Alla fermata dell’autobus. Non davanti alle poltroncine di velluto rosso e alle mani plaudenti. “Per me il pubblico è tutto ciò che è spazio e tempo la cui responsabilità è condivisa. È come sto accanto a qualcuno che non conosco. Lì sono un cittadino responsabile e agente di cambiamento che è, inevitabilmente, o in peggio o in meglio”.

Mario Biagini, attore, regista, ricercatore, pedagogo ha fondato l’Accademia dell’Incompiuto e con l’aggettivo scelto ci placa e ci agita: un’opera non si può compiere, ma ogni azione porta a un’altra opera, con tempi imprevedibili e non sempre individuabili subito.

Fino al 2021, Biagini ha diretto l’Open Program del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards a Pontedera. Grotowski (1933 - 1999), regista e teorico teatrale polacco, illustra l’enciclopedia Treccani “è stato maestro di un'intera generazione di teatranti e si è dedicato all'approfondimento del rapporto attore-spettatore attraverso l'eliminazione del superfluo, a ricerche sull’espressività fisica dell'attore e alla definizione di un nuovo uso dello spazio, in una teoria del teatro come cerimonia rituale e del corpo come veicolo attraverso il quale liberare ricordi ancestrali ed energie cosmiche”.

Il Workcenter fu fondato nel 1986 su invito del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera diretto da Roberto Bacci e Carla Pollastrelli. Per 13 anni, Grotowski ha sviluppato al Workcenter una linea di “ricerca sulle arti performative” e ha poi designato Richards e Biagini soli legatari dell’intero corpus dei suoi testi, specificando che questa designazione era una conferma della propria “famiglia di lavoro”. Il Workcenter ha chiuso nel 2022. Richards e Biagini, hanno “aperto” altrove. Ciascuno come vuole.

Mario Biagini, dobbiamo partire da Grotowski.

Sì. Purtroppo l’identità è qualcosa da cui uno non si può liberare, anche se è misteriosa da acchiappare. Questa è la storia della mia uscita dalla giovinezza: venivo da avventure che non si possono definire realmente teatrali, ma di ribellione piuttosto radicale, che non so dove m’avrebbero portato se nell’85, a Firenze, al Gabinetto Vieusseux, non avessi visto una conferenza di Grotowski. Mi fece intendere (nei primissimi anni di vita si crede che i genitori sappiano tutto, poi si scopre che nessuno sa niente) che c’era qualcuno che ne sapeva molto più di me e non solo sul teatro.

Ero scappato in Francia per fare teatro e, tornato in Italia, vivevo in una fattoria dove facevo teatro, in cantina, con un piccolo gruppo, ma forse cercavo qualcosa di diverso dal palco, cercavo di incarnare nell’esperienza desideri di altri universi oppure desideri di contatti con una realtà che percepivo in maniera romantica: lo stare dietro l’apparenza.

Un’alba, un fiato di vento ti fanno intuire che c’è una profondità diversa dal mondo degli umani che è un po’ di plastica e a cui non credi perché ne percepisci le contraddizioni, le menzogne e avevo l’idea che forse un giorno avrei incontrato qualcuno che, nella sua vicenda biografica, era riuscito in qualche modo a toccare al di là delle apparenze.

Grotowski mi dette questa impressione e disse cose che mi colpirono dal punto di vista politico, del professionismo nell’arte, non nel senso della produttività o dell’efficienza, ma della qualità. Disse che uno dei test è far ballare qualcuno per vedere se marca il battere con il piede o con il levare perché la danza è sul levare, mai sul pestare.

Se leva è portato per la scena?

È portato. O ha imparato da bambino o in una formazione professionale. Grotowski parlò anche, si potrebbe dire, di argomenti esoterici, del cervello-rettile che può risvegliarsi. Il suo compito era di allargare l’isola di libertà che portava in sé: quello che era proibito prima di lui doveva essere permesso dopo di lui. E questo è successo, non solo per merito suo, ma lui ha partecipato alle rivoluzioni internazionali di ampliamento di ciò che è lecito a teatro. Dopo un anno dalla conferenza, ho scritto a Pontedera, ho fatto un’audizione e sono stato invitato per tre settimane, poi per altre tre. La mia attitudine era: finché mi tengono qui mi diverto, cerco di rubare quello che posso, quando mi dicono di andarmene, me ne vado, ma nessuno me l’ha mai detto. E da lì è cominciata una lunghissima avventura.

Trentacinque anni. Com’è stata?

Ho avuto la fortuna di vivere molto lontano dalla routine: la relazione con Thomas era tale che potevo proporre cambiamenti, denunciare ciò che sentivo passato, morto, domandarmi di cosa avevo bisogno io, noi, in rapporto a quel che succedeva nel mondo e questo fino al 2005 quando io e Thomas abbiamo smesso di lavorare insieme su sua richiesta e allora nel 2007 ho iniziato l’ Open Program.

Per mesi, con questo bellissimo gruppo, ci siamo domandati che cosa dovevamo fare: nei primi sette anni abbiamo fatto dei lavori su Allen Ginsberg che ci hanno portato in molti luoghi, soprattutto in ambienti non teatrali. Abbiamo cominciato a esplorare modalità di interazione, anche conviviali, con comunità variegate. L’aspetto del viaggio era presente fin dal 1986, quando sono arrivato al Workcenter.

Non abbiamo viaggiato i primi anni, ma a Pontedera era come se potessi viaggiare senza muovermi: venivano persone da tutti i continenti e portavano ventate di cieli che avevo intuito solo leggendo libri. Poi abbiamo viaggiato davvero, durante la vita di Grotowski e ancora di più dopo la sua morte. Con l’Open Program abbiamo viaggiato tanto, tornando ripetutamente negli stessi posti per instaurare relazioni, specie nel Bronx dove siamo andati fino al Covid e forse torneremo in autunno. Sono stati quindici anni fortunatissimi: cercavamo di coinvolgere le persone in maniera non banale.

Del lavoro con Grotowski che cosa c’è da dire? Ci sono gli scritti suoi e di Thomas, io non mi sento affatto legato a lui nel senso di una continuità artistica o mentale. Abbiamo iniziato a lavorare insieme molto presto e si è sviluppata un’amicizia basata anche su tanti interessi in comune: la storia d’Europa, la cultura indiana, è lui che mi ha spinto a studiare bene il sanscrito, lui che mi ha detto che dovevo imparare a fare l’attore e a dirigere la gente. Con imparare non intendeva dire che queste cose si possono insegnare.

Ti insegnava che dovevi imparare da solo?

Esatto. Puoi osservare un grande attore e forse imparare qualcosa. E anche nella regia: piccole cose che Grotowski che spiegava sono rimaste. Mi dette una grande occasione. Con una dozzina di persone dovevo creare una messa in scena di una quindicina di minuti intorno a un personaggio principale che però era assente, ed ero io. La mia linea d’azione, se così si può chiamare, la lavorammo io e Grotowski separatamente. Dovevo immaginarmi in scena e lui guardava. Di sicuro ho fatto tanti errori però con l’Open Program ho capito tante cose.

L’Accademia dell’Incompiuto?

Quando ho mandato quella lettera nella quale dicevo che scioglievo l’Open Program e lasciavo il Workcenter è stato un piccolo evento dopo un processo di alcuni anni. Mi dicevo da molto tempo che qualcosa era arrivato alla fine naturale. Tutto muore. In un certo senso si muore ciclicamente, ogni ora, ogni tre mesi.

Grotowski fu istruttivo. A volte diceva: “Mario, adesso è in atto un processo di discesa, di dissoluzione e bisogna resistere”. Altre volte diceva: “Mario questa cosa si sta dissolvendo e bisogna andare con la dissoluzione”. Gli chiedevo: “Come si fa a capire ora sì e ora no?”. Penso sia più difficile in una relazione personale, in un gruppo puoi sentire che ci sono delle ondate di marea, risacche, momenti di grande creatività, momenti di stagnazione. E poi ti accorgi che tutto sembra dissolversi e dietro questo dissolvimento avverti che c’è qualcosa di nuovo.

In questo caso c’era l’Accademia.

Anche per necessità molto concrete. Nel 2018, o nel 2019, avevo, avevamo, cominciato a sentire che c’erano delle dinamiche che dovevano cambiare. Per anni avevo diretto ed ero stanco. Non si tratta solo di dirigere in scena, con l’Open Program si trattava anche di decidere quale sarebbe stato il prossimo lavoro da fare, la strada da seguire, e di tener conto della qualità generale intendendo i dettagli artistici, i modi di cooperazione, le relazioni. Ho sentito la fatica.

Anche una fatica da potere non voluto?

Da potere, punto. O diciamo dall’autorità che è diversa dall’autorevolezza. Sono in una posizione di autorità per tanti motivi: ho una certa capacità dialettica, sono un uomo, ho avuto tante esperienze, sono bianco, sono nato in una famiglia che non era economicamente ricca ma che mi ha dato un sacco di strumenti. Tutti miei fratelli sono colti. Ho incontrato Grotowski, faccio il regista e se faccio l’attore prendo abbastanza spazio in scena. Questo non è voluto? Sono situazioni di cui uno in parte si approfitta e io ho iniziato un’autocritica. Si diceva così negli anni Settanta, no?

Autocoscienza?

Brava. Cercare di capire che cosa succedeva negli altri e come riuscire a dare spazio a soggettività differenti in campi diversi da quelli da cui mi aspettavo la loro espressione. È un po’ contorto?

Nell’Open Program c’erano persone che avevo scelto io, non si erano scelte a vicenda, che erano venute lì per lavorare con me. Quando ho cominciato a chiedere che ognuno di noi fosse responsabile della qualità generale ci siamo scontrati contro alcuni ostacoli, inclusa la mia abitudine trentennale al comando.

Un’altra cosa che diceva Grotowski è che un gruppo di teatro ha una durata di vita che corrisponde alla vita media di un cane. Sentivo che il gruppo era arrivato alla fine del suo arco, che una nuova ondata stava arrivando e che ci voleva un cambiamento drastico. Ne avevo già operati di cambiamenti, ma proprio il quadro doveva esplodere. In più nel 2020, on line, ho assistito a sessioni dell’altro gruppo del Workcenter diretto da Thomas dopo tanto tempo che non ero testimone di quello stava facendo lui e mi sono reso conto che dal 2005 le nostre strade avevano cominciato a divergere e ormai non mi identificavo più nella dicitura Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards.

Tra l’altro avevo l’impressione che dovessimo fare a meno del nome di Grotowski, che si può lasciare riposare in pace, anche se mi occupo al meglio delle mie possibilità dell’edizione dei suoi testi.
Per me è bello lavorare con chi non ha idea di chi fosse perché vuol dire che quando mi guarda non guarda “l’allievo o l’erede“ che io non mi sento di essere. Non ho nessuna nostalgia del passato. Un gruppo per sopravvivere ha bisogno di una identità piuttosto forte e va a cercare all’esterno ciò che rinforza quell’identità per cui utilizza il mondo come uno specchio e per me era diventata una prigione.

Per un annetto ho preparato l’Accademia: trovare un po’ di fondi, vedere chi voleva farne parte, scrivere uno statuto, cercare la forma associativa perfetta che non esiste: non puoi essere una associazione europea. E adesso che l’Accademia è composta siamo una nuvola, non temporalesca, una bella nuvola di persone con grande esperienza teatrale e capacità relazione o molto giovani di grande talento, anche da altri paesi.

Va avanti al Metastasio di Prato il progetto Da Vivi. Il miracolo della finitezza e Gli assetati che abbiamo iniziato nel 2022 a Pontedera. Sia a Prato che a Pontedera sono state coinvolte le istituzioni, per esempio, l’Asl, gli assessorati alla Cultura e alla Sanità. Questo corrisponde a una visione probabilmente utopica del futuro dell’Europa che penso sia legato a nuove forme di integrazione fra ciò che è messo in atto da cittadini e cittadine senza un interesse materiale diretto e i servizi dello Stato per arrivare a vivere ciò che è pubblico in una maniera che ancora non abbiamo.

Hai citato il potere che viene dall’essere uomo. Le donne?

Mi viene in mente Felicita Marcelli con cui ho avuto la fortuna di lavorare dal 2007 e i suoi gemelli che hanno nove mesi. Anche suo marito Jorge è nell’Accademia. L’avvenimento di una nascita deve avere il suo posto nell’attività professionale artistica e abbiamo cercato di fare in modo che loro potessero davvero prendersi cura di questi piccolini perché se si lavora in teatro si deve pensare al futuro e quale futuro è più concreto di due piccolini? Tutte le volte che possono Felicita e Jorge sono a teatro con i bimbi che stanno nella sala prove e non disturbano, hanno un loro modo di partecipare. A volte c’è una baby-sitter.

Ecco, se hai bisogno di una baby-sitter l’Accademia dovrebbe pagarla. Ancora non possiamo e cerchiamo altre soluzioni, ma ci dovrebbe essere una legislazione. In altri paesi si chiama democrazia riproduttiva, è brutta come definizione e si può anche eliminare, ma lasciamo i territori di discussione, di pensiero. Dovrebbe esserci anche un congedo per lutto di tre, quattro settimane, pagato dall’INPS: adesso ti danno tre giorni. Offensivo.

Le donne… Se una donna mi dice: “Mi sono sentita discriminata da una cosa che hai detto, non hai fatto, non hai detto”. Io non posso dire che non è vero. E non posso neanche capire di cosa sta parlando. Non sono impermeabile, ma non so di quale esperienza stia parlando. Come una persona che non è bianca, le succede tutti i giorni, per anni, di essere discriminata. Me lo deve spiegare e non capisco: ascoltare è una cosa, sentire non dipende da un atto di volontà.

All’Accademia facciamo esperimenti e spesso ci troviamo in situazioni caotiche, stiamo cercando modus operandi. Un altro punto per me importante: come dobbiamo passare il tempo? Di solito il regista deve far sì che qualcosa, si dice in gergo, funzioni. Sto cercando di ricalibrare questo pensiero perché mi accorgo che coloro che incontro alla domanda come stai? Rispondono: “Sto bene, ma sono stanco, ma sono stressato, troppo occupato”. Come se la nostra vita fosse in uno stato continuo di iper attività, iper produttività.

È così che voglio passare il tempo con altri esseri umani che come me moriranno? O questo spazio può essere un luogo in cui impariamo gli uni dalle altre, le une dagli altri, per far sì che il giorno dopo si stia meglio? Invece di pensare a ciò che funziona, penso a come creare uno spazio dove vivere senza quei crampi continui. Non in privato, ma in pubblico.

L’anti-cuccia.

Brava. Hanna Arendt in L’umanità in tempi bui scrive che in epoche oscure la tendenza dell’intellettuale e dell’artista e di chiunque è di entrare nel mondo dei pensieri e dell’emozioni, in privato. Può avere un certo valore ma, secondo me, il dovere è quello dell’azione pubblica. Accade in queste assemblee sul tabù della morte di Da Vivi. Il miracolo della finitezza: pochi partecipanti parlano di cose tristi, ma dentro di me percepisco che si apre qualcosa. Come quando ascolti un concerto molto bello e tutto si… decrampa (ride).

Voce del verbo decrampare. Per concludere l’intervista incompiuta, sei consapevole della tua gentilezza?

Sulla gentilezza ho la sindrome dell’impostore. È che io non sono sempre gentile e non sono stato sempre gentile. Il mondo teatrale e la società in cui sono cresciuto legittimano l’aggressività e la violenza in certi campi: per cui il regista può fare quello che vuole. Non possiamo far più finta che vada bene e sia una roba dell’arte.

Penso di aver ricevuto una buona educazione e per quello che riguarda la gentilezza nasce dalla curiosità che crea delle sfumature e rende attenti. Io faccio spesso un esempio: se dai una manata forte con la mano destra sul tavolo subito dopo avverti un formicolio, quando tocchi una superficie senza mettere forza senti la superficie. Quando applichi la forza in qualsiasi ambito percepisci te stesso in maniera molto grossolana, quando non applichi forza percepisci te stesso nel mondo. Provo a cambiare, a non applicare forza. Ho imparato tanto dalla mia compagna Jenny (Jennifer Humphrey n.d.r.) che è davvero una persona gentile, saggia. E ho imparato dalla mia malattia. Sono bipolare.

Da quanto lo sai?

Da 15 anni. C’è stata una fase in cui sono stato molto male, ma nessuno se n’è accorto. Stai male e ti sembra che tutti dovrebbero accorgersene. Può succedere un accesso di rabbia e miei colleghi pensavano: Mario è così.

Jenny invece se n’è accorta. Ho cominciato a prendere farmaci e li prendo tuttora. Facendo parte del Workcenter, del Teatro della Toscana avevo la sensazione di non poterlo dire, tutti gli psichiatri ti consigliano di tacere, soprattutto sul posto di lavoro. Però se parlavo in pubblico avrei voluto dire: “Vi sembro una persona intelligente, anche interessante? Lo sapete che sono bipolare?”. E mi sentivo in colpa perché non lo facevo. Perché io ho accesso ai migliori psichiatri, alle migliori medicine, ho una famiglia e una compagna che mi capiscono e sostengono, la maggior parte della gente no. Per cui da quando c’è l’Accademia ne parlo più che posso anche per attuare una riforma del linguaggio.

Se è sbagliato dire una parola, non mi toglie niente cancellarla, non diminuisce il mio vocabolario anzi mi spinge a usare altre espressioni. Se qualcuno dice “il tal politico è schizofrenico, è bipolare”. Io rispondo: “No, è corrotto”. Si usa matto da legare. Siamo sicuri che è matto e che se fosse matto sarebbe da legare?

Eppure, sfuggono anche a noi uscite del genere.

A me di continuo. Siamo incatenati.

Matti da legare.