempre pimpante, sempre col culo rotondo, devi essere qualcun altro, e invece no, come dicevo prima, dovresti essere te stesso, e se il te stesso non ti piace devi fare i conti o con quello che sei o cercare di migliorarti.

Se tu adesso potessi parlare a Majorana, che cosa gli diresti?

Istintivamente ti direi che forse verrei coinvolto dalla sua timidezza. In questa giornata così piovosa, magari mi piacerebbe stare seduti a fianco alla finestra a guardare la pioggia che cade, a sentire i tuoni che rimbombano, ecc. Poi se io ora parlassi con Majorana, lui arriverebbe dall’Oltretomba, quindi gli chiederei cosa c’è dopo, forse non gli chiederei tanto se lui è contento della sua scelta o no, perché dobbiamo accettare anche che le scelte coraggiose sono in gran parte partite perse. Infatti, lui la partita in realtà l’ha persa, perché poi la bomba atomica è scoppiata lo stesso, però, almeno, non l’ha fatta scoppiare lui: anche se non so se esiste il Karma, se esiste il fato… L’epigrafe di un racconto di Edgard Allan Poe, che in realtà è un verso del poeta inglese William Chamberlayne, «Perché chiamare coscienza questo spettro che mi attraversa il cammino?».

Non sappiamo neanche se esiste la coscienza, però siccome noi nella nostra evoluzione da Homo sapients l'abbiamo forgiata la coscienza, allora per noi esiste.