Siccome ha sempre cantato, e canta a meraviglia, potrebbe bastare. E suona l’arpa, la tromba naturale. Potrebbe bastare, invece Patrizia Bovi d’Assisi, per quanto sia completamente musicista, dal più nascosto rifugio dell’animo fino alle onde della chioma bruna, apparirebbe un’artista della vita perfino a chi non l’avesse ascoltata mai. Per la libertà che trasmette, per il sentimento che sdegna il sentimentalismo, per la spontaneità e l’intelligenza con le quali individua il meglio.
Nel 1984 fondò, con Adolfo Broegg (1961-2006), Goffredo Degli Esposti e Gabriele Russo, l’ensemble di musica medievale Micrologus, dal 1990 ha fatto parte del Quartetto Vocale di Giovanna Marini, che ci ha lasciati in maggio. Ha messo a punto un metodo d’insegnamento relativo al canto medievale in rapporto alla musica tradizionale, tenendo seminari in Italia e all’estero.
E molto, moltissimo, ancora. Sentiamo che cosa ci racconta con la sua voce splendida.
Nel 2024 si festeggiano i quarant’anni di Micrologus. E il 2 settembre ci sarà un concerto di anniversario ad Assisi
Il 2 settembre del 1984 abbiamo fatto all’Abbazia di Crea, Torino, il primo concerto con il nome Micrologus. Avevamo iniziato nel 1983 a ragionare sulla possibilità di creare un gruppo di musica medievale che fosse serio nella ricerca, con lo scopo di fare una cosa fatta bene, ma nello stesso tempo con quello spirito tipico dei ragazzi che potrebbero suonare in un fondo, con tante aspettative di voler cambiare il mondo. Noi, forse, volevamo solo cambiare un po’ l’approccio alla musica medievale.
Ascoltare come si eseguiva la musica italiana del Trecento e Quattrocento nel panorama nord-europeo, britannico, ci ha fatto pensare che sembrava tutto meno che musica italiana. Un po’ per la difficoltà di pronunciare bene la lingua, ma anche proprio nel suono. Quel suono che funziona bene per un altro tipo di musica, magari inglese, perché corrisponde al suono della lingua, al suono naturale delle voci, ma non corrisponde invece al DNA vocale italiano, al modo quasi cantante della lingua. Allora siamo andati a cercare ciò che era rimasto nelle tradizioni orali e in alcune regioni dove ancora esistevano delle sacche di arcaicità: discanti o canti monodici, canti di storie antiche oppure laudi, musica delle confraternite. Abbiamo risentito qualcosa che poteva appartenere al passato e provato ad applicarlo.
Da lì siamo partiti, poi sperimentavamo, facendo ricostruire gli strumenti: era un laboratorio di 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Una fase di grazia perché in quel periodo non è che ci fossero tutti questi ensemble di musica medievale che adesso, per fortuna, ci sono. Ci conoscevamo tutti ed erano riconoscibili il suono e il percorso di ogni formazione. Sentivi Guillaume de Machaut con delle caratteristiche e capivi che era un disco di Dominique Vellard e del suo gruppo. Ora è tutto più sfumato. Il suono di Micrologus era riconoscibilissimo.
È rimasto tale?
Sì. Certo, l’avvicendarsi di tanti musicisti e cantanti ha un po’ fatto modificare le cose, ma il concetto di base è sempre restituire una vocalità molto naturale che poi nel tempo abbiamo anche ritrovato nei trattati. Quando insegni devi giustificare quello che fai perché, un conto sono le scelte artistiche che sono giustificate dall’artista stesso, un conto se vuoi trasmettere la tua sapienza a dei giovani ai quali devi dare delle indicazioni oggettive, non puoi dire: fatelo come lo faccio io perché è bello. Sarebbe la negazione dell’insegnamento. Quindi, studiando le fonti, abbiamo capito che quello che all’inizio sembrava intuito aveva delle basi scientifiche, delle solide realtà. Probabilmente se tornassimo indietro ci sono scelte che faremmo ancora e altre che non faremmo più perché abbiamo capito che non erano adeguate, ma allora erano lo specchio del nostro percorso.
L’impressione, ascoltandovi, è quella di un entusiasmo non insidiato dall’abitudine
Mi fa piacere. A volte soffro un po’ quando ci ritroviamo a ripetere cose che abbiamo fatto per tanti anni e dico ai miei colleghi che non dobbiamo mai fare l’imitazione di noi stessi: è terribile. Con questa paura cerchiamo di rivedere, di ripensare! Certo, il modo di suonare, il fraseggio, ci appartiene: non potremmo fare altrimenti.
C’è poi anche la difficoltà di armonizzare le conoscenze musicologiche con la nostra formazione e dipende dai repertori perché noi spaziamo moltissimo: partiamo dal dodicesimo secolo, attraversiamo tutto il Trecento italiano, abbiamo anche fatto qualche incursione in Francia, poi tutto il Quattrocento, sempre con una grande attenzione alla musica italiana e con lo sguardo anche a quello che sembrerebbe meno interessante e dove invece si trovano informazioni importanti. Machaut è un gigante però se tutti quanti eseguissimo solamente Machaut nessuno conoscerebbe ciò che magari lo ha generato o nutrito.
Avere un consort come il nostro, gli inglesi lo definirebbero un broken consort, crea delle difficoltà perché sappiamo benissimo che la musica arsnovistica nasce principalmente come musica vocale per cui dovremmo eseguire tutto a cappella. Però non abbiamo solamente dei bravi cantanti abbiamo anche bravi strumentisti. Quindi andiamo a cercare dei repertori che siano compatibili con questa visione e con questo nostro suono. E ci sono modi diversi di interpretare le fonti.
Il Centro di studi europeo di musica medievale Adolfo Broegg a Spello?
È nato per ricordare Adolfo Broegg, scomparso nel 2006, e compie 15 anni di attività di formazione, di produzione e diffusione. Rispecchia profondamente quello che Adolfo è stato: un grande comunicatore che voleva condividere il sapere. Ci sono un centro di consultazione, una piccola mostra degli strumenti appartenuti a lui, un luogo dove si possono fare concerti, un luogo dove si può registrare perché da quest’anno abbiamo aperto delle edizioni e allestito uno studio mobile che è già stato usato per fare molti dischi, ha una bella acustica. Stiamo organizzando un archivio. È stata fatta una tesi su di noi e sulla figura di Adolfo da una figlia di un suo cugino, Benedetta Broegg, una ragazza che studia musicologia e che ha documentato l’attività del centro e oltre mille concerti di Micrologus.
Che numeri!
In questi ultimi quarant’anni ne abbiamo fatti di più, però lei ha trovato di questi mille concerti la musica eseguita, chi c’era. Un bellissimo lavoro che ci ha dato una spinta in più perché, vedendolo scritto, ti rendi conto di aver fatto un percorso incredibile. Noi non abbiamo mai pensato al passato, abbiamo sempre vissuto nel presente, nella proiezione, adesso guardiamo anche dietro. Avevamo cominciato a farlo un po’ quando Adolfo è mancato perché a quel punto molte delle nostre produzioni si erano storicizzate, dischi dove lui suonava prendevano un valore per la memoria.
Gli antropologi dicono che ogni volta che c’è un grande lutto e sparisce una persona fondamentale all’interno della comunità c’è bisogno di riempire il vuoto. Ecco, il Centro voleva riempire il vuoto e abbiamo mantenuto anche la parte ludica: ad Adolfo piaceva il mangiare, il bere bene, il divertimento, il racconto e la musica. A Spello si tengono corsi internazionali, passano grandi interpreti e musicologi, ma c’è l’aspetto carino dello stare insieme, un aperitivo, un caffè con i pasticcini.
In primavera avete riservato tre giorni a I suoni del liuto
Uno strumento che ha avuto una lunghissima storia, dal Trecento, anzi da prima. Il liuto senza tasti suonato col plettro, dalle origini del liuto arabo arrivato in Europa attraverso la Spagna, l’uso del liuto in Italia nel Trecento, le tecniche nel Quattrocento fino a tutto il Cinquecento e, addirittura, con Evangelina Mascardi fino a Weiss. Tantissimo repertorio che non è abbastanza conosciuto. Volevamo far interessare gli studenti e i musicisti che si occupano di liuto rinascimentale o tardo rinascimentale-barocco a ciò che era accaduto perché, se tu non conosci da dove viene quello strumento molte cose ti restano ignote e non capisci come mai ci siano stati dei passaggi. Siamo talmente pieni di domande e abbiamo pochissime risposte.
Il pubblico?
Sta invecchiando, ma per fortuna c’è anche pubblico giovane. L’anno scorso abbiamo fatto dei concerti diffusi durante l’ascesa al Monte Subasio legata ai cammini (lo rifaremo anche quest’anno): il camminatore scopre la musica che è esattamente dell’epoca dell’abbazia e la trova bellissima, un’esperienza incredibile. Ci fa sperare che ci sarà un futuro però bisogna cercare di veicolarlo perché non tutti vengono volentieri ad ascoltare un concerto se non hanno una motivazione precisa.
Come fare?
Noi abbiamo avuto una fonte di ispirazione incredibile: la collaborazione con due coreografi molto famosi Sidi Larbi Cherkaoui e Damien Jalet. Star assolute: Jalet era a Rio de Janeiro con Madonna, Larbi ha lavorato con Beyoncé per il video al Louvre. Con Larbi dal 2007 abbiamo fatto otto produzioni, girato tutti i teatri del mondo, tournée anche di cento repliche. Nel 2007 facemmo una produzione con Micrologus, Larbi e Jalet che si chiamava Myth. Era uno spettacolo di teatro-danza, alla Pina Bausch, con solo esclusivamente musica medievale e alcuni brani di tradizione orale. Oltre 120 spettacoli, in Europa, in America.
Ogni sera avevamo una media di mille, millecinquecento persone, un pubblico giovanissimo che viveva l’esperienza della danza contemporanea accompagnata da musicisti che stavano in scena e facevano musica medievale. Un’esperienza fantastica, attraverso i generi e le generazioni, perché gli stessi danzatori erano ragazzi, James aveva 19 anni, e nelle playlist del telefonino alternava i cantanti pop a un madrigale di Lorenzo da Firenze. Oltre all’esperienza umana meravigliosa, la diffusione della musica medievale all’interno di un linguaggio per giovani che a loro volta diventeranno artisticamente significativi, ci ha fatto capire molto.
Che la musica antica quasi basta farla ascoltare?
Sì! I dischi li compravano, la colonna sonora dello spettacolo se la sono portata a casa. Anche persone che non avrebbero mai incontrato nella loro vita un brano di musica medievale, lì l’hanno ascoltato, visualizzato. Il disco che abbiamo inciso è di una fluidità e di una vitalità incredibili: dopo aver suonato cento volte quella musica, l’avevamo interiorizzata. E c’erano dei pezzi estremamente complessi, ma cantare Zacara da Teramo, che consideriamo uno degli esponenti dell'ars subtilior italiana, per noi era diventato come cantare Azzurro.
Le persone che hanno segnato la tua vita artistica?
Nino Pirrotta, uno dei più grandi musicologi italiani, riconosciuto a livello mondiale, professore a Harvard, ha fatto le pubblicazioni più importanti sulla musica italiana e ha aperto la strada a una nuova visione della musicologia, è fonte di totale e costante di ispirazione. Lo rileggo e continuo a studiarlo, proseguo sulle sue orme.
Veniva da una formazione classica, suonava il piano, ma è stato quello che ha detto: dobbiamo renderci conto che la musica che noi abbiamo ricevuto nei documenti, dai manoscritti è solo la punta dell’iceberg, tutto quello che sta sotto il pelo dell’acqua è la musica di tradizione, non scritta. Per me è stata una rivelazione. Nell’’85, '86, ’87 a Certaldo noi seguivamo le lezioni con dei pionieri: Pirrotta, Kurt von Fischer che ha trascritto la metà del repertorio, Gallo, Tavani. Io assorbivo qualsiasi cosa senza avere preparazione né capacità critica però solo la loro presenza, il capire quello che ti stavano trasmettendo aveva un grandissimo valore.
Sergio Pezzetti, il mio insegnante di canto, quello vero, quello che ha fatto sì che io potessi saltare da un genere musicale all’altro. Nei madrigali contemporanei di Giovanna Marini bisognava spaziare di due ottave e mezzo, salire, scendere nel profondo, con tutti i possibili colori della voce: larga, popolare, di petto, classica. Se non hai la duttilità vocale, una tecnica molto sviluppata, ti spacchi la voce e non canti più. Con il Quartetto Vocale andavamo mesi in tournée e cantavamo in tutte le condizioni. Malate, con la febbre.
Un ricordo di Giovanna Marini?
Giovanna è difficilissima da sintetizzare. Quello che io ho vissuto con lei è una tessera di un mosaico enorme. È stata influente a livello europeo non solo per quanto riguarda la sua carriera come cantante di musica popolare, ma come ricercatrice e musicista colta. Ha insegnato a generazioni di allievi. Ho imparato da lei come portare in scena la musica. Giovanna ha sempre detto, e io lo penso ogni volta che rappresentiamo qualcosa: “Non puoi trasferire sul palcoscenico un pezzo della tradizione orale esattamente uguale a come viene eseguito durante una processione a Sessa Aurunca. Perché non hai il rito, né l’odore, né il fuoco che accendono agli angoli delle strade”.
Quando arrivi sul palco con un brano nudo, che hai semplicemente imitato, che fai? Giovanna diceva che bisogna reinventare, dare una nuova funzione; quindi, con il Quartetto Vocale esasperavamo le caratteristiche di quella musica: i suoni, la larghezza, l’urlo. Il pianto rituale della donna che piange il morto deve passare al pubblico senza che ci sia il morto. E questo, in maniera diversa, ho cercato di applicarlo nel costruire i progetti con Micrologus creando una drammaturgia che permetta al pubblico di seguire. Anche la cosa più complessa devi restituirla in maniera semplice altrimenti rischi intellettualismi che non servono a niente, giochi un po’ speculativi che sono un esercizio per sembrare superiori.
Se la musica la capisci e la conosci molto bene, se hai studiato il repertorio profondamente lo restituirai in maniera chiara e il pubblico lo capirà. Nelle cantate con Giovanna alternavamo musica difficile, a cose spettacolari, e ai suoi racconti molto divertenti perché lei era una straordinaria cantastorie: gli spettatori uscivano arricchiti, dopo aver veramente compreso.
Firenze, al caffè del Teatro della Pergola, due persone parlavano di te: “La prossima volta che rinasco voglio essere Patrizia Bovi. Bella, brava, intelligente, ricercatrice, simpatica…”.
Che ne dici?
Mi fa molto sorridere, mi sento onorata. Forse non merito tutto questo riconoscimento. Penso solo di aver portato avanti profondamente quello che mi faceva piacere fare. A un certo punto della vita ero talmente all’ascolto di tutto quello che stava arrivando e non mi sono preclusa nulla. Poi gli incontri significativi. Diego Carpitella e Giovanna Marini una sera a cena a casa di un compositore romano, io avevo vent’anni, circa. Era l’81, forse l’82. Far parte del quartetto di Giovanna Marini! Ho sempre avuto la passione per la musica medievale, da quando avevo sette-otto anni, grazie al Calendimaggio, e ho seguito la sete di conoscenza, sapendo che non ci sarebbe stata fine. È bellissimo, sto sempre ricominciando. Adesso stiamo preparando un programma sull’origine degli strambotti. Di nuovo le tante domande, le stesse necessità di andare a vedere. È una strada che puoi fare solo se sei innamorato, sennò potrebbe essere una tortura.
Aspetti faticosi nel retroscena?
Faticosissimi. Dobbiamo essere imprenditori di noi stessi, comunicatori, commercialisti, amministratori, agenti di viaggio. A volte senti che non ce la farai, poi, piano piano, respiri. Il momento più difficile l’ho vissuto quando è morto Adolfo. Proseguire con Micrologus è stato come scalare la montagna più alta del mondo perché dovevano elaborare la morte di un amico e continuare l’attività. Mi chiedo come abbiamo fatto. Oltretutto partecipando a milioni di riunioni per creare il centro a lui dedicato, andando in Regione, chiamando amici della Francia che ci sostenessero. Francis Marechal della Fondazione Royaumont di Parigi, una delle istituzioni più prestigiose in Francia, nostro partner a Spello, ci ha dato una mano grandissima. Ogni tanto mi sveglio la mattina con l’angoscia. Non lo so… se vorrei rinascere Patrizia Bovi.