Il Brahmaputra è un fiume gigantesco come il suo nome, provate a pronunciarlo. Nasce dai ghiacciai al confine tra il Nepal e il Tibet, scorre lungo la cresta principale dell’Himalaya a un’altitudine media di 4000 metri. Aggira la catena di quei monti e corre per 1700 chilometri prima di formare la gola più tortuosa e inaccessibile del pianeta, un canyon profondo che incanala le sue acque lungo il territorio cinese per poi sterzare a sud, attraversando alcuni stati indiani fino a entrare in Bangladesh e confluire nel delta del Gange. Nel suo interminabile viaggio verso il mare, in alcuni punti raggiunge un’ampiezza di 10 chilometri. Una grossa arteria del pianeta che pulsa da nord a sud e permette al corpo che ci contiene di alimentare un numero incalcolabile di cellule viventi. Non sono dettagli superflui, anzi, li sottolineo, perché traboccano al di là dei corsi d’acqua che i nostri occhi sono abituati a vedere. E non dico che se straripano per colpa degli alluvioni facciano meno paura, ma che quando un fiume del genere viene chiamato in causa e portato all’esasperazione, gli scompensi provocati dalla crisi climatica si amplificano all’inverosimile.

E se a fronteggiarli ci si trova una ragazzina di tredici anni, da sola, perché orfana di madre e abbandonata dal padre, la sproporzione di forze lascia senza fiato. Afrin è l’incarnazione di come si diventa piccoli di fronte al dilagare dell’acqua e delle piogge che stanno cancellando migliaia di isole fluviali, un tempo abitate da donne e uomini capaci di convivere con la forza e la ricchezza del fiume. E queste piogge non sono ricostruite con le macchine che solitamente fanno piovere sui set dei film. Sono reali cateratte d’acqua che allagano le baracche dei pescatori, puntellate solo da pali di bambù, protette a malapena da tetti di lamiera. Abitazioni minimali, pazienti e preparate da secoli alle bizze del grande fiume, ma ormai impotenti di fronte al cataclisma che le spazza via.

Angelos Rallis, regista nato in Svezia con la dote di un talento spericolato, ha potuto seguire nell’arco di cinque anni l’odissea di Afrin. La sua fuga da un mondo sommerso è l’esempio quasi mitologico di quello che sta accadendo in zone del mondo ancora remote, perché le immagini dei media riescono appena a scalfire il bozzolo nel quale l’Europa si sforza di rimuovere gli incubi di quello che una volta era chiamato il Terzo Mondo. Incubi che ritornano sotto forme diverse, barconi di disperati che scappano da guerre, carestie e condizioni di non vita, oppure scene imprevedibili fino ad alcuni decenni fa. Quel miliardo di cittadini indiani che sono andati alle urne per votare, da aprile a giugno, anche qui, occhio alle dimensioni! Un fiume sterminato di teste in fila davanti ai seggi. Sei settimane per annunciare i risultati, pur avendo un sistema informatico di eccellenza. Quale che sia l’esito, si deciderà il prossimo futuro di una potenza economica mondiale, quel Terzo Mondo diventato competitor del mercato globale, capace di sparigliare le carte sul tavolo da gioco e mettere l’Europa ai margini, costringendola a riorganizzarsi, o a cedere il passo. L’ennesimo incubo per riflettere sul legame che coinvolge tutti i popoli di fronte alle mutazioni del clima e alle sue conseguenze. E anche l’ennesima contraddizione, perché l’India e gli stati limitrofi come il Bangladesh gravano pesantemente sull’inquinamento del pianeta.

Afrin è costretta a lasciare il mondo sommerso dalla furia dell’acqua; se rimanesse nella famiglia che l’ha “adottata” rischierebbe un matrimonio combinato, l’onta di non poter decidere del proprio corpo e della propria esistenza. Ma i fatti dicono che il cibo non basta per tutti e un marito risolverebbe almeno il problema. Quante ragazze nel mondo vivono in questa forbice di decisioni, restare e subire, oppure scappare nel cuore della notte, ma dove e con quali mezzi? Lei sceglie con coraggio, sale sulla sua piroga e sotto la pioggia incessante avvia la ricerca del padre, emigrato a Dacca per tentare la sorte, senza lasciarle recapiti. Quanti altri padri e quanti altri nuclei familiari si sono dovuti spostare forzatamente per le stesse ragioni. La Banca Mondiale stima che l’Asia Meridionale, dal 2050 avrà 50 milioni di rifugiati climatici all’anno. Nel 2022, già 7 milioni di bengalesi sono stati sfollati. Ecco solo alcune delle conseguenze di persone delocalizzate, un termine buonista per dire “sradicate brutalmente da ogni minima tutela” per i disastri del clima. Dopo un lungo tragitto, ecco che ad Afrin appare la capitale, Dacca, detta la Venezia d’Oriente solo per i numerosi corsi d’acqua che le scorrono in un ventre di 15 milioni di abitanti. Un caos di rumori, un fermento indescrivibile e, di nuovo, un mondo sommerso di povertà e di rifiuti.

“Afrin” è il documento crudo, senza giudizi, senza buoni né cattivi, di come una ragazza errante, sia costretta a sopravvivere e finisca a raccogliere plastica lungo le strade della città e a rivenderla per pochi spiccioli insieme ad altri orfani come lei, appena più piccoli, ma già esperti dei meandri che attraversano la ciclopica discarica che svetta lungo le acque del fiume. Lo scempio di anime che vagano nei rifiuti del consumo globale, tra fuochi tossici e acque avvelenate, la Storia contemporanea delle grandi città asiatiche, africane, sudamericane, per non dire di quelle più vicine a noi, dove l’immaginario benessere che viene propagandato copre un crescente imbarbarimento. Non a caso, il film ha vinto il premio come miglior documentario al Giffoni Film Festival del 2023 e ricevuto il patrocinio di Greenpeace, Amnesty International, Save the Children, WWF e Legambiente. Ora, seppure faticosamente, è arrivato nei cinema italiani con la cadenza di una proiezione al giorno e solo in alcune città.

Quello che sconvolge di più, al di là delle smisurate masse ambientali e umane in gioco, è lo svilimento della bellezza, proprio così. Il volto di Afrin, i suoi grandi occhi neri sono un dono imprescindibile che ci viene offerto, la sintesi ultima di quello che davvero stiamo sprecando, dell’abuso che stiamo compiendo su noi stessi. Se vederla combattere contro il deterioramento che la minaccia fa male al cuore, assistere al suo stupore per un imprevisto momento di grazia ci costringe a una proiezione ulteriore nel suo mondo sconosciuto, nel mistero dei suoi sguardi e delle poche frasi che le escono di bocca. È lei il frutto caduto vicino all’albero della vita. A notte fonda, sul trabiccolo che attraversa le strade della città, in cima ai sacchi colmi della plastica raccolta, Afrin vede comparire improvvisamente sopra di lei una rete di lucine azzurre, una luminaria; chissà, l’annuncio o la fine di una festa cittadina. Allora si protende verso il piccolo miracolo che le è apparso, ed è grata che il cielo le porga quel regalo, un momento inaspettato di gioia da celebrare, l’occasione di sentirsi tutta intera nella meraviglia della sua giovinezza.

Ecco, forse da quel momento inizia il suo riscatto, la spinta che, come dicono i titoli di coda, ad un certo punto del suo calvario la porterà a studiare come attrice e più tardi a diventare parte di una compagnia di teatro. A noi, oltre al sollievo di saperla ancora viva, resta una domanda. Quanti adolescenti come lei saranno in grado di cogliere un segnale del genere e avranno la sorte di trovare una strada che li conduca alla salvezza?