Il nome di Giuseppe di Rovasenda è noto a pochi ma trattasi di uno dei più noti ampelografi che la storia ci abbia consegnato. Merita, credo, chiarire che cosa sia l’ampelografia: trattasi della disciplina nata per descrivere i vitigni dal punto di vista della loro morfologia e classificare elementi come il colore dei germogli, la frastagliatura delle foglie o la grandezza dei grappoli. Tutto questo, vitigno per vitigno con perizia e meticolosità certosina, fece il Rovasenda compilando schedini e appunti che daranno vita al suo "Saggio di una ampelografia universale" nel 1877.

La famiglia da cui discende è di antica nobiltà e la signoria dei di Rovasenda ha inizio nel 965, quando il vescovo di Vercelli Ingone concede in feudo ad Aimone, conte di Vercelli, il territorio coperto per la maggior parte dalla silva Rovaxinda. Da allora inizierà a svilupparsi nei secoli successivi la costruzione dell’imponente castello che ancora oggi domina il comune omonimo ma che non deve essere confuso con il ‘castello nuovo’, realizzato a poca distanza da quello vecchio nei primi anni del ‘900 dal conte Luigi di Rovasenda. Non avendo quest’ultimo potuto ereditare l’imponente edificio originale, decise di costruirsene uno in autonomia chiamando il più noto architetto del tempo specializzato in falsi medioevali: Carlo Nigra, autore tra l’altro del Villaggio Medievale di Torino. Fu così che per uno scherzo del destino il comune di Rovasenda possiede ancora oggi sul suo territorio due castelli quasi identici appartenenti alla stessa famiglia.

Ma torniamo al nostro Giuseppe che da questa casata discende: nacque a Verzuolo in provincia di Cuneo nel 1824 e morì a Torino nel 1913 e fu sposato con la marchesa Alessina Quadro di Ceresole dai cui ebbe quattro figli. Giuseppe aveva studiato presso i Padri Gesuiti nel Collegio del Carmine, si laureerà in legge per poi esercitare importanti incarichi diplomatici prima come segretario della Legazione del Regno Sardo a Costantinopoli e a Vienna e successivamente come segretario di prima classe al Ministero degli Esteri del neonato Regno d’Italia a Firenze.

Le testimonianze tramandatemi direttamente dai discendenti lo descrivono come un uomo semplice, umile, riservato e di profonda fede religiosa; abbandonerà i suoi incarichi diplomatici forse (forse) dopo screzi avuti con Cavour e inizierà a dedicarsi a tempo pieno alla viticoltura prima a Sciolze nel torinese e poi a Villanovetta di Verzuolo sui terreni della collina denominata Bicocca. Qui impiantò, aiutato dal suo fido collaboratore Luigi Piemonte, una raccolta formidabile di vitigni che si fece spedire o che recuperò direttamente dalle località più disparate e che divenne l’invidia dei grandi ampelografi del tempo. Con perizia e metodo catalogò 3340 varietà di viti. Tutto questo immenso lavoro confluirà nel già citato "Saggio di una ampelografia universale" tradotto poi anche in francese. Così scrive il Rovasenda nelle note introduttive al suo catalogo:

Da molti anni essendomi occupato di enologia e soprattutto di vitigni, ho avuto campo di esperimentare quanta confusione regni nella nomenclatura ampelografica. Varie, a mio modo di vedere, sono le cagioni di questa confusione; e, per addurre qualche esempio, vediamo che la Balsamina di Lombardia e dell’Italia centrale è chiamata ora Balsimina, Balsimira, ora Berzamina, Berzemina ed anche Marzemina, ed in molte altre guise ancora. Mi è sembrato che un utile rimedio a questo stato di cose, od almeno un avviamento per rimediarvi, sarebbe un Catalogo generale delle uve, in cui risultassero per quanto si può le sinonimie, cioè i nomi di doppio impiego, i nomi erronei ed i nomi sicuri e principali da adottarsi a preferenza di altri meno generalizzati.

La fotografia che ci offre il Rovasenda dei vitigni del suo tempo è tanto più importante se si pensa che quelli in cui vive e scrive sono gli anni della fillossera, il terribile insetto di origine americana che provocò danni irreparabili ai vitigni europei sia alle radici, con la formazione di galle nodose, sia a livello fogliare. L’arrivo di questo afide mise completamente in ginocchio le coltivazioni di viti che lentamente morirono e dovettero essere espiantate con conseguenze gravissime per l’economia di molte regioni. Scriveva a proposito il Rovasenda:

Sgraziatamente è molto a temersi che la filossera sconvolga pienamente l’ordine attuale delle cose, e possa col tempo dispensarci dallo studio di tante varietà che popolano l'Europa. Anche però in questa previsione io spero non avrà a pentirsi dei lunghi lavori e delle molte esperienze fatte chi si sarà occupato di questi studi, perché almeno, se viene il naufragio, si sarà arrivati a conoscere quali siano gli oggetti più preziosi che si dovrà cercare di salvare nella fiera burrasca che ci minaccia. E giacché, a quanto pare, la principale tavola di salvamento, che per ora si conosca, sono parecchi vitigni americani dichiarati più o meno resistenti dal concorde consenso dei viticoltori, dovrà esser cura di ognun d’essi il moltiplicare quei pochissimi di cui possa essere in possesso e di innestarvi sopra a dimora le sole varietà più pregiate fra i vitigni europei che finora hanno fatto miglior prova.

La soluzione, come già accennato in queste righe, arriverà quando si comprenderà l’immunità sviluppata da alcune specie americane, che poteva essere utilizzata come base per costruire una pianta con piede americano ma apparato vegetativo e riproduttivo europeo. Da allora con lentezza i viticoltori cominciarono a riprendersi e nacquero le nuove produzioni.

Precursore, innovatore e grandissimo appassionato dunque, che divulgò le sue intuizioni non solo nella sua Ampelografia ma collaborando assiduamente anche con il Bollettino Ampelografico edito dal Ministero dell’Agricoltura e con gli Annali della Regia Accademia di Agricoltura di Torino, di cui fu socio onorario per tutta la vita e che poté vedere, tra gli ultimi, le viti ‘originali’ prima della loro rinascita post fillosserica.

In tarda età affidò la sua preziosa raccolta di vitigni alla Scuola di Viticoltura e di Enologia di Alba e venne insignito del Cavalierato del lavoro. Suo figlio Amedeo, dopo la morte del genitore, con la stessa meticolosità del padre controllò e trascrisse quattromila schede che insieme a dodici quaderni manoscritti donò all’Istituto di coltivazioni arboree della Facoltà di Agraria dell’Università di Torino.

Quest’anno, in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe di Rovasenda, l’Associazione Librarsi e il Centro di Formazione Artistico Musicale di Verzuolo (CFAM) in collaborazione con il Comune di Verzuolo, il Comune di Saluzzo, la Fondazione Scuola Alto Perfezionamento Musicale (APM) di Saluzzo, la Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo e la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo e il supporto organizzativo e didattico dell’Associazione Italiana Sommelier (AIS), hanno realizzato un docufilm dal titolo “L’uomo dei vitigni: sguardi su Giuseppe di Rovasenda” che ripercorre alcuni tratti della vita del celebre ampelografo.

La sceneggiatura è stata affidata a Corrado Vallerotti, autore per il teatro e per il cinema mentre la regia è a cura di Costantino Sarnelli, già autore di numerose pellicole. Le musiche originali, da me composte per l’occasione sulla base delle indicazioni della sceneggiatura, sono state eseguite dai musicisti di Obiettivo Orchestra che si stanno formando presso la Fondazione Scuola APM di Saluzzo.

Il video che segue ripercorre le tappe principali della realizzazione del film e le immagini sono sottolineate dalla canzone Luigi Piemonte nel cui testo ho raccontato le fatiche, i dubbi e l’incredibile lavoro dell’ampelografo piemontese visto dagli occhi del suo più stretto collaboratore e amico.