Un amore accogliente, disinteressato, generoso,
a volte silenzioso, a volte coraggioso.
Sempre smisurato.
Questo è l’amore dei genitori verso un figlio.(Fabrizio Caramagna)
Caro figlio mio, chi sono io per te? Chi sei tu per me? Siamo lo stesso sangue ma soprattutto siamo parole di vita. Quando la mia serenità volge al tramonto, sigillo le parole nel Vaso di Pandora, oppure le viviseziono e la parte peggiore di me sfocia in quella migliore. Davide, ti lascerò scatole piene di quaderni e fogli. Parole, di realtà e desideri, di sogni e mondi fantastici in cui ho portato ogni evento della mia vita a rivivere sulla carta. Ho il terrore che i ricordi diventino ciechi, la bocca esiliata su un'isola deserta e che le parole muoiano, tra il galoppare e il frantumarsi di stelle comete. Con te le mie parole vivono sulle montagne russe, mi tolgono il respiro, mentre, su spiagge vuote, si arenano a cercare riparo in una conchiglia. Ma non esiste una metamorfosi per ridare speranza ai granelli della mia clessidra che volgono al termine. All’improvviso non scorreranno più, fermandosi tra la terra e il mondo di sopra.
Ti amo figlio mio.
Roma, dicembre 1997.
“Avvocato De Santis, volevamo tutti bene a sua madre, prima e…anche dopo”. All’esitazione di quell’ultima frase, risposi con un velato sorriso. Nel tragitto, dal carcere alla macchina, pensai a mamma, ai suoi corsi di scrittura a Rebibbia, ai libri che portava: un picnic letterario, una farmacia ambulante per l’anima. Ripeteva che dalla vita aveva avuto tutto: fino all’abbandono di papà. Con la vita a brandelli, col bisogno di ricucirsi, trovò il suo filo d’oro, nel volontariato, tra le donne prive di libertà. Instillava gioiosità, calma, mentre dentro aveva una catastrofe.
A casa, mi buttai sul letto e il soffitto, come lo schermo di un cinema, trasmise la tragedia. Trovata con un coltello tra le mani, mamma aveva ucciso una secondina: stava violentando, con una bottiglia, Nehanda, portata in infermeria, sotto choc. Nehanda uscì dal carcere in un’alba invernale e riabbracciò suo figlio, in affido temporaneo; fino all’età di tre anni, aveva vissuto in carcere con lei.
Andai in cucina. La rivedo che mi racconta qualche storia, come quella di Nehanda, ad esempio, che stava scontando in carcere l'amore per Jack, suo compagno e padre del bambino. In un ufficio postale, si era trovata ostaggio di un rapinatore a mano armata. Era Jack. Troppo tardi. Se non avesse acconsentito alla finta, Jack avrebbe ucciso lei e il bambino che aveva in grembo. “Povera ragazza” - mi disse, con gli occhi bassi, impotenti e tristi. A lui pallottole nella sparatoria, a lei qualche anno per complicità.
Mi feci una doccia, le assordanti parole della sentenza echeggiarono nei pensieri, isolate dalla schiuma nelle orecchie. “…la corte condanna Cammarata Beatrice a venti anni di carcere”. L’aguzzina aveva avuto quel che meritava, ma era morta per mano di mamma, con quel coltello, che, un attimo prima era puntato alla gola della ragazza per non farla urlare. Forse anche altre ragazze prima di lei.
Seppi che Nehanda, andava a trovarla due volte l’anno, dalla Sicilia. Le portava un mazzolino di giacinti, glicini e violette, che mamma essiccava tra i libri.
Antonio, il mio psicologo, sa che non accetterò mai il gesto di mamma, non lo ritengo un suo gesto. Sa anche che mi sento un fallito, per non essere riuscito a dimostrarlo.
Prima che potessi, ancora una volta maledirmi, squillò il telefono. “Sono Manuel, il figlio di Nehanda, possiamo incontrarci?”
Mi invase un diluvio universale, salvezza o distruzione? Ci incontrammo in un bar alla periferia di Roma. “Signor Davide, il quindici dicembre mia madre è morta in un incidente stradale, tra l’aeroporto di Fiumicino e Rebibbia. Andava in visita a Bea”.
Fu una voce di samurai. Entrambe non fecero in tempo a sapere della disgrazia dell’altra perché erano morte lo stesso giorno. Mamma con un infarto.
“Sono stato chiamato dal notaio per una lettera e voglio condividerla con lei”. “Manuel, sono una vigliacca. Ho accettato che Bea pagasse al posto mio per quell’ omicidio, in un muto patto tra amiche. Confessò per farmi uscire dal carcere e crescere te. Davide era adulto, indipendente e forte. Come lei. Non me lo perdonerò mai. Se puoi, fallo tu per me, e che mi perdoni anche Davide. Ditelo con un fiore, come facevo io con Bea. Con amore, tua madre”.
Calò il gelo e cristallizzò pure il sole. Per la prima volta mamma non aveva trascritto un evento su carta, per far fede a un accordo silenzioso. Nel rumore di lacrime terremotate, adesso ero io a non avere parole, a non trovare il perdono. Per Nehanda, per mamma e per me che non ho saputo dimostrare quel presentimento atroce, in cuor mio da sempre. Abbraccio Manuel. Vado al cimitero, ho bisogno di silenti carezze che coprano il clamore di lividi, ormai fantasmi, ma ancora presenti.
I figli, come i libri, sono viaggi all’interno di noi stessi.
(Isabel Allende)