Nel 1961 lo scrittore inglese Winston Graham diede alla luce il romanzo Marnie da cui Alfred Hitchcock, nel 1964, trasse un ottimo film, anche se tra i suoi più sottovalutati. Marnie è la storia di una ladra che vive in un castello di bugie portandosi addosso il fardello di un trauma infantile di cui lei stessa è inconsapevole. Marnie è una ladra seriale che cambia identità, luogo e lavoro in seguito ad ogni furto. Ha un’avversione per il genere maschile e non ne sostiene il minimo contatto.

Sia il romanzo che il film sono costruiti secondo un unico ed esclusivo punto di vista: quello di Marnie. Tutto il libro è raccontato in prima persona, quasi fosse un diario: ciò, cinematograficamente, è reso attraverso l’utilizzo della soggettiva, sin dalle prime inquadrature. Hitchcock, conformemente alla sua genialità, modifica gli effetti chiave del romanzo riadattandoli e amplificandone la suspense: Marnie è così, allo stesso tempo, film fedele e lontano al romanzo di Graham. La psicologia della protagonista è indagata profondamente anche nella trasposizione filmica, nonostante siano stati eliminati - con un colpo d’accetta - elementi, personaggi e situazioni che nel romanzo erano perfettamente concatenati e congeniali nel caratterizzare questa misteriosa donna.

Il romanzo procede spesso per flash-back a raccontare l’infanzia di Marnie (e l’origine dei furti a 10 anni), diversamente dal film dove il ricordo infantile riemerge solo alla fine. Orfana di padre, così Marnie racconta frammenti della sua infanzia:

Non mi mancava niente, certo, mia madre pensava al cibo, ai vestiti e al resto, ma si privava di troppe cose per me e io non riuscivo a sopportarlo […]. Quando papà era morto in guerra, nel 1943, io avevo sei anni e la mamma aspettava il secondo bambino. In poche settimane aveva subito la perdita del marito e quella della sua casa di Keyham, a Plymouth, distrutta dalle bombe […] e, quando le erano venute le doglie, il medico era occupato con pazienti più ricchi e la mamma fu costretta a partorire soltanto con l’aiuto della levatrice. Qualcosa andò male, il bambino morì e da allora lei cominciò a zoppicare1.

Marnie cresce sola con la madre secondo un’educazione rigida e bigotta, vittoriana, che lei non mette mai in discussione. Ella è una ladra seriale, ma anche una bugiarda seriale. Deve ricorrere alla menzogna per reinventarsi ogni volta una nuova vita dopo furti ad importanti ditte, ma è anche un modo, inconscio, per salvare sé stessa.

L’inconscio, e la psicoanalisi, sono il perno su cui ruotano romanzo e film. In Hitchcock l’inconscio, il trauma infantile, la mente “pericolosa” sono al centro di molte sue opere (sempre tratte dalla narrativa): Io ti salverò, Psycho, La donna che visse due volte, solo per citarne alcune. La grandezza e l’unicità di questo regista, il cosiddetto Maestro del brivido, sta anche nel conciliare molteplici ed antitetici aspetti: il giallo e la suspense, l’humour e le storie d’amore.

Andrò controcorrente, ma i film di Hitchcock sono anche delle grandissime e bellissime storie d’amore. Come lo è quella tra il bel Mark che si innamora a prima vista della frigida Marnie. Mark la sposerà, cerca di giustificarla e di aiutarla in tutto, anche nelle ripercussioni dei suoi furti. Ma se nel romanzo ricorre allo psichiatra Roman per risolvere problemi sconosciuti che intuisce, nel film è Mark stesso che fa anche da psichiatra e psicoanalista. Marnie non riesce a sostenerne la vicinanza fisica, la ripugna, la fa sentire in gabbia. L’unica cosa che la libera è cavalcare il suo amato Forio, solo allora sta bene. Ama i cavalli e le corse.

Nonostante il matrimonio con Mark, il vizio del furto non la abbandona, anche perché vuole andare via da tutto e per scappare ha bisogno di denaro. Nel romanzo, parallelamente alla corsa a cavallo frenetica e disperata, che è fuga da Mark e nel film accentuata da una musica incalzante, Marnie lo dice chiaramente: “Era come se mi stesse inseguendo insieme a tutte le cose che rappresentava”2.

La folle corsa a cavallo di Marnie durante la battuta di caccia alla volpe finisce in modo tragico sia nel romanzo che nel film: Forio muore e nella trasposizione cinematografica sarà la stessa Marnie a sparargli per evitargli inutili sofferenze. Nel romanzo Forio muore ugualmente e Mark - in questa scena assente nel film - rischia la vita e sarà salvato proprio da Marnie che, durante la sua convalescenza, comincerà a nutrire dei sentimenti di affetto e gratitudine nei suoi confronti.

La paura dei temporali, gli incubi notturni sono sempre una costante per lei e, nel film, si accompagnano alla fobia per il colore rosso. È nella parte finale che si staglia la grandissima differenza tra romanzo e film. Lo scrittore Graham ci riporta una Marnie alla casa materna dove, per puro caso, scopre che la sua amata madre è morta. La donna non si separava mai da una borsetta di finto coccodrillo che, in realtà, si rivelerà lo scrigno di terribili segreti.

Qui Marnie troverà dei vecchi ritagli di giornale in cui si dice che la madre commise un infanticidio. A questo punto, com’è facile intuire, Marnie è stravolta e in preda al panico. Una vicina, a conoscenza di ogni particolare, suo malgrado le racconta tutto. Durante gli anni della guerra, il padre era via. La madre riceveva in casa dei soldati, prostituendosi. Il padre, arrivato all’improvviso e scoperta la cosa, chiese il divorzio. Marnie non era orfana come aveva sempre creduto e crebbe in simbiosi con la madre.

La donna rimase incinta di un soldato e, una volta dato alla luce il bambino, in completo stato confusionale, lo avvolse nella carta da giornale, lo mise sotto a un letto dopo averlo strangolato. Riuscì a non essere condannata grazie a una diagnosi di “psicosi puerperale”. L’infanticidio rappresentava la negazione della doppia vita che conduceva. Da allora, la madre quasi per un senso di autopurificazione, già sostenuta da una severissima morale paterna, impartì alla figlia un’educazione eccessivamente e rovinosamente repressiva.

Prostituzione della madre e frigidità della figlia sono la lente con cui leggere il romanzo. E il trauma di Marnie, non solo infantile, è legato unicamente alla tragedia di quella notte. Aver saputo le ha consentito di far emergere il ricordo infantile, di riconoscere il suo amore per Mark e di possedere la forza per affrontare la vita, senza più menzogne e fughe.

Nel film, invece, complice il temporale che Marnie da sempre teme e grazie all’amorevole aiuto di Mark-psicoanalista, regredendo allo stadio infantile anche nella voce, recupera la memoria e si libera dal trauma. Non è più la bambina che celava dentro di sé.

Ricorda un marinaio nella stanza con la madre, la donna che la toglie dal letto e lei che sente un freddo intenso (situazione ricorrente anche a livello di cosciente e subcosciente). Piange, piange forte e il marinaio si avvicina a lei e la bacia in modo molto ambiguo, a lei, bimba di 5 anni. La madre interviene, ha una colluttazione con l’uomo che le procurerà una zoppia permanente. La bambina è nel panico, grida, prende l’attizzatoio e uccide l’uomo. Il sangue, il rosso, invade la divisa del marinaio diventando la sua eterna fobia. La madre si autoaccuserà del delitto adducendo la legittima difesa.

Un’infanticida nel romanzo e una donna che si rende colpevole per salvare la figlia: siamo agli antipodi. Forse era troppo forte anche per Hitchcock mettere in scena un simile crimine? Tra i due abomini, l’infanticidio e la pedofilia (a cui ad entrambi la cronaca ci sta “abituando” da decenni) ha scelto quest’ultima perché forse più allusiva e “mascherabile” cinematograficamente.

Figure centrali quella della madre e dell’amore incondizionato della figlia, sia nel romanzo che nel film, anche dopo la scoperta dell’orrore (in Graham). Non ci sono condanne da parte di Marnie, solo autocondanne, sia nella Marnie inglese del romanzo che in quella americana cinematografica. E, a pensarci, se Hitchcock si fosse reso completamente fedele al romanzo, sarebbe stato molto più atroce e inquietante di Psycho.

La storia d’amore (quasi) impossibile tra Mark e Marnie è resa benissimo e credibile dai due protagonisti: Sean Connery e Tippi Hedren, altra Musa di Hitchcock e sua maltrattata ossessione, tanto da tormentarle la vita e stroncarne quasi la carriera. Tippi Hedren, col suo viso dolce e intenso, ha espresso al meglio le feroci fragilità, i tormenti silenziosi e gli abissi di una donna solo bisognosa d’affetto.

Note

1 Winston Graham, Marnie, il Saggiatore, 2014, pp. 26-27.
2 Op. cit., p. 160.