Se in Italia c’è un cantautorato ancora giovane ma pienamente maturo e musicalmente senza tempo che merita attenzione è quello di Carlotta Sillano, che per il suo nuovo (e quarto) album ha abbandonato il marchio Carlot-ta ed è tornata alla semplicità dell’anagrafe. È tornata anche alla lingua italiana, che in passato aveva utilizzato solo una volta per le sue canzoni (il gioiellino Pamphlet, forse l’episodio più pop).
La scelta è stata molto spontanea – spiega - ho iniziato a desiderare che le cose che avevo da dire risultassero accessibili e comprensibili e ho cercato di utilizzare la mia lingua in un modo per me soddisfacente e che rende proprio il linguaggio il focus del processo compositivo.
Nella natura vuota dei simboli appassiti è fin dal titolo un disco coraggioso, che non deve spaventare, perché nella scrittura di Carlotta c’è una facilità melodica innata, limpidissima fin dai tempi di Make me a Picture of the Sun, dai tempi degli esordi con la benemerita annathegranny di Gianmaria Ciabattari. Certo, dal punto di vista della composizione l’autrice è cresciuta, ha lasciato che sui suoi pezzi si depositassero strati, fatti sia di ascolti contemporanei che di consapevolezza dei classici: un po’ come in geologia leggiamo il mondo proprio grazie agli strati.
Carlotta Sillano è una perfezionista, ha avuto fior di produttori (Rob Ellis per Songs of the mountain streams, Paul Evans per Murmure e ora Taketo Gohara e Corgiat) ma, senza far torto a nessuno, la mano che si riconosce è prima di tutto la sua, che accetta consigli ma ha anche idee molto chiare su quel che vuole fare e quel che vuole essere, fin da quando il “pop” ha deciso di dosarlo qua e là, senza farne un obiettivo, ma dimostrando di poterne disporre.
Qui c’è una ricerca accuratissima del suono, come nel precedente Murmure, che era edificato prevalentemente attorno all’organo a canne che per un po’ è sembrato diventare tutt’uno con l’artista. Uno strumento di cui resta il segno nella stratificazione, ma la tavolozza è ampia: naturalmente pianoforte, elettronica, un quartetto d’archi, le chitarre di Asso Stefana, arrangiamenti raffinati e sempre in bilico tra la modernità e la tradizione, un uso della voce che ricorda Joanna Newson e che sembra sempre raccontare una fiaba, accompagnando l’ascoltatore in un luogo che un po’ corrisponde ai boschi delle Alpi occidentali e alle valli in cui Carlotta, piemontese di Vercelli, è cresciuta, e un po’ è memoria sentimentale. Spiega Carlotta:
Amo crogiolarmi in questo tipo di ricordi e nostalgie, che poi sono una forma di immaginazione. Ogni tanto mi chiedo se sia giusto o se sia un piacere un po' insano. D'altra parte infinita è la letizia della mente immacolata, recita un celebre verso.
Continua citando il poeta inglese Alexander Pope.
Molti passaggi musicali sembrano uscire da un carillon di strada, uno di quelli azionati da una manovella, consegnando un senso di magia e di rimembranze che ha sempre fatto parte del pacchetto, così come un’attenzione a suo modo religiosa per la natura.
Rifletto sull'ambiguo concetto di natura, amo molto gli spazi cosiddetti naturali, in cui mi rifugio e che compaiono spesso nelle canzoni. Si tratta però inevitabilmente sempre di spazi che sono parzialmente antropizzati, in cui natura e artificio si mescolano. C'è in questo senso una canzone piuttosto rappresentativa che è "Arco-gravità" che parla di paesaggi alpini ma anche di dighe, un manufatto che mi terrorizza sempre e che è capace di generare paesaggi naturali del tutto artificiali.
Anche la scelta delle parole affonda le mani nei ricordi, nel mito, nella poesia, Moderata fonte è il titolo di un brano ma anche lo pseudonimo di una poetessa del Cinquecento, e perfino nella scienza, perché il video dello stesso pezzo è stato realizzato in un piccolo museo di Scienze Naturali. C’è una tensione nei testi di questo album, e la natura non è quasi mai rassicurante o da paesaggio acquarellato. È semmai la natura raccontata da chi c’è stato in mezzo, sa starci, la rispetta, la teme e sa che è vita e morte.
“Cosa nasconde la notte fonda, cosa sottrae a me quando non guardo?” canta Carlotta in Lineare A introducendo l’elemento del mistero.
Wunderkammer si apre con un attacco di pianoforte che è tra i momenti musicalmente più poetici e descrive un mondo che sembra trasformarsi, lasciando fossili, lasciando resina, lasciando “esemplari” come pezzi di una catalogazione della vita e del mondo.
Tutto l'album – è la chiave di lettura che offre l’autrice - è una riflessione su ciò che resta e sulla volontà di conservare i ricordi o cancellarli. La mia prospettiva, in questo senso, è per natura, e sono cresciuta in campagna, in fondo, piuttosto conservatrice.
Poi ci sono la melodia ariosa di Archeologie, la cantilena oscura di Monumento, il crescendo di Arco-gravità, l’ineluttabilità di Vanitas, che contiene nell’incipit il titolo del disco e che richiama, come già in passato, suoni e ripetizioni à la Yann Tiersen, ma in un’atmosfera più oscura, con la capacità di guardare alla “fine delle cose morendo al niente”, alla degradazione della natura e della vita stessa a oggetto inanimato, a “fiori marcescenti sui tavoli imbanditi”, a “candeline spente nel buio delle chiese”, prima di abbandonarsi, di nuovo, alla forza della natura che torna vitale:
Poi d’improvviso il vento, un verso d’animale
dalla montagna sacra, distesa sul fondale.
La pioggia che disseta la bocca del pluviale,
il fiume che discende e poi risale.
Dice ancora Carlotta:
Il morire al niente è più un timore che un auspicio, e la ricerca di simboli vivi, non appassiti, è un po' un'ancora di salvezza. Ci sono però tante domande nell'album, che mettono costantemente in dubbio questa prospettiva. La copertina, con gli animali impagliati conservati in un museo di scienze naturali, rappresenta questo dubbio.
Riprendo dall’inizio: se c’è un album cantautorale che merita attenzione in questo tempo in bilico tra il 2024 e il 2025 è quello di Carlotta Sillano, pubblicato su etichetta Incipit Records/Egea.