Nessuno attende più, nemmeno Giuseppe Spota. Però lui vorrebbe attendere e, per imparare, consulta Penelope. Quella della tela rimane un’insuperabile trovata. Mentre inganna i pretendenti, la regina di Itaca scandisce anche il tempo interiore, fedele a sé stessa: è chiaro che, Ulisse o no, si rifiuta di cedere alla masnada di porci (non avremmo sempre voluto chiamarli così?).
“Danzatore dalle sorprendenti capacità fisiche, con talento ha saputo coniugare corpo e spirito in una sintesi di assoluta poetica” la critica scrisse su Spota.
Nato a Bari nel 1983, studia nella sua città, passa alla Scuola del Balletto di Toscana e dal 2002 fa parte dell’organico del Balletto di Roma esibendosi nel Giulietta e Romeo di Fabrizio Monteverde. Nel 2004 entra all’Aterballetto. Nel 2011 riceve il German Theatre Prize The Faust come migliore danzatore dell’anno per la sua interpretazione di Blaubart di Stephan Thoss.
Dopo esperienze e successi, nel 2013 smette di ballare e si dedica alla coreografia. Oggi è direttore artistico della MiR Dance Company Gelsenkirchen, in Germania. Lo incontriamo in giugno a Firenze, dove partecipa alla quinta edizione del festival Nutida | Nuovə danzatrici/ori (direzione artistica Cristina Bozzolini e Saverio Cona), Giardino del Castello dell’Acciaiolo di Scandicci, con due produzioni: Penelope, coreografia Giuseppe Spota, interprete Sofia Bonetti, e In This Mesh, coreografia Alessio Monforte, in collaborazione con Chiara Rontini, interpreti Camilla Bizzi e Chiara Rontini.
È a spasso nei dintorni di Ponte Vecchio con alcuni ballerini della sua compagnia, che chiama, in modo delizioso, “i miei ragazzi”. Ama dare loro delle possibilità. Alessio Monforte, uno dei suoi ragazzi, sogna di diventare coreografo e dice due parole sul duetto In This Mesh, creato a gennaio: “È partito tutto dalle domande che per anni ci siam fatti su quanto in questa società sia più facile lasciar andare che tenere. Da qui abbiamo iniziato a ricercare tante situazioni anche fisiche dove c’è la lotta nel trovare una via d’uscita quando si è incastrati in una situazione”.
Giuseppe Spota, da dove cominciare?
Da Penelope.
Faccio un piccolo preambolo. L’arte, la cultura, la danza: sta anche a noi renderle ancora affascinanti, cercare il modo di farle abbracciare a tutti affinché non siano solo per un pubblico limitato di specialisti e intellettuali. La nostra paura, ne parlo molto con i miei ragazzi, è che che il teatro possa morire. Quello che a me interessa oggi è scegliere un argomento significativo e portarlo in scena, a tutto tondo, accattivante: costumi, musica, luce, scelta coreografica. Penelope si aggrappa alla serata che abbiamo fatto con Odysseus: dura solo dieci minuti; quindi, non è stato possibile fare il set, però ho voluto puntare su una figura molto seducente e d’ispirazione perché oggi nessuno attende più. Io sono il primo che non ha pazienza.
E vorrebbe averla?
Sì, adesso siamo troppo veloci, sbrigativi. L’aspettare una persona che ami, aspettare la possibilità che ci possa essere un salvatore. Non so se ricorda, ma nella coreografia di Penelope c’è un marciare che è un po’ il battere il tempo. Tac tac, dicevo sempre a Sofia. Anche se c’è la musica che ha quasi una ventata di freschezza, ho voluto segnare il tempo della persona che aspetta.
Dovendo dare un principio e una fine che, purtroppo, negli spettacoli ci devono sempre essere, ho preferito una chiusura dove la ventata le procura un po’ un sollievo, di libertà dal non fermarsi mai del telaio: faceva e disfaceva, faceva e disfaceva.
A livello coreografico per me è importante che non siano solo passi, ma passi integrati con l’idea, con un’intenzione dietro. Che non diventi troppo cerebrale, per carità, ma il linguaggio che usiamo è quello che poi rimarrà e se lo lasciamo un po’ superficiale non ne vale la pena. Il pubblico può leggere quello che vuole, come nei dipinti, nelle statue, nel design, negli abiti, ma da artista metto sul tavolo quello che io credo, quello che ho nella mia cultura e la mia curiosità.
Secondo lei sarà recuperata la capacità di aspettare?
Non so, ma è un argomento interessante e vorrei “calpestarlo” un po’ di più: sicuramente ne nascerà qualcosa.
Colpisce come dice “i miei ragazzi”.
Sì, assolutamente. Senza di loro, io non sono niente. Puoi avere tante idee, ma da solo sei un artista privo di materia prima.
Siamo una compagnia di quattordici elementi, con un teatro stabile, sovvenzionato dallo Stato, dove si fanno musica dal vivo, opere, danza e marionette. Io dirigo il settore danza, ma possiamo collaborare con l’orchestra, i musicisti e anche con le marionette che non vuol dire solo Pinocchio. Ho allestito un Orfeo dove la mia Euridice era una marionetta per dare, suggerire, una figura, quasi surreale, che è andata via. Nel periodo Covid, ancora con le mascherine. Non ce lo vogliamo ricordare. Noi in teatro abbiamo sofferto tanto, con cinque metri di distanza tra un danzatore e l’altro. Sono al quinto anno di direzione e appena ho iniziato è arrivato il Covid. L’abbiamo passato tutti, soltanto che per un direttore giovane, alla prima esperienza…
Feci anche un piccolo assolo, perché eravamo diventati quasi una macchina del tipo” troviamo una soluzione”, e un’altra, e un’altra. Sfornavamo soluzioni. Stancante, non c’era un obiettivo. L’arte è un’esigenza, non un obbligo, fortunatamente il mio sovrintendente si rifiutò anche lui di registrare continui video e ho fatto un unico progetto su YouTube.
Siccome i ballerini erano tutti separati, a casa, li ho vivisezionati: te mi fai la testa, tu il braccio. Poi la mia video designer ha composto il corpo. Interessantissimo.
Fa ancora il danzatore?
No. I ragazzi me lo chiedono, ma non ballerei mai con la mia compagnia, sarebbe una mancanza di stile. Potrei farlo per un progetto al di fuori, più nelle mie corde, magari in uno spettacolo con musica dal vivo, con un attore. Qualcosa che avesse una nota diversa.
Il passaggio alla coreografia è stato naturale?
Sì, è sempre stata una mia esigenza. Già quando ero al Balletto di Toscana feci la coreografia di un duetto. Avevo 17 anni e mezzo e abbiamo debuttato in una discoteca. Pensi a quanto eravamo anche innovativi! Come danzatore davo tanto, mi piaceva aiutare sul movimento: compiuti trent’anni ho smesso di ballare completamente e deciso di fare solo il coreografo.
Ci sono invece ballerini ai quali non viene neanche in mente.
Certo, ne ho conosciuti tanti. Però sono appena stato a un concorso molto interessante a Rotterdam, solo di duetti, e ho conosciuto tanti giovani di 24 anni che sognano di voler diventare coreografi. Ben venga, ma consiglio di continuare a scoprire. Perché io, a tutt’oggi, faccio fatica a usare per me la parola “coreografo”. È un parolone. Jirí Kylián, Ohad Naharin, William Forsythe sono coreografi. Non che mi voglia sminuire, ma c’è una ricerca in atto ed è presto per etichettarmi. Vediamo quello che viene, magari un giorno mi definirò coreografo, ma adesso sono un direttore artistico che fa coreografie. Di certo mi reputo un artista, questo sì.
La situazione della danza in Italia?
Apriamo un grande capitolo. C’è stato un po’ un allontanamento da parte di tutti: problemi economici, pandemia, inoltre le persone hanno paura di rischiare di andare a vedere uno spettacolo ignoto e scelgono sempre Romeo e Giulietta. Questo per riallacciarmi al fatto che anche in Germania dobbiamo usare delle chiavi, l’anno prossimo faremo Carmina Burana e Le quattro stagioni. Non sono molto propenso perché immagino che si possano creare delle cose nuove: quante volte questo povero Vivaldi lo dobbiamo levigare? Ma la gente ha paura e va a vedere quello che sa già. Carmina Burana lo faremo a ottobre, in pompa magna: musica dal vivo, coro.
Viene? Da Dusseldorf, il trenino impiega 25 minuti…
Mi piacerebbe avere un colloquio con tutti miei colleghi per capire dove dobbiamo andare, che cosa dobbiamo fare. Dobbiamo capire a livello culturale, con le accademie: che fare? Anche gli stessi musei potrebbero finire nel dimenticatoio.
Il teatro nasce dal popolo e mi ha detto un grande maestro: devi ricordarti che hai un pubblico, non fai arte per il tuo piccolo locale, il tuo privato. Io poi lo faccio molto all’aperto, esposto. A me piace portarlo anche a coloro che non hanno le possibilità economiche, sennò la società diventa solo per i ricchi.
Quello che apprezzo molto all’estero è la possibilità che viene data a tutti gli studenti di poter studiare e lavorare fuori. In Italia no, ed è assurdo. Ho collaborazioni con scuole svedesi che mi mandano in Erasmus i ragazzi che vengono pagati. Avendo una compagnia di quattordici elementi non posso prendere tutti dall’Italia, per l’internazionalità, ma ci sono tanti talenti italiani che vorrebbero venire e quando organizzo le cose per loro non hanno sovvenzioni, quindi devono pagarsi il viaggio, l’alloggio, il soggiorno.
Il festival Nutida?
È la prima volta che partecipo. Ne ho sentito parlare, sono curioso, vedo che sta andando molto bene. Ho portato tre dei miei danzatori italiani per essere anche un po’ fieri. Mi piace lo scenario nel giardino perché sono un po’ diventato allergico al teatro confezionato in maniera perfetta: è bello vedere anche l’altro lato. A Rotterdam c’è il travolgente museo Depot. Mentre la galleria veniva ristrutturata, hanno messo le opere in un deposito, fatto di vetro e scale, e il visitatore ha la possibilità di vedere l’opera a 360 gradi.
Ho speso il mio tempo guardando dietro i quadri: i francobolli, le scritte. Un fascino meraviglioso. Il dietro del teatro è e quello che può di nuovo farci venire voglia. Anche a Tokyo, dove sono stato recentemente per una coreografia, ho visitato due musei interattivi dove la gente camminava sugli specchi. È stato bellissimo che c'è voglia di questo oggi.
Torniamo a Penelope: non siamo più abituati a restare. Anche quando siamo a casa a vedere un film, lo spezziamo, guardando una mail, un whatsapp e questo è pericolosissimo perché non ci gustiamo più niente. Lo dico a me stesso.
Ormai siamo diventati pubblicatori. Io pubblico, non voglio fare l’ipocrita. Anche ai ragazzi ho dovuto dare una shakerata, il nostro non può essere un lavoro che fai senza curiosità, senza voglia di crescere, di scoprire e se non hai voglia di integrarti con altre culture, torna a casa. Da direttore artistico dirigo e faccio la stagione, ma il resto deve venire da te, come in una conversazione. Non può essere un monologo.