O capitano, mio capitano!

“O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è terminato; la nave ha superato ogni ostacolo, l'ambìto premio è conquistato”. È Walt Whitman, che parla di Abramo Lincoln, ma l’esortazione potrebbe benissimo essere rivolta all’eroico Seydou di Io capitano, di Matteo Garrone. Il tragitto è altrettanto sinuoso e tortuoso, l’ambito trofeo finale ‒ l’approdo ‒ altrettanto agognato e meritato. Il nocchiero similmente irrefrenabile e inarrestabile.

Il Palmarès del film è prestigioso: finalista ai Golden Globe, due candidature agli European Film Awards, Leone d’argento per la miglior regia e Premio Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente a Seydou Sarr, al Festival del Cinema di Venezia, candidato all'Oscar nella cinquina del miglior film internazionale, recente vincitore di sette David di Donatello, fra i quali quello per miglior film, migliori regia e fotografia. Ci sono tutti gli ingredienti per piacere e coinvolgere: il tema, la realtà, la fotografia, la favola, i sogni, l’avventura. E ancora i buoni e i cattivi, l’amicizia, la fratellanza, i colori vivaci del Senegal che man mano sbiadiscono ‒ con magliette che diventano color pastello ‒, il deserto, il mare, l’orizzonte, il cielo, le piattaforme petrolifere, la terra. Tanti gesti di dignità e gentilezza in mezzo all'inferno. E, soprattutto, le scelte, la scelta.

Si esce dal cinema come se ci avessero dato un pugno allo stomaco, un po' storditi, perché lo sconforto, la forza, l’orrore e la violenza di alcune immagini e situazioni fronteggiano momenti di bellezza, di grande umanità, tenerezza e grazia. Contrasti.

La sinossi di Io capitano lo descrive come “una fiaba omerica che racconta il viaggio avventuroso di due giovani, Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa. Un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, i pericoli del mare e le ambiguità dell’essere umano”.

Tutto, in questa coproduzione italo-belga, girata per tredici settimane fra Africa ed Europa, parla di vita. Di realtà, di crescita, evoluzione e speranza.

Tratto dai racconti di molti immigrati che hanno fatto lo stesso percorso, il film nasce da un'idea del regista sceneggiata insieme a Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e Massimo Ceccherini, che già aveva affiancato Garrone alla scrittura di Pinocchio.

A dirigere la fotografia il bravissimo Paolo Carnera, con il quale il regista ha percorso le strade di Casablanca per simulare, in riva al mare, la città di Tripoli e i centri di detenzione. Insieme hanno affrontato le onde del Mediterraneo con un peschereccio, per tre settimane. Uniti hanno condiviso i mille sapori di un’avventura fatta di stupore e bellezza ma anche di paura. Catturando i colori di Dakar, la luminosità del deserto, il vuoto del mare. Fermando le immagini e i bagliori delle luci notturne, per conservarle nella memoria. Girando in sequenza e usando la steadycam di Matteo Carlesimo, “un occhio che si muove liberamente ma che ha anche la dolcezza di un respiro non convulso”, sottolinea Carnera.

“Sono partito da un’immagine, quella che poi è diventata la scena finale del film. Parto sempre da un’immagine nei miei film”, ha raccontato il regista. La storia del film comincia, però, diversi anni fa: un amico, che gestisce un centro di accoglienza in Sicilia, gli aveva raccontato la vicenda di un minorenne, Fofana Amara, che aveva portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione partita dalla Libia, ma una volta in Italia era stato accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed era finito in carcere per sei mesi, un reato per cui oggi in Italia si rischia fino a trent’anni. “Mi aveva colpito la vicenda di questo ragazzo, me lo sono immaginato come poi ho mostrato nella scena finale del film”, dice Garrone. Per arrivare a girare, però ci ha messo anni, anche per la raccolta di testimonianze e materiale fotografico, oltre sei mesi per scrivere la sceneggiatura.

Nel film c’è poi molto della storia vera di Mamadou Kouassi Pli Adama, immigrato ivoriano arrivato dalla Libia su un gommone in Italia, oggi attivista e leader del Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta e del Centro Sociale‘Ex Canapificio: “quanti morti ho visto davanti a me...", ha detto, "sono la voce di chi non ce l'ha fatta".

“Ero pieno di dubbi”, confessa Garrone, “temevo la retorica, oppure che il mio sguardo potesse essere inadeguato a raccontare questa storia, che potesse sembrare il tentativo di speculare sulla sofferenza degli altri; invece, poi a un certo punto ho sentito che il film era maturo, è come se avesse scelto me. Ho avuto la necessità di girarlo”. “Ogni pezzetto del film è legato al racconto di qualcosa realmente avvenuto”, continua.

Tranne qualche parte in francese e italiano, il regista ha, sorprendentemente, diretto il film in Wolof, la lingua madre di quasi la metà dei senegalesi, pur non parlandola, facendosi aiutare dagli interpreti e raccontando, ogni mattina, agli attori, che non avevano mai letto la sceneggiatura, cosa sarebbe successo sul set. Da queste spiegazioni loro interpretavano, con delicatezza, curiosità, bravura, dedizione, serietà, empatia e ironia.

Il film è in parte epico, è un viaggio scelto e voluto da due ragazzi sfrontati e impavidi che sognano la musica, un road movie che parla di passaggio all’età adulta, di separazione traumatica da origini, radici e affetti, di sfida con sé stessi, di pericolo di perdersi e di soccombere. Lo stesso Garrone confessa di aver pensato oltre a Pinocchio anche all’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson e a Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

Per Paola Casella, infatti, “in un certo senso, Garrone fa cominciare il suo racconto dal suo film precedente, perché i due protagonisti Seydou e Moussa, sono Pinocchio e Lucignolo in partenza per il Paese dei Balocchi, circondati da gatti e volpi pronti a predare sulla loro ingenuità”. In effetti, quella dimensione onirica la si ritrova in alcune scene, come quella in cui Seydou è costretto ad abbandonare nel deserto una donna che non ce la fa più a camminare e che muore tra le sue braccia e lei vola, sulle ali del vento. O nello spirito che lo porta a rendere visita alla madre che dorme, lontana.

A piacere è il fatto che questo film, che affianca sonorità africane e rock, non è il racconto di un viaggio in fuga da miseria e fame, ma, appunto, una scelta autonoma di avventurarsi oltre il Mediterraneo. Un viaggio di conoscenza verso il sogno precluso chiamato Europa, un viaggio alla scoperta del mondo al quale la madre di Seydou è contraria, tanto da averglielo vietato: “Devi respirare la stessa aria che respiro io”, nel tentativo di proteggere lui dai pericoli e sé stessa dalla sua perdita. Lo stesso viaggio che ogni ragazzo del mondo vorrebbe intraprendere per realizzare i suoi sogni. Salvo che c’è chi può e chi non può. Perché i documenti fanno la differenza.

Io capitano è soprattutto una parabola sulla necessità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e scelte, incarnata nella figura nobile di Seydou che, invece di pensare solo alla propria sopravvivenza o al proprio tornaconto, si fa carico degli altri, fino a portare con sé anche il ricordo di chi non è arrivato alla meta. Valori in via d’estinzione.

Io capitano, di Matteo Garrone, con Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodou Sagna, Italia, Belgio, 2023, 121 minuti.