Vermiglio (2024), dopo il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia, (Gran Premio Giuria) rappresenterà l’Italia nella corsa agli Oscar per il miglior film internazionale. Opera seconda di Maura Delpero, dopo l’esordio con Maternal (2019), è un omaggio al padre, nel desiderio di preservare la cultura dei luoghi di origine familiare, l’austero ambiente rurale della Val di Sole in Trentino.

Il film prende spunto da un sogno fatto dalla regista in cui le appare il padre, morto alcuni mesi prima, che fa rientro nel suo paese natio, Vermiglio, che dà il titolo al film. Siamo alla fine della Seconda guerra mondiale, la famiglia Graziadei vive nella frazione trentina di Vermiglio, in una casetta in mezzo ai campi e alla neve dei lunghi inverni di montagna. Il capofamiglia è un patriarcale maestro elementare, Cesare (Tommaso Ragno, superbo) guida morale del paese, che si sforza di insegnare ai suoi studenti non solo a esprimersi in un italiano corretto invece del dialetto che tutti parlano a casa, ma anche ad aspirare a qualcosa di più bello al di là della fatica quotidiana.

Nel momento in cui i Graziadei danno ospitalità a un soldato siciliano, Pietro (Giuseppe De Domenico), un disertore dell'esercito, si innesca una reazione a catena che turba gli equilibri della numerosa famiglia, e che si svilupperà lungo le quattro stagioni dell'ultimo anno di guerra, riflettendo il ciclo della natura e della vita umana. Nelle sequenze sceniche, che mostrano le fasi della vita familiare dei Graziadei, tutto è equilibrato e morigerato nei toni e nella “postura narrativa”, fatta di attenzione, ascolto, sguardo, empatia ed emotività, per meglio accogliere e comprendere la sofferenza dal punto di vista di chi la sperimenta, nel rispetto dell’unicità della persona. Un lungometraggio di ambientazione storica, un passato convincente che si rapporta con un rigore narrativo da rendere verosimili ambienti, volti, costumi e dialoghi dell’epoca.

Una narrazione che unisce un taglio da documentario a passaggi descrittivi da cinema postmoderno, una semplice storia quotidiana che scalda il cuore, capace di “portare la poesia in immagini”, dalla maturità espressiva che affonda le sue radici nel cinema di Ermanno Olmi: un paesino sperduto nei monti altoatesini, dall’atmosfera ovattata.

È una straordinaria opera, che viaggia tra semplicità e realismo assoluto, che fa entrare lo spettatore nel paese, nei suoni, nelle espressioni e nelle voci quotidiane del Trentino (1944), immergendo lo spettatore nella musicalità di una lingua antica. Il film è in dialetto solandro e le riflessioni sul dolore della guerra, sul mistero della morte, sulle regole della morale sono espresse nella lingua usata nelle osterie, nelle piazze e nei focolari domestici. La scelta di una lingua popolare è quella di dare credibilità al luogo in cui ancora oggi il dialetto prevale sull’italiano.

Vermiglio viene raccontato in quasi totale assenza di colore. Prevalgono le tonalità fredde, tanto più che il paesaggio, nella prima parte, è nevoso e invernale. Anche gli interni degli ambienti sono tenebrosi dai toni marroni e grigi. La raffinatezza visiva e compositiva della fotografia è affidata a Mikhail Krichman, le scene interne frenano l’azione di un racconto che a tratti si colloca tra Ermanno Olmi e Sandrine Veysset. Il mondo descritto da Maura Delpero «un paesaggio dell’anima», è piccolo e antico ancora riconoscibile nella sua gentilezza, nel calore familiare e l’educazione del padre, a volte di eccessiva severità.

I personaggi esprimono la serenità e l'apparente semplicità di un tempo con uno schema di relazioni domestiche, ma sempre pronti a porgere la mano al prossimo. Protagoniste le figure femminili (Lucia, Ada e Flavia), le tre figlie femmine della famiglia Graziadei, le cui storie rispecchiano con grande fedeltà il periodo storico e la condizione sociale in cui vivono, la guerra è un’entità lontana e invisibile, evocata soltanto dal suono degli aerei che talvolta sorvolano la valle. Una comunità rurale di un villaggio di montagna, in gran parte autonoma, chiusa a riccio col mondo esterno, gelosa delle memorie e testimonianze trasmesse oralmente da una generazione all’altra.

Il film (nel cast anche Roberta Rovelli, Martina Scrinzi) rispecchia il personale debito affettivo alla morte del padre, nel desiderio di preservare la cultura dei luoghi di origine familiare, l’austero ambiente rurale della Val di Sole in Trentino, con una buona dose di immaginazione. Emerge visivamente il ritratto di una comunità amorevole, dalle gioie piccole e grandi, dalle tante tristezze e speranze, dove la montagna diventa testimone silenziosa di una storia di riluttanza non solo contro la guerra, ma anche contro l’imposizione di un sistema sociale e familiare che sembra opporsi alla necessità di un cambiamento.