Seppur El Clasico tra Real Madrid e Barcellona sia riconosciuto come il derby spagnolo più noto al mondo, c’è una stracittadina che trascende il numero di trofei vinti ed affonda le sue origini nella storia sociale e nella cultura andalusa sin dalla fine del XIX secolo.
Siamo a Siviglia, dove la temperatura arriva frequentemente oltre i 40° gradi, specie nel periodo estivo. Eppure la città diventa davvero bollente due giorni all’anno, in occasione dell’andata e del ritorno de El Gran Derbi. La capitale andalusa non ospita semplicemente due squadre, Siviglia e Real Betis Balompié, bensì due modi di essere, due storie, due culture differenti di chi ha vissuto e vive l’Andalusia.
Dalla fine dell’800 all’inizio del secolo successivo, la culla calcistica andalusa alleva due sorelle: la prima, il Siviglia, nasce nel 1890 da un gruppo di immigrati inglesi, esportatori di thè, spezie e nuovi curiosi sport, tra cui il calcio. Diciassette anni dopo nel 1907 la seconda sorella, il Betis, nasce dal dissenso di chi non accetta che coloro che meritano di indossare la gloriosa camiseta del Siviglia debbano esclusivamente appartenere all’aristocrazia spagnola. Da un trasferimento mancato di un giovane operaio talentuoso che svanisce nella discriminazione sociale, nasce il Betis Balompié. Un nome che esalta in maniera duplice le origini spagnole del club: Betis è il nome latino che assegnarono gli antichi romani al fiume che attraversa Siviglia, il Guadalquivir. Ed infine Balompié, termine arcaico spagnolo, dove balón non è altro che il pallone e il pie il piede. È evidente che in casa Betis preferiscono evitare di chiamarlo football, specie se si considerano le origini britanniche della sgradevole sorella primogenita.
Entrambe scelgono di vestirsi di bianco, ma se il Siviglia sceglie il rosso per accostarlo, il Betis opta per il verde riprendendo i colori della bandiera dell’Andalusia: El Gran Derbi è la conferma del paradosso di chi si odia perché troppo simile. Dal 1941, alla più piccola Betis le viene anteposto l’appellativo di Real per concessione di Re Alfonso XIII di Spagna, la cui corona compare tutt’ora nello stemma betico. Una scelta, quella del monarca spagnolo, per nulla condivisa dall’anima di estrazione più nobile della tifoseria sivigliana. Seppur le divergenze sociali non sussistano di fatto nella Siviglia contemporanea, la natura aristocratica biancorossa vive tutt’oggi nel proprio stadio, il Ramón Sánchez Pizjuán, collocato non casualmente nel Nervión, quartiere più benestante ed economicamente rilevante della capitale andalusa. Allo stesso modo, la zona periferica di Heliopolis, abitata agli inizi del ‘900 dalla classe operaia, ospita dal 1929 il Benito Villamarín, tana storica del Betis.
A distanza di un più di un secolo dalla propria fondazione, il diverso palmares delle due squadre crea un divario notevole nella storia dei due club: se il Siviglia tiene particolarmente a presentarsi come club andaluso più titolato e vanta persino in campo internazionale ben sette Europa League, il motto tra i tifosi verdiblanco è “¡viva il Betis, manque pierda!”, ossia “viva il Betis, anche se perde!”. Tutt’oggi l’ostilità è viscerale al punto che alcuni tifosi biancoverdi non nominano la propria città per evitare di menzionare l’acerrima rivale, preferendo “la ciudad del Betis” (la città del Betis).
Se quasi la totalità della fan base sevillista vive proprio a Siviglia, si possono invece incontrare diversi tifosi del Betis un po’ in tutta la penisola iberica. Quando negli anni ’50 la dittatura di Franco impose una massiccia industrializzazione della Catalogna e dei Paesi Baschi, numerosi operai si trasferirono lì per lavorare, tramandando la passione per il Betis alle generazioni successive e contribuendo alla fama del derby di Siviglia in tutta la Spagna.
Siviglia non ha accolto e verosimilmente non accoglierà il derby con più trofei, campioni o tifosi, ma rimane da sempre incastonato nella cultura sociale spagnola al punto dall’essere ancora riconosciuto come una grande partita: El Gran Derbi.