Hungry Hearts (Cuori Affamati), film di Saverio Costanzo del 2014, mette in scena un dramma esistenziale che riguarda la difficoltà del rapporto con sé, con gli altri, tutti vissuti come potenziali nemici che minano la vita, che fanno del male in quanto estranei da sé, da cui bisogna fuggire perché solo l’evitamento del contatto può salvare da un contagio mortale.
La storia si svolge a New York, l’incipit preannuncia e contiene il sentimento claustrofobico, l’intolleranza alla relazione, il vissuto paranoico che rende la realtà inavvicinabile e intoccabile perché vissuta come insopportabile e malefica.
L’incontro tra Mina e Jude, i due protagonisti, avviene nel bagno di un ristorante cinese, bagno puzzolente, bloccati da una serratura che non funziona, imprigionati in uno spazio stretto, soffocante che forse rappresenta l’angustia del mondo interno e la difficoltà a venir fuori dai problemi.
Siamo sì in un ristorante, ma invece che la funzione nutritiva con un senso di buono e di piacere, viene messa in primo piano l’evacuazione, la puzza, lo sporco e sembra che la relazione tra i due giovani nasca proprio in un contesto di paralisi del pensiero e di drammaticità.
In questo contesto claustrofobico e nauseante si svilupperà la loro relazione amorosa e la vita del loro bambino, a sua volta procuratore di grandi nausee mal sopportate e vissute persecutoriamente dalla giovane donna.
Cuori affamati e corpo affamato, Mina avrà uno svenimento anche a causa di mal nutrimento, ma per lei non è possibile mangiare perché il cibo è vissuto come un attacco distruttivo, il cibo è velenoso, non fa vivere, ma morire.
Mina affamata di amore e di vita non riesce a gestire un amore così grande come quello per Jude e per il bambino, sono contenuti emotivi pesanti, forti che tracimano dal contenitore e lei non sa come gestirli, trattarli, li può solo evitare/evacuare.
È un film che, oltre ai disturbi alimentari, parla della perversione del legame di Mina con sé stessa, col suo bambino e con il mondo esterno.
Mina non sceglie di diventare madre e, quando questo succede, il suo mondo interno è sconvolto (trauma/violenza), non può tollerare oggetti estranei, intrusioni e per accettare il bambino deve negarlo come persona (infatti non ha nome) e inglobarlo, reinfetarlo, ridurlo a una parte di sé.
È un concepimento che non nasce dal pensare, ma è un incidente, la gravidanza è un fatto inaspettato che interferisce nella sua vita, inter-ferisce il suo Sé così fragile.
Per sopravvivere deve pensarsi la madre di un dio, “bambino indaco” che solo con lei e tramite lei può salvarsi dalle contaminazioni.
Il concetto pseudoscientifico di “bambino indaco” nasce nell’ambito della corrente New Age con cui si indica una generazione di bambini che sarebbero dotati di tratti e capacità speciali o soprannaturali o poteri paranormali come telepatia, chiaroveggenza o anche la capacità di comunicare con gli angeli.
La sua vita, da quando si scopre incinta, è assolutizzata nella funzione materna o in quello che lei è convinta sia la funzione materna, e tutte le relazioni e i contatti con la realtà vengono vissuti come estranei, pericolosi e negati. Viene riattivata all’ennesima potenza la sua mancanza di fiducia di base e il vissuto di un vuoto abissale.
Diffidente di tutto e di tutti, si rifugia in un ritiro simil-autistico, lei col suo bambino, o meglio, lei-tutt’uno-bambino, per paura del mondo esterno, oggetto persecutorio che vive come malefico e distruttivo.
Mina soffre anche di disturbi ossessivi compulsivi, tutto deve essere rigorosamente disinfettato, controllato, purificato per il suo bambino indaco, come predetto dalla veggente che ha incontrato e che va per questo protetto da ogni impurità.
L’acqua, simbolo materno, purificatrice, lavante le macchie, le infezioni, è il loro ambiente, di Mina e di suo figlio, è la sicurezza, è il ritorno al prima di ogni spazio-tempo della realtà.
Rifiuta il pensiero culturale/scientifico come espressione del maschile perché non si fida e, paradossalmente, crede ciecamente alle parole della veggente, è donna, può stare e sentirsi riconosciuta nel pensiero magico, nell’illusione dell’onnipotenza.
Mina, orfana di madre all’età di due anni, non è riuscita da sola ad elaborare questa perdita traumatica, non ha avuto modo di vivere e interiorizzare un rapporto primario soddisfacente che l’aiutasse a placare le sue angosce di separazione, di morte, non ha potuto interiorizzare una presenza buona, un contenitore capace di accogliere le sue cacche fisiche e mentali.
È orfana di funzione materna e questa perdita non elaborata ha creato un abisso dentro di lei popolato da spettri inquietanti, al terrore della solitudine non può corrispondere il conforto di un contatto buono.
Se si verifica una difficoltà a tollerare le frustrazioni, l’assenza sembra corrispondere al sentimento spaventoso di venire uccisa.
Forse Mina utilizza l’esperienza della gravidanza per essere madre di sé, per creare quell’unisono che le è venuto a mancare e che adesso, inconsciamente, vuole recuperare in maniera concreta, ma anche distruttiva: lei è madre e figlio, in una relazione malata, perversa che diventa parassitaria.
Nega di conseguenza la sua femminilità, la sessualità, può vivere solo in funzione del figlio-Sè, in funzione di una fusione, non c’è la possibilità di creare nuovi legami emotivi e di costruire un senso/spazio mentale.
Non c’è posto per Jude, il suo compagno, che diventa l’estraneo (lei bambina sola vive con terrore l’angoscia dell’estraneo se non ha avuto braccia che l’hanno accolta e protetta) e Mina non sa offrire braccia protettive al suo bambino, ma solo un’illusoria onnipotenza simbiotica che esclude l’altro da sé, stringendo il bambino in un abbraccio soffocante che non lascia aperture alla vita, al mondo.
Mina è molto selettiva ed esclusiva rispetto all’incontro con altre persone, in quanto gli altri sono vissuti come pericolosi, crudeli, potenziali assassini.
Taglia quindi ogni contatto col mondo, come legge del contrappasso al taglio con suo figlio (taglio cesareo).
Mina farà un sogno inquietante: mentre sta facendo l’amore con Jude sente uno sparo potente e improvviso, va alla finestra, piove, c’è un minaccioso temporale, il suo sguardo focalizza un cervo a terra, ucciso, e un uomo, il cacciatore che si allontana, fino a svanire dal campo visivo, scomparendo nell’oscurità.
Con lo spavento dello sparo, Mina sembra raccontarsi un’esperienza traumatica. Lo sparo uccide il cervo. Di quali uccisioni reali o fantasmatiche si racconterà tramite il sogno? La morte della madre? O starà patendo il padre assente? Oppure la propria morte psichica intesa come impossibilità di tollerare la mancanza della madre che, per la sua assenza, diventa automaticamente cattiva, crudele, killer? Oppure sua madre uccisa da lei stessa? O è lei il cerbiatto ferito dal rapporto con l’uomo e dalla gravidanza indesiderata?
D’altra parte il mondo esterno/cultura/maschile, che penetra violentemente, inter-ferisce (ferita narcisistica) con le sue regole (ecografia, taglio cesareo, controlli medici, proteine animali, ecc) e fa del male, contamina, avvelena, uccide.
Oppure il cerbiatto è il figlio vittima delle sue angosce che non gli permettono di nascere davvero? Oppure potrebbe rappresentare il trauma delle separazioni? Quante domande, ma come sostiene Blanchot “La risposta è l’infelicità della domanda!”
Il sogno è un lavoro mentale profondo che trasforma in immagini e poi in storia gli accadimenti psichici che si riverberano dall’incontro col reale e le storie che racconta sono cariche di significati infiniti, così come infinito è il mistero di cui siamo fatti.
Ancora domande…
L’uccisione del cervo potrebbe anche adombrare il rapporto sessuale che diventa mortifero, traumatizzante, disgregante il sé, perché non metabolizzabile?
Oppure rappresentare il mondo, la realtà esterna omicida che il regista fa raffigurare anche dalle antenne che emanano radiazioni killer, anche se le antenne sono recettori e veicoli di comunicazione. Ma Mina non può sopportare contatti, sviene per intollerabilità e come fuga dalla realtà.
D’altra parte tutti i personaggi del sogno si possono pensare anche come aspetti del sognatore, quindi potrebbe rappresentare la sensazione di Mina di essere braccata e uccisa dal cacciatore, ma allo stesso tempo potrebbe essere lei la cacciatrice e colpevole di assassinio (di sua madre? Di suo figlio? Della vita?)
Mina sembra mettere negli altri il sé cacciatore, la parte violenta e, nel bambino indaco, la parte di sé affamata, fragile, speciale e vittima sacrificale.
Mina è anche il cervo.
E il cervo è un animale ricco di simbologia, non a caso Mina lo ospita nel suo immaginario e lo sceglie per dare corpo e storia ai suoi stati d’animo.
È simbolo di purezza e sublimità.
Nell’iconografia cristiana rappresenta Cristo che deve salvare dal demonio, e il bambino indaco è chiamato a salvare il mondo.
Buddha, in una vita precedente, si era reincarnato in un cervo dorato dalla voce melodiosa, la cui missione era calmare le passioni degli umani sprofondati nella disperazione.
Il cervo, nella cultura celtica, è venerato per i suoi palchi alti, simili ai rami, che si rinnovano ogni anno, simboleggiando la fertilità, la rigenerazione, la rinascita; simbolizza anche il passare del tempo e dei flussi e riflussi della crescita spirituale.
I miti celtici narrano delle cerve gravide che nuotavano fino all’isola di Artemide, la madre Cerva, per partorire, oppure del cacciatore Atteone trasformato in un cervo, poi sbranato dai suoi stessi segugi per aver spiato la dea mentre faceva il bagno: quindi mostrano un’equivalenza inconscia tra cacciato e cacciatore.
Il cervo, solitario, sfuggente, non è facilmente addomesticabile.
In inglese “to bell” è il grido del cervo in calore, “belly” è pancia, gonfio, per cui simbolo della fertilità: amore affamato e morte albergano in Mina.
Il cervo selvaggio vagando il sentiero, salva l’anima umana dal suo pensiero.
(W. Blake)
Nella sua storia il maschile è fallimentare e debole, ad iniziare da Jude che, nelle prime scene del film, sta male ed è in difficoltà a trovare una via d’uscita.
Assistiamo anche al fallimento/uccisione della funzione paterna (Jude e il medico per lei inaffidabili, diversi, quindi nemici) che non riesce a contenere le angosce di separazione di Mina, non riesce a supplire la costellazione materna così preponderante e invasiva.
La funzione del padre è esclusa e uccisa dall’onnipotenza della madre, Mina sente il bambino solo suo, creato da lei, divino, vuole solo avere=essere il figlio.
Nel prosieguo della storia il corpo di Mina sempre più emaciato, la sua espressione spaventata di animale/cervo braccato testimoniano i fantasmi divoranti, il terrore senza nome da cui è invasa.
Il suo pensiero selvatico, l’angoscia devastante che trasborda in maniera inarrestabile, è raffigurata sullo schermo, dal deformarsi delle forme (uso del grandangolare) che allude appunto al dismorfismo psichico: la prospettiva è distorta, i volti assumono caratteri animaleschi o da extraterrestri, diventano disumani, l’ambiente assume connotazioni inquietanti, irrealistiche, perverse. È la mente deformata dal dolore impensabile, mente ferita, in agonia.
È un dolore disumanizzante che non può aver pace se non nella morte, inconsciamente cercata e, per ironia della sorte, ma forse non è semplicemente così, incontrata attraverso l’uccisione da parte di un’altra donna e madre.
E qui sorgono altri inquietanti interrogativi sul rapporto col materno.
Il film è una mitragliata di dolore che travolge lo spettatore in un vortice senza fine, patendo e subendo impotente il dramma dell’incubo di Saverio Costanzo che crea un campo magnetico dove personaggi e persone, tutti senza scampo, sono inesorabilmente in gioco nell’interpretare quella strana avventura che è la vita.