Ripensando al film di Walter Salles, Io Sono ancora Qui, mi sorge spontanea questa domanda: cosa significa essere ancora qui?

Il titolo è una chiara rivendicazione di presenza, di resistenza e naturalmente sottintende una implicita premessa: nonostante tutto.

La storia che attraversa Eunice Paiva, la protagonista, riporta agli anni della feroce dittatura in Brasile. Può esserci un aggettivo meno ovvio di “feroce” per fotografare la dittatura, oppure non riusciamo davvero farne a meno?

Sono quegli anni in cui loschi individui armati e di poche parole, vestiti in borghese come persone normali, si possono presentare a casa tua, occuparla e portarsi via i componenti della tua famiglia per interrogarli con la scusa che è solo una formalità. Durante il tragitto li incappucciano per fargli perdere i riferimenti ambientali, confonderli, spaventarli, iniziare il subdolo supplizio psicologico che li predisponga alla delazione. Solo il prologo di quanto potrà accadere al loro corpo. La tortura.

Nessuna creatura del regno animale è capace di torturare un individuo della propria o di un’altra specie, legato e indifeso, tranne l’uomo, erroneamente definito bestia da un lessico da rifondare alla luce oggettiva dei fatti e della Storia. Ma la tortura è un sistema sofisticato che si poggia sul nodo fondamentale che unifica il genere umano, il terrore della sofferenza fisica, l’unico elemento che attraversi ogni latitudine e cultura. Senza la paura del dolore fisico, dice Kirilov nei Demoni di Dostoevskij, buona parte dell’umanità si suiciderebbe.

È quello che deve subire il marito di Eunice, Rubens Paiva, un ex deputato che anni prima si era espresso a favore del cambio di regime, ma ormai è fuori dalla politica e lavora come ingegnere a Rio de Janeiro, tiene alto il livello della sua famiglia, la ama ed è riamato. I suoi orientamenti precedenti e le sue amicizie tra gli intellettuali progressisti e con gli esuli, tuttavia, bastano perché dalla mattina in cui viene prelevato non torni mai più a casa.

Il giorno dopo anche Eunice, madre di 5 figli di diverse età, viene prelevata con una delle figlie, incappucciata e portata dove per giorni subisce interrogatori. A parte l’abbandono in una cella lurida e l’ossessività delle domande, la tortura le viene risparmiata. Può tornare a casa e continuare a prendersi cura della famiglia. Ma l’assenza di suo marito e il silenzio sulla sua sorte incombono nei giorni e nelle settimane che seguono, fino alla notizia non ufficiale della sua morte.

L’Habeas corpus act, che sancisce il diritto dell'arrestato di conoscere la causa del suo arresto e di vederla convalidata da una decisione del magistrato, il principio della inviolabilità personale continua ad essere infranto per anni. E il corpo di Rubens Paiva non verrà mai ritrovato, come quello di tanti torturati come lui.

La straordinaria prova di Fernanda Torres, un’attrice che scava nei minimi risvolti di quell’attesa, dalla tenuta emotiva nei confronti dei figli che soffrono dell’assenza del padre e si domandano perché non ritorna, all’uso dei piccoli diversivi, delle bugie necessarie per tenere viva in loro la speranza che lei sta perdendo, fino alla dolorosa consapevolezza di essere rimasta sola a combattere. Quello che non perde mai è la determinazione a sapere, a chiedere alla cosca della dittatura di ammettere che ha assassinato suo marito. La forza di tenere insieme la sua famiglia come madre, senza mai rinunciare ad esserne l’ispiratrice è l’asse portante del film che ha l’eleganza di non rappresentare mai la tortura, proprio perché ogni rappresentazione di essa tradirebbe la realtà, ne ridurrebbe la portata. Lo stesso criterio che ne La Zona d’Interesse lascia ai suoni il compito di evocare l’orrore dietro il filo spianto di un lager nazista.

Ci vorranno anni perché, con il cambiamento politico avvenuto in Brasile e la fine della dittatura, Eunice ottenga il certificato di morte ufficiale del marito e lo esibisca finalmente ai flash dei fotografi con il sorriso tenue e amaro allo stesso tempo che non ha mai perso.

È quel sorriso la chiave semantica che le fa dire: io sono ancora qui. Ci sono e ci sarò anche più tardi, nel prosieguo della sua lotta: a difendere la memoria delle vittime della dittatura, a esigere il rispetto delle comunità indigene, del diritto internazionale, di quelle libertà che un governo deve garantire ai propri cittadini.

Il film è un caso esemplare di quanto può accadere in ogni parte del mondo.

È accaduto in Cile, in Argentina, in Europa da più parti, in Africa con continuità; nel Sud Est asiatico, dove non mancano esempi recenti. La dinamica è oliata come un cronometro di precisione e si ripete uguale a sé stessa. Al centro c’è sempre la violenza dei corpi militari scelti, le squadracce fasciste preposte al lavoro sporco e alla tortura.

Perciò sorprende che in contemporanea all’uscita di questo splendido film, un torturatore libico certificato, di passaggio in Italia, uno che si è andato a vedere una partita allo stadio di Milano, tanto era consapevole della propria impunità, l’abbia fatta franca con tale disinvoltura, malgrado un ordine di arresto del Tribunale dell’Aia. Non un tribunale qualsiasi, ma un’istituzione voluta e riconosciuta dai Paesi membri dell’Europa, ovvero la vecchia banca dei diritti e delle democrazie a cui affidiamo ancora il nostro conto. Un’istituzione che ha fatto arrestare e condannare i boia di Srebrenica. E lì grandi applausi a cose fatte. Cosa è dunque cambiato?

È questo che ci fa chiedere con assoluta mestizia se noi siamo davvero ancora qui. Oppure fingiamo di esserci, confusi sotto un cappuccio di fesserie, ipnotizzati dall’indolore presenzialismo sui social, eroi per il flash di un istante, mentre la dura realtà è che abbiamo abdicato al compito di essere qui e di farcene carico.

Mi conforta sapere che un esule del Sudan, ora residente a Parigi, abbia deciso di essere qui anche per noi. Uno di quelli che nelle carceri libiche ha incontrato il nostro turista per caso e porta ancora sul corpo e nell’anima i segni delle torture che quelle mani gli hanno inflitto. Uno che non può dimenticare nemmeno se volesse, perché ogni notte il suo corpo grida e lo sveglia di soprassalto. Uno che chiede giustizia per l’abuso che è stato costretto a subire. Mai sottovalutare il coraggio di quelli che il nostro sguardo sorvola e spesso tollera a malapena, oppure schiva sistematicamente.

Il film durante la premiazione degli Oscar 2025 si è aggiudicato l'Oscar come Miglior film internazionale.

Loro sono ancora qui.