È ormai nota la mia passione e il mio ‘militare’ nel mondo dei cortometraggi, da lungo tempo ormai. Li amo molto, perché sono chiari, concisi, incisivi, spesso geniali, e mirano direttamente al cuore e alla mente. E poi sono, sempre di più, il prezioso trampolino di lancio per giovani autori senza troppi santi in paradiso.
La nascita del cinema coincide con l’uscita del film La sortie des usines dei fratelli Lumière, il 22 marzo 1895, di una durata di 49 secondi, anche se alcuni storici indicano che il primo film presentato al pubblico daterebbe piuttosto 1891, il Dickson Greeting - un piano fisso di 10 secondi - di Laurie Dickson, l’assistente di Thomas Edison che aveva ideato il cinetoscopio (un dispositivo destinato però solo alla visualizzazione individuale).
Resta il fatto che la breve durata caratterizzava il cinema degli esordi. Breve sarebbe stato fino agli anni Trenta. Oggi il cortometraggio - definizione e minutaggio variano da Paese a Paese - riprende quell’origine lontana ma resta ancora un prodotto relegato a festival dedicati e specializzati, tranne piccole eccezioni su alcune piattaforme.
Quello che è certo è che non si può giudicare un film dalla durata. Resta però il fatto che i cortometraggi parlano anche a un pubblico giovane e distratto da tanti stimoli, spesso in deficit di concentrazione e abituato a messaggi sintetici e rapidi. Parlare di fenomeni sociali anche preoccupanti in un lasso di tempo breve può aiutare molto anche la comunicazione più istituzionale e accompagnarla laddove non arriva.
Oggi vogliamo presentare un interessante corto che denuncia un fenomeno sociale in preoccupante dilagare, l’“effetto spettatore”. Detto anche bystander effect o bystander apathy, “apatia dello spettatore”, “effetto testimone” o “sindrome del cattivo samaritano”, si tratta di un fenomeno della psicologia sociale che si riferisce ai casi in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà, in una situazione d'emergenza, quando sono presenti anche altre persone che assistono alla stessa scena. In altre parole, vera indifferenza, dettata spesso anche dalla paura delle reazioni degli altri.
La probabilità dell’aiuto è inversamente correlata al numero degli spettatori: maggiore è il numero degli spettatori, minore è la probabilità che qualcuno di loro aiuterà e interverrà.
Furono John Darley e Bibb Latané, nel 1968, ad approfondire il fenomeno, studiando l’omicidio di Kitty Genovese avvenuto nel 1964, una donna accoltellata a morte nei pressi della sua casa nel quartiere di Kew Gardens a New York. I ricercatori effettuarono una serie di esperimenti, fra questo uno in particolare. Il partecipante è da solo o in un gruppo di altri partecipanti o alleati. Viene inscenata una situazione di emergenza e i ricercatori misurano quanto tempo occorre perché i partecipanti intervengano, se intervengono.
Questi esperimenti hanno trovato che la presenza di altri inibisce l’aiuto, spesso di un largo margine. Le persone presumono, infatti, che vada tutto bene solo perché altre persone presenti non dimostrano di percepire alcunché di strano (quindi non vi è vera emergenza e il tempo di reazione varia anche in base alla norma sociale di ciò che è considerato etichetta ben educata in pubblico); vi è poi una diminuzione del senso di responsabilità avvertito da ciascun individuo quando sono presenti altri potenziali soccorritori. Anche l’ambiguità è un fattore che influenza se assistere o meno qualcuno che ha bisogno. Nelle situazioni in cui lo spettatore non è sicuro se una persona richieda assistenza, il tempo di reazione è lento. Nelle situazioni a bassa ambiguità (una persona che grida aiuto) il tempo di reazione è più rapido che nelle situazioni ad alta ambiguità.
Nella cronaca recente, abbiamo assistito a molti casi di bystander effect. Per tutti basti ricordare la tragedia dell’agosto 2017 di Niccolò Ciatti, un ragazzo toscano pestato a morte in una discoteca di Lloret de Mar, in Spagna. Coinvolto in una rissa, nel cuore della notte, per motivi ignoti. Dai racconti nessuno va in suo aiuto. Qualcosa paralizza tutti.
Il professore di psicologia Antonio Andrés Pueyo, interpellato all’epoca, ha fatto riferimento alla dissoluzione della responsabilità: ognuno delega all’altro l’intervento, creando di fatto immobilismo. Vi è anche apatia sociale, grave mancanza di empatia, frutto di paura, ma anche dei modelli educativi che stiamo perpetrando, assolutamente da rivedere.
A parlare di questo crescente e inquietante fenomeno, dicevamo, un corto animato di circa 6 minuti della giovane regista italiana Elena Felici, realizzato in collaborazione con l’Animation Workshop del danese VIA University College di Viborg, dal titolo Busline35A. Reso disponibile il 25 novembre dello scorso anno, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
Busline35A from BusLine35A on Vimeo.
Al centro della storia una ragazzina timida che frequenta le scuole medie e ama la musica che torna a casa, su un bus serale/notturno, seduta in fondo, come spesso avviene. Chissà perché, ma molti giovani studenti amano sedersi in coda… A una delle fermate un uomo dal fare losco sale e si siede vicino alla giovane donna, iniziando a infastidirla, a molestarla verbalmente e non solo. Ansia. Ansia che cresce.
Sullo stesso bus, a pochi sedili di distanza, sono presenti altre tre persone, i veri protagonisti silenziosi del film (non dell’azione). Una signora anziana dal fazzoletto rosso legato sotto il collo e la giacca pesante, con le polpette un po' troppo salate preparate per il figlio che nota come i sedili del bus non siamo i soliti, un vecchio signore che ha appena acquistato la bici elettrica per andare anche in montagna, con una riga di sangue sulla fronte che lo fa assomigliare a Clint Eastwood e, infine, una donna di mezza età che ha perso il lavoro qualche settimana prima, licenziata per un “comportamento poco professionale”. Sospira. Pensa a Giovanna d’Arco. Le donne della storia che hanno avuto coraggio non hanno fatto una bella fine. Essere eroi, pensa, non ripaga affatto.
Ognuno pensa a sé, ai suoi problemi, alle sue piccole grane quotidiane, ognuno sente bene i commenti dell’uomo verso la ragazzina, ma tutti restano impassibili, come se non ci fossero né loro né quella scolaretta indifesa. Ciascuno è immerso nei suoi pensieri che risuonano ad alta voce, quasi a giustificare la loro inerzia e, dunque, alla fine, complicità.
Fino allo scampato pericolo, che avviene per puro caso. Solo perché il molestatore demorde. Non certo grazie all’intervento tempestivo di chicchessia.
Forte il contrasto fra quanto avviene in fondo al bus e le piccole e banali storie quotidiane dei complici silenti, spaventa molto questa vera paralisi collettiva.
La paura di trovarsi in situazione analoga.
E poi sorge la fatidica domanda, quella che ci facciamo tutti: se fosse toccato a noi, cosa avremmo fatto?