Impensierito dalla noia, il maestro Vincenzo Saldarelli è deciso a evitare gli elenchi. Occhi ridenti e fare tanto cortese, ha parole vibranti che appartengono a oggi, anche quando rievoca il passato. Le composizioni scritte per lui, le tournée internazionali, le collaborazioni al culmine, gli allievi bravi, gli incontri con le star di tutti i cieli artistici, inclusa qualche puntata nel divismo, vedi foto con Sophia Loren, “gentile e anche piena di finezze”, il maestro scongiura l’intervista-enciclopedia.
Chitarrista, compositore, didatta, è immerso nella campagna di Firenze, sopra Pratolino, scelta con Silvia “felicissima consorte”.
Comodo stare in città, sicuramente, spero per gli ultimi anni di tornarci, però questo posto mi ha molto ispirato: era la sala prove mia e del Trio Chitarristico Italiano. Una casa di musica che ha aiutato la mia crescita. La bellezza della natura, dell’arte, della musica, delle persone che si incontrano, fortunatamente, a volte. È ciò che ci consola.
Fiorentino d’adozione dal 1963 (maturità classica e conservatorio), da piccolo e da ragazzino aveva vorticato per la penisola e le isole maggiori.
Sua madre era di Empoli e lui nacque lì:
Sono molto felice perché prima di me c’è nato Ferruccio Busoni, un compositore che ammiro molto. Quindi due musicisti di Empoli: il grande Busoni e anche Vincenzo, cioè io. Però a due mesi ero già sul treno per la Sicilia: con i trasferimenti per lavoro di mio babbo, perugino, ho fatto una mezza terza elementare in Calabria, una mezza quinta elementare in Sicilia. È stato tutto un traffico.
Perché la chitarra?
Ho sempre avuto una grossa attrazione verso la musica, ma non l’ho praticata sin da bambino, come capita. Ho avuto un lampo, una grande scoperta a un concerto dove mi portò mio padre Renato (e Renata si chiama la sua somigliante figlia n.d.r.), organizzato dagli Amici della Musica di Arezzo. Suonava mio zio Antonio, violoncellista, con il Trio di Roma, famoso negli anni Quaranta, soprattutto nei paesi di lingua tedesca. Rimasi incantato. Tornando a Cagliari, dove abitavamo, cominciai una stagione di esperienze musicali. Mio fratello suonava la fisarmonica, io il pianoforte. Ancora la chitarra non la conoscevo, ma mio fratello mi portò un disco di Andrés Segovia e rimasi fulminato, e da lì è nato il mio amore per la chitarra, per la sua poesia. Un Natale me ne regalarono una e cominciai a strimpellare col mitico maestro Manservigi.
Segovia l’ha poi incontrato.
Ho fatto delle audizioni con lui, fu largo di elogi e incoraggiamenti, ma non sono stato allievo di Segovia. Abbiamo avuto un rapporto di grandissimo amore e simpatia. Che gentiluomo spiritoso e affettuoso. I grandi artisti sono aperti, non presuntuosi, gli altri sono piccoli artisti. L’ho sentito in tanti concerti, alla Pergola a Firenze… A Bologna pescarono me, non so come mai, forse mi aveva segnalato lui, per scrivere le note di sala di un suo concerto al Teatro Comunale. Dopo mi invitò a cena in una trattoria. C’erano il suo segretario personale e la moglie di Alirio Diaz. Basta. Racconterò il menu di Segovia perché ne vale la pena.
Vogliamo sapere.
Ordinò tortellini alla panna, piatto di una leggerezza sovrumana. Era sugli ottanta anni oramai e di una certa stazza. Arrivò il vassoio di tortellini, come assaggio per tutti: lo prese e li finì, testimone io. Pensava fosse la sua porzione! Solo un vero artista può fare così. Dopo i tortellini si fece i gamberoni. Fu una cena divertentissima. Incantevoli le mani, grandissime mani, dita belle lunghe, unghie larghissime. Fantastico. Anche un grande mangiatore e questo mi rese molto contento. Il lato gastronomico non è mai secondario.
Altre memorie di tale rango?
La visita in camerino a Leonard Bernstein dopo un concerto di Ravel dove suonava e dirigeva, al Comunale di Firenze. Allora facevo il vice della Nazione di Leonardo Pinzauti e ho conosciuto una quantità di personaggi che finiamo domani, se racconto. Questa però fu leggendaria: andai a salutare Bernstein perché rimasi stupefatto dalla sua bravura. Ne ho sentiti pochi così. Aveva una vestaglia di raso meravigliosa, fu gentilissimo, mi fece una bella dedica. Due chiacchiere, sul tavolino di cristallo una bottiglia di whiskey semivuota.
Per non parlare di Ennio Morricone. Quand’ero direttore del Conservatorio di Modena, l’avevo invitato per una masterclass sulla musica da film ed era la prima volta che lo faceva, poi andò anche all’Accademia Chigiana: “Vincenzo, ho fatto 400 colonne sonore, ma come mi piace scrivere musica di altro tipo”. Gli regalai il nostro disco e dopo qualche tempo scrisse per noi, il Trio Chitarristico Italiano. Fu un rapporto veramente molto carino, amichevole.
Ecco, ci siamo. Il Trio Chitarristico Italiano?
Possiamo dire che è stata l’esperienza più forte della mia attività artistica. Un’invenzione del 1969, sempre collegata a Pinzauti che curava anche i concerti del Circolo Borghese della Stampa di Firenze. Mi chiese di organizzare una stagione e io, divertito, buttai lì un programma, e mi disse: “Perché non suoni anche te?”. Organizzavo, non sarebbe stato elegante.
Mi venne il lampo. E se avessi fatto una cosa diversa? Siccome mi piace la musica da camera e c’era un repertorio originale per tre chitarre, chiesi a due amici del Conservatorio, Alfonso Borghese e Roberto Frosali. Provammo a mettere su un programma e lo facemmo ascoltare a mio zio Antonio, il violoncellista, che era di passaggio da Roma, e anche allo zio musicista di Alfonso, e ci incoraggiarono. Debutto nel marzo 1970 con quello che allora si chiamava Trio di chitarre Borghese Frosali Saldarelli e fu un successo inaudito, con degli articoli entusiasmanti e tutti volevano scrivere per noi. Fu il primo trio al mondo di chitarre. C’era un repertorio originale, non che l’avessimo inventato in una notte, però l’abbiamo esteso con riscoperte di pezzi, adeguate trascrizioni da de Falla e Albéniz e tante nuove composizioni di contemporanei. Nel 2020 la festa del cinquantennale poi, purtroppo, sono morti entrambi. Abbiamo fatto tante incisioni, girato i continenti: è stata una bella esperienza che ha arricchito anche la mia attività da solista.
Ce ne parla?
È stata importante anche per le prime esecuzioni perché quasi tutti i compositori italiani principali, e pure stranieri, hanno scritto per me per chitarra sola, cito solo qualche nome: Aldo Clementi, Francesco Pennisi, Ennio Morricone, Carlo Prosperi, Lorenzo Ferrero.
E Goffredo Petrassi.
Ho avuto la fortuna di incontrarlo. Mi chiese di registrare un disco di sue musiche perché gli piaceva molto come suonavo i suoi pezzi. Mi ricordo quando disse: “Saldarelli, meraviglioso, ma il disco è un po’ breve. Non posso mettere qui un altro pezzo: gliene scrivo uno apposta”. E compose Alia per chitarra e clavicembalo che suonai nel ’77, in prima esecuzione, con Mariolina De Robertis emerita clavicembalista di allora, alla Settimana Chigiana. Memorabile: c’erano a sentire Petrassi e tutta Italia. Il pezzo fu inserito nell’incisione della sua integrale per chitarra.
Alvaro Company?
Studiai con lui e, l’altra notte, ho finito di scrivere un libro dal titolo provvisorio Alvaro Company protagonista del Novecento.
Nel tempo avevo scritto saggi sui sei compositori che negli anni Cinquanta formarono la Schola Fiorentina: Bruno Bartolozzi, Arrigo Benvenuti, Sylvano Bussotti, Company, Carlo Prosperi e Reginald Smith Brindle. Non ho studiato le partiture da musicologo: le avevo suonate. Mi è venuto in mente di approfondire Alvaro Company, scomparso nel 2022, al quale chiesi il permesso di scrivere un libro su di lui. Non è una biografia, ma il racconto del personaggio con l’analisi di opere che conosco a menadito.
L’insegnamento?
Fondamentale, mi ha molto gratificato. Nel 1969, a 22 anni ho vinto il concorso per la cattedra di chitarra a Modena dove ho insegnato la bellezza di 42 anni. Di cui venti come direttore.
La composizione?
Visto che me lo chiede… è un argomento interessante. Avrei voluto dedicarmici molto di più, ne ero innamorato. Alla fine degli anni Sessanta, il Conservatorio di Firenze era un crogiuolo di eccellenti musicisti. Mi iscrissi a composizione con Carlo Prosperi, grande polifonista. Vinsi due premi Viotti, uno per un pezzo per chitarra e l’altro per violino e chitarra. Sarei voluto andare a Siena a studiare con l’amico Donatoni. Però ho iniziato la carriera concertistica e ho lasciato, salvo qualche pezzo, e ho riscoperto la composizione dal Duemila. Ho scritto un sacco di cose, per chitarra, per altri strumenti, su commissione, e nel 2022 un mio concerto per chitarra, flauti e orchestra è stato eseguito al Festival di Benevento. E ho inciso vari CD: l’ultimo è Là dove ‘l sì suona.
Purtroppo è molto difficile far circolare la musica contemporanea.
Si sa. Perché?
È un quesito che ci poniamo anche noi, da tantissimo tempo. La situazione è cambiata rispetto a quella che, negli anni Settanta, si chiamava sperimentazione. C’era uno spirito di ricerca, si esploravano nuovi orizzonti e scritture, all’uscita dal periodo molto rigoroso della scuola di Darmstadt, di Boulez. Gli esperimenti si facevano in luoghi deputati, per esempio ho suonato tantissime volte alla Biennale di Venezia, al Festival di Spoleto. C’erano personaggi lungimiranti, come Bortolotto che inventò il festival Nuova Musica dove le prime esecuzioni erano come il pane. Con pubblico stupefacente: alla Biennale la gente era in piedi.
Poi che cosa è successo? Secondo me qualcosa di legato al sistema dei mass media e di comunicazione che si è trasformato e che è, devo dire molto francamente, un po’ un’eredità delle televisioni berlusconiane. La faciloneria. Quello che richiede maggiore attenzione non è vendibile e quindi va accantonato. Con la musica contemporanea occorre l’umiltà, l’atteggiamento di riascoltare. Un pezzo contemporaneo non puoi ascoltarlo una sola volta perché devi capire qual è il suo messaggio interno e magari la seconda volta è già più chiaro, la terza ancora di più.
Io sono un sostenitore della musica barocca perché hai un parametro di scrittura molto facile che entra subito nell’orecchio. Vivaldi lo senti e lo ami.
Discorso molto lungo, magari lo facciamo un’altra volta ma, in sintesi: la musica contemporanea non può essere orecchiabile, non c’è verso. Salvo qualche compositore che ha di per sé una dose di impatto immediato. Ce ne sono alcuni che dici: “Accidenti, che bello”.
Siccome la speranza è l’ultima morire, io continuo a scrivere. E verrà il momento.
Ascoltare, riascoltare con attenzione e…?
Un aiuto arriverebbe con un fenomeno visivo. Per le arti figurative l’occhio ha una sua educazione e sa distinguere fra la Gioconda e Goya e questo vale persino per le più ardite esperienze dell’arte contemporanea. Come è abituato il lettore perché siamo cresciuti con il linguaggio della parola quindi sappiamo subito trasferirlo nella nostra intelligenza che non è artificiale, per fortuna, ma è ancora controllabile da noi. Fino a quando, non lo sappiamo.
Il suono no, ecco il mistero. Se un ascoltatore di musica contemporanea guardasse la partitura di quello che sta ascoltando scoprirebbe il mondo da dove vengono quei suoni: è il fascino di quello che succede nel cervello di chi ha creato. Anche solo vedere una partitura, per curiosità, non sto dicendo che si debba studiare la lezioncina.
Maestro, sembra che lei abbia dolcezza e una disposizione positiva verso l’universo insieme con un rigore e una severità che mettono quasi soggezione.
Forse ha colto una parte del mio carattere. Il secondo aspetto è stato basilare perché senza disciplina non avrei potuto fare cose che mi sembra esagerato citare. Il primo aspetto mi consente di alleggerire il lato più tosto. È vero: ho una grande disponibilità verso l’esterno e, fino a prova contraria, fiducia nei confronti degli altri. Se fossi categorico su uno degli aspetti sarebbe una vita piuttosto triste e pesante.
Giudica alcune canzoni stupende. Quali?
Sicuramente alcune della tradizione napoletana sono il massimo della creatività. O sole mio, un capolavoro. 'Na sera 'e maggio di ispirazione belliniana. Sono amante della canzone perché è una base della cultura musicale italiana che è stata poi trasmessa nei grandi compositori del melodramma ed è rimasta nei cantautori dove si trovano capolavori, Fabrizio De André, Paoli, ma, come d’accordo, non facciano elenchi.
A noi musicisti classici ci hanno soprannominato quelli della musica colta. Non ho mai sopportato questa definizione. Colta nell’orto? (ride n.d.r.).
E gli chansonnier francesi. Uno dei geni della canzone è stato Gershwin. Ravel ne fu incantato. Gershwin andò a Parigi ci fu uno scambio e nelle opere dei francesi troviamo tante reminiscenze dei suoi ritmi, in lui le loro armonie. Un accavallamento. Dall’incrocio viene fuori la qualità, come dall’incrocio di popolazioni. E qui mi fermo.
Il cinema le piace?
Sono un cinefilo pazzesco. Il mio cruccio è che non ho abbastanza tempo per andare al cinema. Ho dei grandi amori. Parto?
Parta.
Ladri di biciclette. Vedrei cinquantamila volte Amarcord e La dolce vita, Vacanze romane. E le commedie americane. Sono un amante sfegatato di Fred Astaire e Ginger Rogers. E di Gene Kelly. Cantando sotto la pioggia lo guarderei ogni settimana.