“Gli italiani perdono partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”. Così Winston Churchill offrì una delle frasi più iconiche su come alcuni popoli intendono il calcio, vivendolo religiosamente e visceralmente. Saranno forse i moti migratori di moltissimi speranzosi italiani tra il 1880 ed il 1930 in Sudamerica o sarà la condivisa indole sportiva, ma la medesima frase non farebbe scalpore se fosse riportato “brasiliani” anziché italiani.
Il popolo verdeoro non si pone nemmeno la fatica di nasconderlo: “Maracanazo: a nossa Hiroshima” (“la nostra Hiroshima”) è il titolo che il giornalista Nelson Rodrigues sceglie per sintetizzare la tragedia sportiva della finale Brasile-Uruguay risalente al Mondiale 1950. Un titolo iperbolico che forse oggi sarebbe considerato infelice e irrispettoso nei confronti del disastro giapponese, tuttavia calzante per il sentimento collettivo brasiliano post finale.
Il risultato dice 2-1 in rimonta per l’Uruguay, con centinaia tra suicidi e malori registrati, pur con i limiti dell’inesattezza statistica dell’epoca. Per un tifoso non c’è nulla di peggio che di perdere con gli storici rivali, a maggior ragione quando la vittoria sembra inevitabile: in effetti per tutta la durata del torneo la superstizione non trova terreno fertile in Brasile, con le maglie celebrative “Brasile campione” che riempiono e colorano Rio de Janeiro. Persino l’attaccante uruguaiano Obdulio Varela nel post partita ammette: “Sarebbe stato bello vedere le persone festeggiare per strada il Carnevale. Avevamo rovinato tutto”.
Eppure, il Mondiale 1950 non era cominciato benissimo per il Brasile, per lo più relativamente al lato organizzativo che calcistico. L’allestimento del primo mondiale post Seconda Guerra Mondiale non poteva essere consegnato a un’Europa in ginocchio e in cenere, motivo per cui viene affidato al Brasile.
Le prime difficoltà non tardano a manifestarsi: il Mondiale è inizialmente previsto per il ’49 ma viene successivamente rinviato all’anno successivo per completare i lavori di costruzione del Maracanà, storico stadio di Rio de Janerio. A dire il vero, lo stadio non risulta del tutto pronto nemmeno nel 1950, con un tubo fuoriuscente che ferisce un giocatore jugoslavo nella partita d’esordio. Francia, Inghilterra e Portogallo scelgono di disertare la competizione per dissapori con la Federcalcio brasiliana e l’India si ritira a pochi giorni dall’esordio perché il regolamento impedisce ai suoi giocatori di giocare scalzi come da loro tradizione.
La vera anti-Brasile appare quindi la vincitrice uscente Italia, ma la tragedia di Superga e i dolorosi postumi post conflitto non restituiscono una nazionale forte come prima. Tra i contendenti accreditati, c’è anche l’ Uruguay con un palmares non indifferente: Mondiale ’30, otto Copa America e due medaglie d’oro alle Olimpiadi del ’28 e del ’34. Eppure gli uruguaiani vengono fatalmente snobbati da media e tifosi locali.
L’iter della Seleção è stato così semplice a tal punto che a Rio De Janeiro è già pronta la festa per quello che sarebbe potuto diventare il primissimo Mondiale vinto dal Brasile. Per i verdeoro l’occasione appare troppo ghiotta e la stampa, che vive l’umore del popolo, non si tira indietro: “Ecco a voi i campioni” intitola il quotidiano El Mundo con la foto della Seleção alla vigilia della finale. Persino la Federcalcio brasiliana cade nel tranello più grande della sorte, regalandolo anticipatamente orologi di estremo valore a ogni giocatore della rosa.
Se il concetto del volgare quanto efficace termine “gufata” esiste, è anche grazie a tali eventi di hybris -la tracotanza che puniva gli eroi greci- di proporzioni indefinite. Il trauma calcistico, seppur a distanza di anni, vive tutt’ora: in quella fatale finale, il Brasile scende in campo con maglia bianca e pantaloncini blu; una divisa che non verrà mai più indossata dalla Nazionale.
Il Brasile è ad oggi la nazionale con più Mondiali vinti, ben 5. Un’ulteriore dimostrazione che da precedenti fallimenti possono solo nascere grandi successivi trionfi.