Fu un 'maledetto toscano' , autoironico, dissacrante, anticonvenzionale. Ma fu anche il genio della porta accanto, il romantico innamorato delle fanciulle che amano incondizionatamente, il poeta delle piccole cose, di chi vive nelle soffitte e 'per sogni e per chimere e per castelli in aria' ha l'anima milionaria. D'altronde la stessa Barbra Streisand in un monologo da lei scritto e interpretato nel 1996 dice che quando ci innamoriamo sentiamo Puccini nella testa. Perché - dice lei - mentre ascoltiamo la Bohème o Turandot un po' di quell'amore rivive anche dentro di noi. Si potrebbe aggiungere che forse un po' politicamente scorretto Puccini lo è stato, struggendoci con note che raccontano di sogni, ma vivendo da gran signore; signore sentimentalmente appassionato ma, ahimè, ripetutamente fedifrago.
Nonostante siano trascorsi cento anni dalla morte molti aspetti della personalità del compositore lucchese sono rimasti nell'ombra. Di lui per lungo tempo è stata tramandata un'immagine di cacciatore di folaghe, di donne e di note. Non si coglieva pienamente il suo difficile percorso, pensando che, in fondo, quell'organista mancato avesse avuto anche troppa fortuna.
Chi parla è Maurizio Sessa, giornalista, melomane, scrittore e appassionato collezionista che ha dedicato anni della sua vita alla ricerca di cimeli e di notizie che possano fare una luce migliore sulla carriera e sulla vita stessa dell'artista. Il suo libro Puccini 100 anni. Viaggio sentimentale da Lucca al mondo (Edizioni Medicea) nasce non solo dalla passione, ma da una certosina 'caccia' sulle bancarelle di mezza Italia, che lo hanno portato, tra l'altro, a scovare una commemorazione inedita tenuta dal pianista e musicologo Vito Selvaggi nel 1926 a Lugano, in cui si mettevano in evidenza alcuni aspetti del compositore lucchese, allora negati o sminuiti.
Mentre si celebrano i 100 anni dalla morte di Puccini, la mia intenzione è quella di dimostrare quanto la sua popolarità fosse grande già ai suoi tempi, quando invece era spesso e volentieri vituperato dalla critica. Ai palati fini, abbagliati dalla musica di Wagner, le sue composizioni non andavano giù. C'è chi le paragonò alle melodie dei Caffè Concerto e chi invece scrisse pamphlet contro di lui, accusandolo di fare musica commerciale.
Se è vero che nella seconda metà dell'Ottocento il melodramma era considerato come una musica di serie B, è anche vero, però, che le stroncature della critica non riuscirono mai a scalfire il trasporto del pubblico. La sua scelta di musicare “i grandi dolori in piccole anime” toccava le corde più intime della sensibilità e le rappresentazioni finivano sempre, o quasi, con grandi applausi. Solo con Edgar, presentata al Teatro alla Scala di Milano, qualcosa non funzionò e anche la prima de La Bohème, rappresentata sette anni dopo al Regio di Torino con la direzione di Toscanini, ottenne stranamente un'accoglienza tiepida. Ma fu solo per un momento.
Nel giro di poco tempo l'opera venne ripresa nei maggiori teatri del Regno ed anche a Berlino, Vienna, Parigi e Manchester, ottenendo ovazioni. A dispetto dei molti detrattori anche La Tosca ottenne poco dopo un enorme successo di pubblico. Puccini era ormai un uomo noto e ricco, tanto è vero che fu uno dei primi italiani a permettersi l'automobile. Ricco sì, ma lontano da quegli atteggiamenti a divo che ci si sarebbe potuti aspettare da uno degli italiani più conosciuto nel mondo.
Puccini era troppo impegnato a musicare, vivere, amare, cacciare, fumare per edificare il suo mito da lasciare ai posteri.
Commenta Sessa.
In realtà lui non sembra essersi mai preso troppo sul serio mantenendo la sua proverbiale ironia e quella 'toscanità' che gli faceva affibbiare nomignoli, non sempre indulgenti, ad amici e parenti. Come alla sorella Ramelde, la sua prediletta, chiamata affettuosamente “trogolo”, nome che indica la mangiatoia del maiale.
Ma allora, visto anche questo atteggiamento da antidivo, perché tante reazioni critiche negative nei suoi confronti? Spiega Maurizio Sessa:
A Puccini non fu mai perdonato di avere avuto successo. Compose 12 opere, tutte, o quasi, ben accolte dal pubblico. È un po' un vizio italiano quello di criticare chi è amato dal popolo. Azzardando si potrebbe dire che il melodramma a quei tempi, era un po' come la musica pop di oggi. Anche Verdi ebbe le sue difficoltà. Solo che il maestro di Parma era un idolo del Risorgimento italiano, mentre il maestro di Lucca aveva uno sguardo più internazionale. Fu un 'provinciale cosmopolita', come lo descrive Gregorio Moppi nella prefazione del mio libro. Ma comunque sempre cosmopolita fu, in un momento storico in cui regnava il nazionalismo.
In effetti solo due opere di Puccini furono ambientate in Italia, La Tosca, che si svolge a Roma, e Giovanni Schicchi, che ha il suo palcoscenico a Firenze. Tutte le altre storie sono vissute in paesi lontani: la Turandot in Cina, la Butterfly in Giappone, La Bohème a Parigi, La Fanciulla del west negli Stati Uniti. Un panorama ampio di mondi ancora per la maggior parte sconosciuti ai più ma certamente stimolanti la fantasia e la curiosità collettiva. D'altronde la popolarità di Puccini è rimasta intatta negli anni, tanto che almeno 7 delle sue 12 opere sono ancora oggi rappresentate nei più grandi teatri.
Chi non conosce quella gelida manina di Mimì, o la tenerezza di Butterfly che attende di vedere levarsi un fil di fumo sull'estremo confin del mare. E ancora la struggente preghiera di Tosca che visse d'arte e visse d'amore o il disperato canto di Cavaradossi che mentre l'ora fuggiva ricorda i dolci baci e le languide carezze di colei a cui aveva disciolto i veli. Lo stesso autore del libro ne fu invaghito a soli 12 anni, 'reo’ il padre che gli donò un 33 giri della Tosca interpretata da Maria Callas, che racconta:
Lo ascoltavo in continuazione tra i rimproveri di mia madre, che mi vedeva distratto dallo studio. Ero un'adolescente e quella fu la mia prima opera, la rivelazione di un mondo. Poi il caso ha voluto che nei vari mercatini dell'antiquariato che frequento abitualmente mi sia imbattuto in alcuni cimeli storici che riguardavano proprio Puccini. E allora ho cominciato a collezionarli.
A dimostrare la grande popolarità del compositore, il libro ci mostra una serie di documenti cosiddetti minori, quelle 'carte povere' che niente avevano a che fare con la critica erudita, ma molto con la vita quotidiana. Troviamo così la cartolina autografata da Pietro Mascagni e da cantanti e musicisti a bordo di una nave i primi di dicembre del 1922, e anche un cartoncino pubblicitario della ditta di cappelli in feltro Borsalino, di cui Puccini fu fedele testimonial. Il maestro lucchese, infatti, non si separava mai dal suo Borsalino, neanche quando componeva al pianoforte.
E ancora sono tornati alla luce articoli di giornale, ritratti autografi, busti in materiale vario realizzati dai figurinai della sua città. Straordinari poi i calendarietti tascabili e profumati che i saloni di bellezza di tutta Italia e i barbieri regalavano a fine anno alla clientela più assidua. Uno viene dalla ditta Acqua di Colonia Tosi, di Milano, ed era profumato al 'minuetto'. Un altro ha lo stemma del salone di profumeria Enrico Pagliarulo di Napoli. Un terzo fu coniato da un 'figaro' dell'epoca, forse toscano. Tutti ricalcano immagini a colori dei personaggi delle sue opere, compresa ovviamente, l'effigie del loro autore.
Facile, allora, immaginare la popolarità di Puccini tra i suoi contemporanei. Racconta Maurizio Sessa:
Nel 2012 mi imbattei anche in un foglio pubblicitario in cui il compositore 'consigliava' l'acquisto della penna Parker. Figuriamoci! Proprio lui che aveva una grafia pessima! Ne so qualcosa io che ho perso la vista a decifrare il carteggio delle lettere dell'Archivio Antinori, che poi ho pubblicato per i tipi di Pacini-Fazzi di Lucca. "" Comunque Puccini, pur all'apice del successo, continuò a raccontare dei "grandi dolori in piccole anime". Non solo per una sorta di 'ruffianeria' verso il suo pubblico, al quale certamente conveniva lisciare il pelo, ma anche perché lui, giovane provinciale alla scoperta del mondo, la vita comune da squattrinato l'aveva conosciuta bene. Perché Puccini, come Rodolfo della sua Bohème, aveva vissuto nelle soffitte.
Non di Parigi ma di Milano. Soffitte che, ai tempi del suo Conservatorio, condivideva con amici, tra cui lo stesso Mascagni. Soffitte da cui scriveva alla madre perché gli mandasse un po' di olio bono toscano visto che altrimenti non c'erano i soldi per poter condire i fagioli. In fondo proprio Rodolfo gli assomiglia molto, lui, che nella sua lieta povertà sciala da gran signore rime ed inni d'amore e si emoziona per due occhi belli e una gelida manina. Sembra il ritratto che Puccini dipinge di se stesso. O almeno di una parte di se stesso, quella romantica e sentimentale. E a noi ci piace ricordarlo così.