Ormai ero solito andare sulla spiaggia solitaria, d’estate, coltivando l’hobby di non far nulla e senza la minima voglia di muovere un passo per una vita migliore. La spiaggia è spoglia, vuota e rovinata. La sabbia non è dorata, risente del mio passaggio, della penna con cui sto scrivendo e la sigaretta che sto fumando che evito di buttare a terra per rispetto di questo luogo, a modo suo, accogliente. Sempre tutto uguale a partire dall’oscillare delle piccole onde. Tutto sembra non saper cambiare e io lì solo, ad assecondare la stasi, scrivendo di tanto in tanto messaggi al mare in bottiglie di vetro regalate alla corrente. Non lasciavo solo messaggi, alcuni giorni più ispirati scrivevo racconti e piccole storie. Ad esempio L’uomo può volare: la storia di un ragazzo che sapeva volare ma essendo l’unico al mondo a saperlo fare quando andava su non c’era mai nessuno; restava solo. Aveva ossa leggere e cave come gli uccelli, non era in grado di sostenere il peso di un’altra persona, quindi saliva in cielo e non portava mai nessuno con sé. Il ragazzo si uccise sperando di trovare gente come lui in paradiso, ma finì all’inferno per aver messo prematuramente fine alla sua vita.
Da giovane credevo nella possibilità di rialzarsi, ricominciare anche dopo la più grande sconfitta. Non mettevo mai un vero e proprio punto, era tutto un susseguirsi estenuante di virgole con brevi pause e ripetizioni. Ora invece sono qui ad ascoltare le onde del mare e farmi accarezzare dalla brezza. Lascio andare le mie storie cullate dalla corrente. A volte sento come se stessi scrivendo una biografia a puntate, come se scrivessi la serie più lunga e inconcludente del mondo, senza un fan che aspetti l’evento successivo. Non è cambiato niente finché ho creduto che non potesse. La verità è che avrei continuato a ignorare il finale di questa storia se non fosse che ho da sempre la strana tradizione di comprare il giornale nel giorno del mio compleanno; lo faccio per vedere cosa accade nel mondo in quel giorno così anonimo e al contempo speciale per me, quel giorno di mezza estate, così caldo, tanto caldo a volte da farti desiderare solamente una spiaggia deserta con un po’ di brezza marina. Soddisfo quel lato di me che tende a scappare, che ho sempre cercato di evitare, forse lo stesso che mi ha spinto a trasferirmi in questo piccolo paesino di mare quando tutto era perduto, l’ultimo capitolo, una spiaggia deserta come ultima spiaggia della mia vita.
Ero solito prendere più di un quotidiano per avere una visione più ampia di quella giornata. Quel giorno comprai anche il giornale locale, non so cosa speravo di trovarci, ma forse se l’ho fatto è stato perché ho abbandonato almeno per un secondo quella visione del nulla che mi portavo dietro e simultaneamente rincorrevo. L’ho fatto per lasciarmi stupire, ancora una volta, dall’inaspettato. Come una qualsiasi sorpresa che sia ben fatta non si annuncia, nelle ultime pagine trovai un piccolo inserto non firmato intitolato” "il racconto di oggi”. Iniziai a leggerlo incuriosito, ma lo stupore si spense dopo le prime righe e mutò via via col proseguire del breve testo. Riconobbi la penna, quel velo di delusione e il forte senso d’imbarazzo e critica che mi avvolgevano ogni volta che mi rileggevo: era un mio racconto. Uno di quelli imbottigliati e lasciati al mare che avevo visto andare via lentamente come speranza che sfuma piano dalla mente. Non avevo idea di come potesse essere finito sul quotidiano locale, sembrava uno scherzo. L’avevo abbandonato ed era tornato a me sotto una nuova veste. Erano anni che non percepivo lo stimolo e la voglia di andare alla ricerca di qualcosa ma improvvisamente, in quel momento, ero convinto. Il mare aveva spinto il mio stesso racconto di nuovo verso di me. Un motivo doveva esserci. Era un caso, è vero, ma non volevo lasciare tutto nelle mani del fato, non volevo mollare tutto alla casualità e mi misi subito alla ricerca. In un paesino di mare non era difficile trovare qualcuno, avevo tempo di chiedere ad ogni abitante.
Non trovai grandi risposte nei giorni a venire. Non c’era una traccia definita o una pista da seguire ma non volevo arrendermi, avevo buttato tanto di quel tempo in vita mia che quello di questi giorni sembrò davvero un investimento e non uno spreco. Questo episodio era il primo di tutta la serie che mi spingeva e scuoteva la mia ferma vita su quella spiaggia. La tranquillità delle piccole case bianche, il mattonato sconnesso, una sobrietà che avevo ignorato per una vita intera che ora quasi riuscivo a percepire come casa. Quell’inconfondibile odore di mare che le persone si portavano addosso mi fece rivalutare quel posto, lo guardai sotto una luce diversa. L’avevo sempre e solo considerato un rifugio dal mondo ma in fondo non era così male per una vita serena. Alcuni ragazzini giocavano a calcio in uno spiazzo, la porta era un muro segnato coi gessetti. Stoppai in malo modo un pallone di rimbalzo, due palleggi scoordinati suscitarono qualche risata dei ragazzi che, nonostante ciò, m’invitarono a giocare con loro. Potevo rimandare le mie ricerche a più tardi. Tra colpi di tacco, esultanze e sorrisi sotto il sole cocente mi dimenticai lo scorrere del tempo, un po’ come quando scrivevo le mie storie. L’abbigliamento non era adeguato ma con qualche modifica ero sul pezzo. Via la giacca, su le maniche della camicia bianca e pantaloni altezza ginocchio ed ero pronto per graffi e sbucciature dell’infanzia, le uniche ferite che riaffiorano piacevolmente. Scoccò l’ora di pranzo quando la madre di uno dei ragazzini scese a decretare il fischio finale. Mi sorrise e fece una battuta sul sentirsi giovane. Salutai e raccolsi la mia giacca e le cose da terra, tra cui il giornale aperto sulla pagina del racconto. Chiamai velocemente la donna prima che rientrasse in casa per chiederle se sapesse qualcosa. Invece delle solite risposte vaghe che avevo ricevuto finora mi disse di provare al porto dove c’era una donna che riuniva spesso delle persone per raccontare storie provenienti dal mare.
Al porto passeggiai invano finché non catturò la mia attenzione un semicerchio di ragazzi seduti davanti ad una donna che parlava. Mi avvicinai nel modo più garbato possibile per ascoltare e riconobbi immediatamente quelle parole: stava raccontando proprio il mio racconto L’ uomo può volar. Ascoltai con pizzico d’orgoglio le sue parole, i ragazzi sembravano catturati e devo dire che sperai non fosse solo per la bellezza e il coinvolgimento che metteva il narratore. Aspettai che i ragazzi andassero via e mi avvicinai alla donna. Era vestita con un leggero abito a tema floreale e aveva i capelli ricci raccolti dietro in maniera compita.
«Storia affascinante» le dissi.
«Trova anche lei?», rispose, «è una delle mie preferite anche se un po’ triste».
«È così che va la vita molto spesso, non c’è sempre un lieto fine».
«Ha ragione, ma c’è sempre una scelta».
«Da tempo ormai non ne sono più così sicuro» conclusi un po’ amareggiato.
Mi guardò negli occhi come se cercasse di entrarmi dentro e mi chiese:
«Sa perché racconto queste storie ai ragazzi?».
La guardai senza rispondere. Non ne vedevo il motivo perché in fondo non credevo davvero che le mie storie potessero arrivare a qualcuno, figuriamoci servire ad uno scopo.
Lei riprese:
«Per far capire loro che c’è sempre una scelta e magari far capire che si può imparare dagli errori degli altri».
«L’uomo di questa storia non aveva scelta».
«Si sbaglia, l’uomo di questa storia ha scelto di uccidersi piuttosto che provare con ogni mezzo a rendere il suo potere una risorsa per far del bene: è vero, era solo su in cielo e forse non avrebbe mai potuto portare qualcuno con sé, ma è stato egoista e non ha pensato nemmeno per un secondo ad una alternativa. Non è vero che non aveva scelta, ha scelto di essere egoista ed è stato punito per questo» rispose lei fermamente convinta. Le sue parole mi colpirono più di quanto diedi a vedere. Rimasi impassibile per alcuni eterni secondi.
«Dove ha sentito questa storia?» le chiesi.
«Me l’ha portata il mare, come tutte le altre e come tutto ciò che mi ha cresciuta nella vita» rispose lei.
«E lei ha mai risposto al mare?».
«Ogni giorno quando racconto queste storie ai ragazzi o le mando al quotidiano locale, sto rispondendo, faccio sì che queste parole e questi insegnamenti non vadano mai sprecati», rispose, «avendone la possibilità, lei non farebbe lo stesso?».