Vi siete mai chiesti quando l’essere umano ha sentito la necessità di misurare, in maniera tangibile, la propria felicità?

Nonostante la ricerca della felicità sia stata un filo conduttore che ha attraversato millenni e culture e sia una costante nella storia sociale, in realtà è solo a seguito della catastrofica crisi economica del 2008 che l’Assemblea Generale della Nazioni Unite, posta dinanzi al problema della decrescita, ha invitato i paesi membri a misurarne attivamente l’indice dei proprio abitanti.

Sono passati più di dieci anni da quando è stato pubblicato il primo World Happiness Report, un rapporto annuale che analizza e classifica il livello di benessere dell’individuo, orientando le azioni dei governi ad un modello di politica pubblica più sostenibile ed empatico.

“Se la ricchezza non fa la felicità, figuriamoci la povertà” scherzava – o forse no – Woody Allen entrando però in contrasto con il paradosso di Easterling secondo cui al raggiungimento del benessere economico, la felicità umana aumenta fino a un certo punto, cominciando poi a diminuire, seguendo una parabola con concavità verso il basso. Ed è proprio qui, sulla curva calante di questa parabola discendente che l’Onu, per la prima volta, discioglie l’archetipo del ricco-uguale-felice, dove i paesi più ricchi sono necessariamente anche i più felici. Differenzia così l’oggettivo dal soggettivo: la misurazione della ricchezza dalla percezione della felicità.

L’indice della felicità soppianta l’indice sulla progressione economica, e si basa sulla percezione individuale di elementi chiave come il supporto sociale, le aspettative di vita, la libertà di agire, il reddito pro-capite, la filantropia e la corruzione.

Nonostante sia una tematica scientificamente più attuale, fin dagli albori della civiltà, le antiche filosofie orientali e occidentali hanno posto la felicità al centro della riflessione umana. Il termine deriva dal latino felix: fertile, produttivo ed abbondante di frutti. Significato poi trasportato alla fertilità umana, con un ritorno alla filosofia classica dove il benessere dell’anima passa attraverso il benessere del corpo.

In India, le Upaniṣad – una raccolta di testi filosofico-religiosi – vedono la felicità come l'obiettivo supremo della vita umana, insegnando che il vero sé è di natura felice e che la realizzazione spirituale porta alla beatitudine eterna. In Grecia, per esempio, Aristotele identificava la “eudaimonia” con la realizzazione delle potenzialità dell’uomo attraverso la virtù e la contemplazione.

L'Illuminismo del XVIII secolo portò con sé un'ulteriore evoluzione della concezione di felicità. Filosofi come John Locke e Jeremy Bentham promuovevano l'idea che la felicità dovesse essere misurata in termini di benessere sociale e libertà individuale. Questo periodo vide anche l'emergere dell'economia politica, con pensatori come Adam Smith che ne collegavano il concetto al progresso economico e al libero mercato.

E se nella più recente epoca moderna tali ricchezza e potere economico, facilmente raggiungibili dall’uomo, coincidono con l’idea di felicità, nei secoli precedenti, nel culmine dell’epoca medievale è invece un’astrazione, qualcosa di irraggiungibile nel mondo terreno ma tangibile solamente nel divino.

Con l’avvento del Cristianesimo viene creata l’idea di Paradiso, luogo per eccellenza dove risiede la felicità, la raffigurazione di un possibile benessere ultraterreno. La beatitudine era vista come il fine ultimo dell'uomo, raggiungibile attraverso la fede e l'adesione ai precetti religiosi. Tuttavia, la visione stoica dell'epoca conservava ancora elementi di filosofia greca, con l'idea che la felicità potesse essere raggiunta attraverso la virtù e la serenità interiore, indipendentemente dalle circostanze esterne.

In questo parallelismo di epoche, non si può però non menzionare la corrente filosofica dell’epicureismo, raffigurata troppo spesso come la dottrina del mero piacere, ma che in realtà presenta in sé moltissimi elementi che hanno posto le radici al concetto contemporaneo di felicità.

Per il filosofo greco Epicuro, nato a Samo nel 342 a.C., la costruzione del concetto di felicità fece da perno per i suoi studi: i veri piaceri da ricercare sono quelli stabili, dati dall'assenza di dolore, e devono essere assecondati nella misura in cui servono ad attenuare i dolori. Cataloga poi i bisogni dell’individuo in naturali e necessari, come mangiare, bere e dormire, i quali, essendo limitati, vanno appagati e possono essere totalmente colmati. Ad un livello intermedio classifica i bisogni naturali e non necessari, come, per esempio, mangiare il proprio piatto preferito, piccole cose che vanno perseguite con cautela e moderazione altrimenti possono indurre all’assuefazione. L'ultima categoria che analizza è quella relativa ai bisogni non naturali e non necessari, quali il desiderio di gloria, di fama e di ricchezza, il cui perseguimento rende l’animo umano maggiormente inquieto e, per questo, vanno evitati.

L’Epicureismo si avvicina sensibilmente al nuovo concetto di felicità post-capitalista agli arbori: il filosofo ellenico oggi osserverebbe quanto sia ampiamente diffusa l'infelicità proprio perché basata su quest'ultima categoria di bisogni non naturali e non necessari, e su una società consumista che ci vende la felicità come se fosse merce non in saldo. Non conosciamo più ciò di cui abbiamo realmente bisogno, i nostri desideri si basano sulle aspettative altrui, sullo status sociale, sulla competizione frenetica: l’ennesimo paio di jeans dalla sfumatura leggermente diversa dagli altri nove che giacciono già in armadio ci rende davvero felici?

Un ruolo chiave in questo concetto volatile lo giocano sicuramente i media nell’incessante esaltazione dell’abbondanza. E allora forse, più che continuare ad aggiungere, dovremo cominciare a togliere per ritornare ad essere felici. Ironico però a pensarci: è stata proprio l’abbondanza a creare, inizialmente, l’etimologia della felicità.