Un’interminabile partita palleggia la nostra attenzione tra passato e presente, insinuando molti dubbi su chi sarà effettivamente il vincitore. Nel tennis è buona regola rilanciare la suspense con ogni battuta di servizio, che sia un ace o un doppio fallo. E fermiamoci proprio su questa topica: il doppio “fallo”. Nel caso dei Challengers in questione si riferisce, direi quasi che è di pertinenza, a due protagonisti maschili, amici per la pelle all’inizio e rivali un po’ ossidati alla fine. Potremmo definirli i Jules e Jim della racchetta, ma faremmo un grave torto a Truffaut e i paragoni sono le palle che hanno superato la riga, quindi, sono fuori dal campo e dal tema. Perciò le lasciamo ai raccattapalle.
I giovani duellanti s’invaghiscono contemporaneamente della bella Zendaya, una divinità che si nasconde sotto le mentite spoglie di futura campionessa del circuito ATP. I suoi attributi divini vanno ben oltre l’impeccabile silhouette, un modello culturale capace di condannare in palestra moltitudini di ragazzine sovrappeso, insicure e di farle sudare a vanvera per anni. Lei è devota al nume della vittoria, è una vestale con capacità mesmeriche nell’individuare la minima crepa nell’efficacia di un rovescio, sa esaminare con freddezza chirurgica il bagaglio tecnico dei due malcapitati e li sgonfia sistematicamente certificando che non saranno mai dei campioni. E fin qui potrebbe anche avere ragione. Ecco cosa vuol dire stare accanto a una donna bella e ambiziosa. E qui si parla di ambizioni smisurate, che devono varcare la linea di fuoco di palle di servizio lanciate ben oltre i duecento chilometri orari, di tornei in cui per passare un turno devi rasentare la perfezione, e per vincere devi fare ombra a Zeus, o quanto meno ad Apollo.
Ma scendiamo un momento dall’Olimpo e calchiamo di nuovo la terra rossa, o il rude cemento dei tornei minori, i challangers appunto, dove la palla schizza che è un piacere e nelle ginocchia che la inseguono si aprono ferite profonde che poi non si rimarginano più. Su queste superfici Zendaya, inutile sovrapporle il nome fittizio del personaggio che interpreta, dopotutto è lei che vengono a vedere i teenager col bidone di popcorn in mano, vive la sua frustrazione, esercita il suo potere e moltiplica le sue doti intuitive.
Già dal primo appuntamento con i due adoratori, nella stanza maleodorante di calzini che condividono, si mette in testa di smascherare il loro lato debole, quel segreto che non si sono mai confessati. In un dialogo sovrabbondante, che vorrebbe essere intimo, li porta a confessare di essersi masturbati insieme, guarda te, e passando ai fatti li invoglia, a turno, a fare il primo passo, finendo per trasformare il bacio a tre in una finta celebrazione del libero amor. No, non è un possibile rapporto allargato, quelli erano i Dreamers di Bertolucci, i tempi sono cambiati e la trasgressione, se mai ne esiste ancora una, ha l’obbligo di essere patinata e moltiplicare followers su Instagram. Invece sul più bello lei si sottrae e li lascia prima ad occhi chiusi e poi sbigottiti a sbaciucchiarsi. Al momento di uscire però, ricorda loro che l’indomani hanno una finale da giocare e solo il vincente otterrà il privilegio del suo numero di telefono, con tutte le conseguenze che ne verranno.
Nel flash rivelatorio di una latente omosessualità, indizio di una poetica che riguarda tutto il film e chissà, forse tutto l’universo maschile secondo l’autore, non una grande scoperta per dirla tutta, si accende il seguito della storia. Un’altra finale. Tra un dritto lungo linea e un passante incrociato passano anche degli anni.
Ammaliati, contaminati dal fluido femminino di Zendaya, i due amici si allontanano progressivamente. Si perdono nei campi da tennis, chi puntando verso l’alto, chi smarrito nella mediocrità. Del resto, uno è fumatore scavezzacollo, l’altro docile e asservito consorte in carriera, ma questo non cambia il risultato di una competizione illusoria, che li rende incapaci se non impossibilitati a sostenere la potente determinazione della divina, a diventare eroi vincenti anche per lei. Al contrario, ognuno scivola sempre di più nei propri limiti, anziché deificarsi si umanizza, lasciandola inevitabilmente delusa, palleggiata dalla passione per l’uno all’ improbabile ruolo di sposa, madre e coach dell’altro. Insomma, finisce anche lei in stato confusionale, senza mai trovare l’uomo modello capace di destare la sua incondizionata ammirazione. E se questa fosse una pericolosa deriva che sta maturando sotto i nostri occhi, una forsennata gara per non scendere mai dal piedistallo dell’adorazione?
È sempre attraverso di lei che i due ex amici un giorno si ritrovano a fare i conti con il bilancio della propria vita. Ancora giovani, per carità, ma al bivio della linea d’ombra. Tutto in una partita. Per fortuna al meglio del terzo set, perché al quinto non ce l’avremmo fatta ad arrivarci. Va bene che le palle viaggiano veloci e le riprese sono eccellenti, ma ci viene il sospetto che anche le comparse in tribuna non vadano più a tempo; forse anche loro, stanche della contesa, voltano la testa da una parte all’altra troppo in fretta, come non fossero istruite a dovere, perdono il ritmo degli scambi e lentamente il fremito del set ball si affievolisce.
C’è anche un’altra ragione, più specifica, perché questo accada. I due non stanno giocando per sé stessi, ma per compiacere la divina, e ormai abbiamo l’impressione che sia proprio Zendaya a uscire sconfitta, l’unica che non gioca o, meglio, che gioca sempre per interposta persona. Magari a non convincere è proprio la sua Disney femminilità, usata solo per smascherare la debolezza maschile, l’inconsistenza dei due avversari in campo. Le sue virtù materne non risultano attendibili, è come se il tempo e la maturità non l’abbiano né sfiorata né sfiorita, è sempre ostinatamente uguale a sé stessa, inossidabile, e noi abbiamo abdicato alle sue gesta da un pezzo. Chissà se l’autore se ne è reso conto, fuorviato dalle moltitudini di ragazzine e ragazzini che hanno in gran parte speso gli attuali novantaquattro milioni di dollari d’incasso destinati a crescere ancora in giro per il mondo. Certamente un bel risultato, ma oggi certi modelli contano e possono anche fare danni.
Anche se sull’ultima palla del match gli amici si riscoprono tali e finalmente se la giocano come giocavano una volta, col sorriso paravento sulle labbra; anche se il riconoscersi è un premio più alto di quello del torneo, una rivincita sul dominio del femminino inquisitore e inconsapevole, propagandato come ineccepibile ricetta per vincere, di questa interminabile partita siamo ampiamente saturi. Abbiamo digerito tutte le etichette degli sponsors che vi partecipano, ci siamo rassegnati al fatto che un film che parla di tennis, sarà vero? deve necessariamente sciorinare magliette, creme per le gambe, e vada pure per la coca cola, come farcela mancare; ma poi uno dice ok, se questo è il tocco vincente, la smorzata che non ti aspetti, la volée che ti piglia in controtempo, magari ho sbagliato torneo e volevo entrare in un altro cinema.