Due film che a vario titolo hanno corso per gli Oscar di quest’anno, due ambientazioni opposte, due casi della strabiliante concentrazione di energia in dote agli esseri umani quando si fissano un obiettivo, anche a costo di rischiare la propria vita. L’impatto emotivo che ne scaturisce è così dissonante da guadagnarsi una riflessione. Vediamo le circostanze.

Quando raggiunge i sessant’anni, Diana Nyad ha già alle spalle scorpacciate d’acqua negli annali delle imprese; nel senso che ha percorso a nuoto distanze che molti di noi non copriranno mai, nemmeno in motoscafo. Ha nuotato intorno all’isola di Manhattan per 45 chilometri quando aveva ventisei anni, che è anche un modo per conoscere meglio la propria città, visto che è nata a New York. Non si discute.

Dopo quattro anni, decide di farsene 164 tutti d’un fiato, proviamo a scherzare, da Bimini, nelle Bahamas, fino alla Florida. È ormai una campionessa, detiene il record della traversata Capri - Napoli, tanto per stare in acque più accoglienti e materne. Le è bastato tenere il naso puntato sul fumo del Vesuvio ed è scivolata via sulla corrente come un’acciuga sulla pizza. Ma la naiade greca, la ninfa dell’acqua, ha altre ambizioni. A ventotto anni azzarda la traversata da Cuba a Key West, in Florida, 103 miglia, che dette così polverizzano la distanza rassicurante di 177 chilometri evocando lo spettro di un infinito marino nel quale pullulano squali e meduse capaci di paralizzarti.

A metà strada, però, è costretta a rinunciare proprio a causa del veleno di una medusa. Vista la sua natura di predestinata, come le ha profetizzato suo padre prima di abbandonarla, è quasi ovvio che per i restanti trentadue anni non trovi la maniera di rimarginare la ferita. Mettiamoci anche l’ormai statistico abuso subito dal primo allenatore a rincarare la dose di un carattere forgiato nella sofferenza.

Così, al giro di boa dei sessata, rientra in vasca e si allena forsennatamente sotto l’occhio vigile della sua compagna di vita, ormai divenuta una coach inflessibile. Trova uno sponsor, mette insieme un gruppetto di persone che l’assecondano, tra i quali un esilarante lupo di mare esperto di fondali e di correnti, e fa in modo che superino le perplessità che non possono esprimere a voce alta, almeno al suo primo tentativo. È convinta di farcela, almeno quanto è preparata a subire un altro smacco. Rinunciare? Non se ne parla.

“Un diamante è un pezzo di carbone che non ha mollato”, c’è scritto sul muro della sua stanza da letto. Per scoprire che non è una balla consolatoria sulla propria identità le ci vogliono altri quattro drammatici tentativi, quattro anni di sacrificio e frustrazione. Finché, il 2 settembre 2013, dopo aver nuotato per 56 ore di seguito, senza la protezione di una gabbia anti-squali e con il solo ausilio di una muta contro le meduse, riesce a raggiungere la riva della Florida, accolta dal palinsesto mediatico al completo e da una folla di gente che ha messo i piedi a mollo per seguire dal vivo quegli ultimi passi che le mancano prima di toccare il traguardo, barcollante, mezza morta.

Fa quasi ridere che dopo una cayenna del genere debba tassativamente avere entrambe le caviglie fuori dall’acqua per non vedere annullato il proprio record.

Quali mostri si nascondono dietro a simili regolamenti? Insomma, arriva sulla rena asciutta ed è trionfo. Ma l’impennata vera, il succo della storia, avviene quando, con le stentate parole di quello sforzo sovrumano ancora sottopelle, dichiara che un’impresa non può avvenire senza un’equipe che ti sostiene.

La magnifica chiosa finale sigilla alla perfezione il messaggio tanto caro all’America dei vincenti, perché li riposiziona in mezzo alla gente comune, li democraticizza per così dire, quando per tutto l’itinerario delle loro imprese hanno mostrato un egoismo stomachevole, un totale disprezzo delle difficoltà altrui, un menefreghismo assoluto che naturalmente nascondeva una cosa sola: l’indomabile virtù di chi deve spingere le cose all’estremo perché anche gli altri, i poveracci senza sfide da compiere, senza elettrizzanti sogni per cui battersi, possano vedere che c’è un orizzonte oltre il piattume della loro esistenza.

Oggi la scia di questo indelebile messaggio viene centrifugato dal golem dei social e sforna atleti della domenica polifunzionali inclini al doping, accessoriati di cardiofrequenzimetri per sfide fai da te; managers divoratori di carne umana; influencer che spacciano droghe allucinatorie in nome della bellezza eterna; esperti volenterosi e basta; schegge del gioco al massacro che gira su TikTok e miete vittime; modelli di youtuber micidiali per le fresche illusioni degli adolescenti. Insomma, una socialità devota allo sgomitare permanente pur di arrivare per prima a piazzarsi da qualche parte e rimanere in vetrina il più a lungo possibile. Si taccia della politica, che è ampiamente scavalcata dal fenomeno e non sa come venirne a capo, se non producendo cloni stonati ogni volta che aprono bocca.

Era consapevole la naiade greca che il suo esempio, come altri dello stesso tipo, si sarebbe offerto a una versione della volontà in linea con la spia sempre accesa del mercato, a un modello demenziale di protagonismo, del non essere mai da meno, e che le sue migliaia di bracciate si sarebbero lasciate dietro la schiuma di un simile disastro?

L’unica in grado di assolverla dalla sua inconsapevole colpa è la prova di Annette Bening, un’attrice superlativa, che immette poesia in ogni inquadratura che la riguarda. Come spesso accade dunque, è l’arte a offrirci un riscatto dall’equivoco, dall’immarcescibile culto di sé e, in definitiva, dal sonno della stupidità.

Dopo il mare, si sa, ci si sposta in montagna per l’arietta fresca che giova alla salute. Purtroppo, non è il caso del film spagnolo ambientato sull’irascibile catena delle Ande. Irascibile perché ha un brutto carattere e se una mosca di aeroplano si azzarda a sfiorarle il naso è pronta a giurare vendetta. Ne sanno qualcosa i giovani della squadra di rugby uruguaiana Old Christians Club, che nel 1972, partita da Montevideo insieme ad alcuni amici e familiari, si trova a sorvolare quei pennacchi innevati per raggiungere il Cile.

A un tratto, il volo si addensa di nuvole e di presagi. La burrasca sballotta il loro aeroplano, e fin qui la turbolenza ci può anche stare, ma poi lo risucchia lungo un profondo ghiacciaio e per pura crudeltà lo scaraventa giù, lanciato in una volata che non darebbe chance a un bob olimpionico. Alla fine della corsa, tra i 45 passeggeri a bordo, qualcuno è già morto sul colpo.

Se ne accorgono i 27 superstiti, alcuni feriti seriamente, man mano che si riprendono dallo schianto. Il rottame della carlinga è l’unico loro rifugio, mentre cala la notte e il gelo che sibila tra le cime delle montagne diventa implacabile. La radio fuori uso e non più riparabile, i vestiti inadatti all’inattesa gita sulla neve, viveri scarsi e una ridicola scorta di alcol. Quei ragazzi sono scivolati talmente in fondo al canalone del ghiacciaio da diventare invisibili anche agli eventuali soccorsi aerei partiti dopo la loro scomparsa. Questa presa di coscienza si fa sempre più tossica col passare dei giorni. Ma il senso di essere una squadra continua a tenerli uniti e alimenta il sostegno reciproco, le cure a quelli che si lamentano per le ferite.

Ecco, lo spirito di squadra, un condensato di fatica e di sudore condivisi negli allenamenti, nelle partite vinte e soprattutto in quelle perse, un amalgama non solo agonistica, ma direi quasi trascendente, che non si può comprendere se non si è stati parte di uno spogliatoio, o scugnizzi sulla terra abrasiva di un campetto di periferia.

La resistenza di quei giovani viene progressivamente umiliata dalla fine delle riserve di cibo, dalle notti al gelo, da una tormenta che li seppellisce dentro quel sudario di ferraglia in cui stanno attruppati e cercano di scaldarsi col calore dei loro corpi.

Inevitabile che qualcuno ci lasci l’anima, la condensa dell’ultimo respiro che si fa gelo. È inevitabile che s’insinui il demone della sopravvivenza, un demone che prende forma nella necessità di mangiare ad ogni costo, se si vuole sopravvivere a quelle temperature. Gli sguardi diventano torvi, brutali, ferini, quando incrociano quelli di coloro che tentano disperatamente di mantenersi alti, nobili, devoti alla lealtà verso i corpi dei compagni morti e al dolore per la loro perdita. L’inferno non brucia di fiamme, ma di carne umana commestibile.

I primi che si rassegnano a quell’umiliazione lo fanno con pudore, con discrezione, senza perdere la dignità davanti agli altri, e non vengono giudicati, proprio perché lo spirito di squadra li determina a sopravvivere, pur nella difformità delle loro scelte. Del resto, è una reazione a catena che col passare dei giorni segna il passo da compiere per restare vivi. Nessuno ce la fa a resistere. Nutrirsi dei corpi è l’ennesimo atto di comunione della squadra. Lo dimostra uno di loro, mentre sta morendo a causa di una ferita andata in cancrena. Su un pezzo di carta scrive che fare dono della propria carne è il gesto più profondo della sua amicizia.

I 16 superstiti potrebbero finire lentamente e inesorabilmente decimati se, con le ultime forze, tre di loro non prendessero l’iniziativa di muoversi dall’imbuto in cui sono intrappolati. Roberto Canessa, Nando Parrado e Antonio Vizintín. Un’azione azzardata, viste le condizioni fisiche e la monumentale massa delle montagne che li schiaccia, già tentata altre volte a piccoli gruppi, ma senza esito.

Forse, oltre quei costoni di roccia, al di là dei crepacci, e il suono della parola suona già come una sentenza di dover crepare, c’è qualcosa, una vallata, chissà, magari il Cile, qualcuno che possa aiutarli a dare l’allarme, a segnalare la loro posizione. Sono allo stremo e questa è la loro ultima occasione. Passano giorni a prepararsi. Raccolgono gli stracci più caldi per coprirsi, dovendo affrontare notti all’aperto, mettono insieme una parvenza di equipaggiamento, inclusa la scorta di cibo, sì, proprio quello lì, e s’inerpicano lungo il costone del ghiacciaio, oltre la corona di vette che li ha circondati per quasi due mesi.

Dopo tre giorni, Antonio Vizintìn torna indietro per permettere agli altri due di razionare meglio le scorte residue. Lo sforzo è immane, la neve alta e la fatica taglia le gambe. Arrivati in cima non vedono che montagne, picchi aspri di roccia, nulla che sia diverso da un glaciale deserto. Si guardano, forse è venuto il momento di rinunciare, hanno finito i viveri e non ha senso andare avanti. Invece Roberto, che ha ispirato la missione fin dal principio, decide che continuerà, anche a costo di andare incontro alla morte.

Lascia all’amico la scelta di seguirlo o meno. Nando si affida al compagno, alla sua intuizione, o forse a una dose di volontà che a lui è venuta meno. Proseguono insieme e dopo quasi dieci giorni di quella missione impossibile scendono lungo una vallata e trovano un fiume. Sull’altra sponda, sbigottito, perplesso, c’è un mandriano che li osserva. Chi sono quei due straccioni partoriti dalla montagna che gli urlano frasi insensate di aiuto? Roberto e Nando non hanno più voce ormai, scrivono un biglietto e lo avvolgono intorno a un sasso, il loro grido di allarme. Lo lanciano sull’altra sponda del fiume, ai piedi dello sconosciuto. Il resto è la cronaca di un salvataggio in ritardo di due mesi.

L’epilogo di uno sforzo incredibile, il terminale di una volontà affilata come una lama di ghiaccio. Eppure, anche se appartiene a un singolo individuo, ha mantenuto fin dal principio, senza mai smarrirlo, il senso della squadra che rappresenta. La sua finalità, che sta al di sopra di tutto, è la salvezza del gruppo che lo ha delegato a combattere l’ultima battaglia. Pur nella delirante situazione in cui si svolgono i fatti, qui si respira un livello di etica che sembra avere senso, un nesso con la vita che non ha storture o derive personali. Un nesso che rende la volontà una forza pura, non manipolabile, ancorata a leggi invisibili, quelle che permettono a tutti noi di continuare ad esistere.