Campo di Battaglia di Gianni Amelio, “un film sulla guerra senza immagini di guerra”. Una lente d'ingrandimento sulla fine della Prima guerra mondiale (1918), quando l’epidemia influenzale di spagnola, tra il 1918 e il 1921, stermina oltre venti milioni di vittime tra civili e soldati.

Ad aprire la scena del lungometraggio una mano sanguinante che emerge invisibile da una catasta di cadaveri di fanti sul fronte italiano della Prima guerra mondiale, dopo la momentanea disfatta. A perdere la vita tra il 1915-1918 militari e civili, più di 16 milioni di persone. I soldati italiani caduti furono oltre 650mila. In prima linea non scene di guerra o bombardamenti ma solo storie di uomini, di dolore e atrocità. Di soldati feriti e impauriti nelle corsie di un ospedale, che si feriscono volontariamente per essere riformati pur di non combattere, nella speranza di tornare a casa, invalidi ma vivi.

Militari provenienti da qualunque parte d’Italia, la cui identità spesso veniva data soltanto dalla regione di provenienza dal Piemonte, dalla Sicilia, passando per la Romagna, le Marche, la Toscana, la Calabria, la Sardegna e la Lombardia.

Dopo aver vinto il Leone d’oro nel 1998 con Così ridevano, due anni dopo Il Signore delle formiche (2022), Gianni Amelio torna di nuovo in concorso alla 81ª Mostra del Cinema di Venezia, con una pellicola, che esamina un capitolo buio della storia italiana. Campo di battaglia, (liberamente ispirato al libro La Sfida di Carlo Patriarca), ambientato in Friuli-Venezia Giulia alla fine della Prima guerra mondiale, vede protagonisti due ufficiali medici, amici d’infanzia, che lavorano nello stesso ospedale militare, Stefano Zorzi (Alessandro Borghi) e Giulio Farradi (Gabriel Montesi) che però hanno una visione etica diversa della guerra e dei metodi disperati dei soldati.

Stefano, molto patriottico proviene da una famiglia altoborghese (un padre che sogna per lui un avvenire in politica), ha come obiettivo di rimandare al fronte “col fucile in mano” i soldati guariti soprattutto coloro che si sono procurati da soli le ferite considerandoli dei vigliacchi. Giulio, occhiali piccoli, voce e sorriso dolce, più portato per la ricerca che sarebbe voluto diventare biologo, invece, è pieno di umana compassione e tenta di riportare a casa, a qualunque costo, i pazienti che non vogliono più andare in guerra, “dalla mano santa", poiché "strappa i feriti a una guerra ingiusta".

Non si tratta dell’amore per la patria ma di un dilemma etico che supera qualsiasi schieramento o forza in campo. E poi c’è anche l’amica di entrambi dai tempi dell’università Anna (Federica Rosellini) che invece di fare il medico si è dovuta accontentare di diventare infermiera volontaria alla Croce Rossa. In Italia agli inizi del Novecento per una ragazza, laurearsi in medicina era purtroppo difficilissimo senza una famiglia influente alle spalle.

In anteprima al Lido di Venezia e già nelle sale italiane dal 5 settembre, distribuito da 01 Distribution, il film naufraga tra i sentimenti e la forza emotiva dei personaggi coinvolti in guerra, con una profonda riflessione del regista: “Sono più le domande che le risposte. Non si tratta di dire sono contro la guerra, è una ovvietà, lo siamo tutti, qui si va su una sottilissima linea di scelte etiche, di relatività sul giusto e sbagliato”.

Gianni Amelio e Alberto Taraglio creano una sceneggiatura minimalista all'interno di una regia supportata da un’intensa tecnica- espressiva della fotografia di Luan Amelio Ujkaj, che non può non riportare alla memoria, la recente pandemia del Covid. Un dialogo con il passato guardando a un presente sempre più oscuro. Quando vediamo la prima mascherina (nel caso del virus di spagnola), sappiamo che stiamo parlando inevitabilmente anche del COVID sotto mentite spoglie. Dunque, fantasmi di un tempo lontano che diventano attualità.