Hayao Miyazaki è indubbiamente uno dei volti più conosciuti del cinema d’animazione, forte di una filmografia eccezionale che è stata in grado di raccogliere consensi ad ogni latitudine. Una carriera capace di spiccare il volo praticamente da subito grazie all’ottimo responso della critica per Lupin III - Il castello di Cagliostro (1979), considerato tutt’ora una delle migliori trasposizioni del manga, e per Nausicaä della Valle del vento (1984), con il quale cominciano ad arrivare anche importanti risultati al botteghino.
Fino a giungere al tanto agognato Oscar con La città incantata (2001), primo film d’animazione giapponese a vincere l’ambito premio e grande volano per tutto il cinema orientale in un’epoca in cui Hollywood non aveva ancora deciso di aprirsi del tutto verso nuove culture. Negli anni a venire, a conferma dello status acquisito, il genio di Miyazaki incrocia nuovamente il plauso dell’Academy grazie al nuovo e recentissimo riconoscimento per Il ragazzo e l’airone (2023), all’Oscar onorario conferitogli nel 2015 e alle due candidature per Il castello errante di Howl (2004) e Si alza il vento (2013).
Non è difficile intuire perché Kaku Arakawa abbia deciso di realizzare un documentario su un volto così importante per l’animazione nipponica. Miyazaki - 10 anni di magia, questo il titolo del prodotto finale, è il frutto di un lungo periodo vissuto fianco a fianco con il cineasta giapponese, con uno sguardo costante ed indagatore che, in alcuni casi, ha saputo cogliere anche le debolezze, i dubbi e le incertezze di un artista incredibile.
I primi secondi del documentario, accompagnati da una voce fuori campo, indicano l’inizio del lungo periodo coperto per la realizzazione: aprile 2006, in piena fase di creazione e produzione per Ponyo sulla scogliera (2008).
Miyazaki mostra fin da subito una caratteristica peculiare del proprio stile, ovvero la costruzione della storia e della sceneggiatura quale tappa successiva alla creazione dei personaggi, e non viceversa; il tutto, ovviamente, viene amplificato dalla presenza di numerose raffigurazioni dell’opera in lavorazione sulle pareti del proprio studio, fattore che imprime un’atmosfera divertente e gioiosa fin dai primi passi del lungometraggio animato.
È come se l’atto ultimo della visione, ovvero la generazione di una serie di sentimenti, fosse in realtà la motrice di tutto il lavoro, mosso costantemente alla ricerca di quell’emozione che Miyazaki va esplorando in quel momento. La scelta del documentario di mostrare i disegni preparatori de La città incantata, in tale ottica, illustra proprio questo peculiare aspetto del regista, che già nella fase preliminare dell’opera risulta in grado di insinuare nei personaggi e nell’ambientazione la sensibilità di cui poi si nutrirà il prodotto finale.
Un percorso interessante e che trova presto riscontro nelle parole del regista, immerso nell’ideazione della scena iniziale di Ponyo sulla scogliera:
In realtà, non sono interessato ad un’apertura del film così convenzionale
Spesso i film sono noiosi perché la creatività viene sacrificata
A me piace rompere gli schemi, è quello che fanno i bambini
Loro non seguono la logica
E proprio tale enorme creatività, spinta agli estremi dalla ricerca di una non-logica, di un passo indietro rispetto alla convenzionalità, diventa, in alcuni casi, uno strumento incredibilmente efficace per individuare significati e svelarne i segreti più profondi. Ma il prezzo da pagare a volte è molto salato, con la grande eccitazione per una certa visione dell’opera che deve scontrarsi poi con la sua raffigurazione, non sempre in grado di trasporre su carta la grande rivelazione che ha investito l’anima dell’artista.
Come se sussistesse un cortocircuito tra image e picture, ovvero tra l’idea e la sua traduzione visiva concreta e tangibile: senza i giusti strumenti, ed in assenza della lettura più idonea, l’idea non può esprimersi e rischia di rimanere confinata in un’area della mente molto prossima al subconscio. E per evitare una tale perdita, Miyazaki sceglie di ricorrere alla semplificazione a scapito dell’immaginazione, preservando però l’essenza vera e propria della scena - quasi ricalcando le sue stesse parole:
Dobbiamo essere realisti senza perdere gli ideali
Di realisti senza ideali ce n’è fin troppi
I realisti senza ideali sono il peggio del peggio; non voglio che il nostro team sia così
Dal terzo film in poi, ovvero Laputa - Castello nel cielo (1986), la costante evoluzione ed affermazione di Hayao Miyazaki si lega, inoltre, all’impegno dello Studio Ghibli, cofondato dal regista nel 1985. Un percorso che passa anche dall’uso dell’animazione digitale, fruita dallo Studio a partire da Pom Poko (Isao Takahata, 1994) ed utilizzata da Miyazaki per la prima volta, in piccole dosi, all’interno di Princess Mononoke (1997).
Tale parentesi sullo Studio e sull’uso del digitale è fondamentale per fornire il giusto contesto a Ponyo sulla scogliera, che dopo La città incantata ed Il castello errante di Howl vede un deciso ritorno al passato: nella pellicola del 2008, infatti, la scelta che emerge, per volontà di Miyazaki, è quella di affidarsi ad un’animazione classica, impiegando 350 persone per tratteggiare a matita ognuno dei circa 170.000 disegni necessari per realizzare il film.
Il documentario di Kaku Arakawa, per questo ed altri motivi, giunge dunque in una fase estremamente interessante della carriera del regista, in netta controtendenza con una modalità produttiva ormai ampiamente acquisita dallo Studio. Ed è incredibile notare la maniacalità instancabile con cui Miyazaki controlla praticamente ogni singola pagina e l’animazione derivata, cercando di scavare a fondo in ogni dettaglio ‒ come pieghe dei vestiti, tensione degli arti, elementi prossemici ‒ per estrarne vitalità e forza. Ma non c’è solo questo in Miyazaki - 10 anni di magia. C’è pure la centralità del rapporto materno, condizionato dalla lunga malattia della madre e dalla dipartita giunta durante la lavorazione di Nausicaä della Valle del vento, fattore che spinto Hayao Miyazaki ad imprimere una carica emotiva unica alla pellicola, ricolma della determinazione di chi non vuole arrendersi al destino.
Negli anni a seguire, inoltre, il regista giapponese rende sempre più marcata la presenza della madre inserendo personaggi che, per fattezze, condizioni psicofisiche o anche solo per attitudine, risultino capaci di rievocarne lo spirito. Come ne Il mio vicino Totoro (1988), dove viene proprio rappresentata una madre malata; o come ne Il castello errante di Howl, dove invece è il carattere di Sophie a rappresentare il punto di contatto col ricordo materno. E tanti altri.
Un altro aspetto esplorato con grande delicatezza è quello del rapporto con il figlio Gorō, laureato in architettura paesaggistica ma, a partire da I racconti di Terramare (2006), impegnato anche nella regia con buoni risultati. L’idea di calcare le orme paterne non è mai stata una prerogativa del giovane rampollo, che però è stato convinto da Toshio Suzuki, storico produttore del padre nonché di tutto lo Studio Ghibli, a cimentarsi in questa nuova sfida.
Ed è proprio durante e dopo la visione dell’opera prima di Gorō che emergono tutta una serie di istanze, anche dolorose, legate al rapporto con il padre, praticamente mai presente nella vita del figlio e totalmente dedito alla propria arte, com’egli stesso confessa:
Ero sempre impegnato con il lavoro
Non ho trascorso molto tempo con lui
Non che stessi scappando, però il risultato era lo stesso
Ho davvero molto di cui scusarmi con quel bambino ormai cresciuto
Un’arte che ha finito per diventare un inaspettato terreno di dialogo nel momento in cui anche Gorō ha deciso di sposare la carriera da regista e di comunicare, attraverso un sentito richiamo alle opere del padre nel proprio stile, come la visione di quei capolavori d’animazione abbia, di fatto, costituito un surrogato della presenza paterna.
L’ultima parte del documentario è, infine, dedicata alla realizzazione di Si alza il vento, film semi-biografico incentrato sulla figura di Jirō Horikoshi, inventore dei caccia giapponesi noti come “Zero”, e tratto dal manga omonimo realizzato da Hayao Miyazaki stesso dopo la distribuzione di Ponyo sulla scogliera. Un capitolo complesso, che mostra l’insorgere di varie difficoltà per il regista: da un lato, l’età che avanza; dall’altro, la complessità nel ritrarre un film di carattere storico, fattore che porta in dote un diverso tipo di approccio con l’opera, sostanzialmente inedito.
Nonostante l’impresa tutt’altro che semplice, emergono comunque degli elementi capaci di mostrare la grandezza del Maestro giapponese. Come l’attenzione e la cura dedicata alle raffigurazioni dei volti nelle scene di massa, un aspetto spesso tralasciato nell’animazione e che, in questo caso, conferisce all’opera una vitalità ed una profondità incredibile a fronte degli eventi rappresentati, anche se talvolta tragici - come, ad esempio, il grande terremoto del Kantō del 1923.
O, ancora, il modo con cui viene scelto di rappresentare ogni più piccolo dettaglio a fronte della proposta originaria, passando al vaglio praticamente ogni raffigurazione prodotta dal numerosissimo staff nel tentativo di alzare l’asticella qualitativa e rendere l’opera immortale. Senza dimenticare la grande potenza delle scene che coinvolgono Jirō e Nahoko in quello che risulta essere, di fatto, il primo vero capitolo romantico nella carriera del regista.
In conclusione, Miyazaki - 10 anni di magia è un documentario di enorme importanza, perché consente di unire lo stile di un making of tradizionale con tutta una serie di piccoli episodi fondamentali per carpire il pensiero di Hayao Miyazaki, potendo comprendere come, a fronte di un talento innegabile, siano comunque ben presenti un rigore, una disciplina ed una cieca dedizione al proprio lavoro come poche altre volte nella storia dell’arte è stato possibile ravvisare.