Ho sognato Knulp l’altra notte. Stava seduto sulla riva del mare, di un mare di città, della mia città. Dicevano che stava lì da più di cento anni. Ma io non lo avevo mai incontrato, non ne avevo mai sentito parlare. Ero stato bambino ed ero cresciuto senza sapere che lui esisteva. Non faceva nessun tipo di movimento. Ci si poteva accorgere a malapena che respirasse. Il mio pensiero era solo uno. Se fosse stato reale, se fosse esistito davvero, insomma, una persona che da cento anni vive in riva al mare, i miei genitori mi avrebbero accompagnato per poterlo vedere. Ci sarebbero stati pellegrinaggi e gite con il pranzo al sacco. Nel mio quartiere le gite fuori porta si organizzavano per molto meno. E il pranzo al sacco non poteva mancare. Ma nel mio quartiere, invece, la voce della presenza di Knulp non era arrivata.

Dallo stabilimento, una fila variegata di persone, una fila che arrivava fino alle saline e oltre, sembrava perdersi all’orizzonte e muoversi come un serpente in cerca della tana. Nello stabilimento, alcuni bagnanti facevano finta di niente. Raggiungevano cabine e spogliatoi passando attraverso le persone che stavano ad aspettare. Qualcuno riceveva una spallata, qualcuno un calcio negli stinchi. Nessuno però osava muoversi, nessuno aggrediva chi stava in fila per Knulp. Il nervosismo era palpabile, ma nessun gesto ostile si trasformava in palese violenza. Era più che altro un fastidio. Un signore con le spalle squadrate era uscito da una cabina, indossava un boxer da mare a righe. Aveva la schiena bianca e pelosa, fece alcuni esercizi sul posto prima di dirigersi verso il mare. La fila gli impediva il passaggio e lui si buttò in mezzo con veemenza facendosi largo. Disse qualche brutta parola, poi si allontanò e sparì in acqua per una nuotata.

Il mio occhio non sarebbe arrivato a vedere la fine della fila nemmeno dopo molte vite. Era davvero lunga, migliaia di persone immobili aspettavano sotto il sole cocente che picchiava sulle loro teste. Erano lì per lui, per Knulp, tutte quante, avevano domande da porgli e aspettavano prima di ricevere udienza. Qualcuno aveva il figlio malato, qualcuno aveva perso il posto di lavoro. Qualcun altro voleva diventare ricco, non voleva più lavorare, voleva fare la bella vita, ma non aveva un piano. In molti volevano uscire dal giogo del lavoro e delle famiglie che avevano scelto troppo presto. Ora volevano andare avanti, ma non sapevano come. Mantenere i figli, mandarli a scuola, a giocare al calcio, in piscina, a lezione di inglese. Giravano in auto tutto il giorno, alternavano il lavoro alle attività dei figli. Stavano impazzendo.

Ma non sapevano che fare di diverso, come uscirne senza provare sensi di colpa. Intanto gli anni passavano, le forze diminuivano, non ricordavano più perché avevano cominciato a vivere in quel modo. Non sapevano davvero che pesci pigliare.

Knulp dava risposte senza muovere muscoli, senza aprire la bocca. Non mangiava mai, non beveva, non sentiva la luce, il calore del sole, il rumore del gioco marino. Eppure, in molti nella fila avevano doni e cibo e vestiti e liquori preziosi. I doni venivano accatastati in una pineta che era stata circoscritta. C’erano dei cartelli sui lavori che dovevano essere fatti per bonificarla prima dell’ennesima colata di cemento. I nastri di segnalazione erano stati tagliati ed erano finiti impolverati in terra. I cartelli erano stati imbrattati con scritte volgari di pennarello. I doni venivano sistemati sotto gli alberi. All’ombra. Non tutti portavano regali, alcuni erano lì per capre come risolvere i problemi economici della propria famiglia. Sul lastrico, indebitati, senza riuscire ad arrivare alla fine del mese. I più poveri erano autorizzati a prendere alcuni doni.

A dire il vero, erano diversi quelli che prendevano e poi lasciavano la fila. Si sentivano lamentele, voci di protesta. Neanche tra mille difficoltà queste persone riuscivano a trovare un punto d’accordo netto e inequivocabile.

I lineamenti del viso di Knulp erano contratti, mostravano sofferenza per l’attesa, per la fine delle sue abitudini, per la fine del suo vagabondare. Knulp, prima di questi cento anni di riflessione, era stato uno dei vagabondi più famosi del mondo. Avrebbe potuto scrivere decine di guide sull’argomento. Sarebbe potuto diventare ricco sfondato. Ma figurarsi se questo poteva mai essere il suo scopo nella vita. Quando hai una vita lunga e prospera devi aiutare gli altri. Dovresti aiutare gli altri anche quando hai una vita normale, anche quando non riesci ad aiutare te stesso. Sempre dovresti farlo, figurarsi quando sei una personalità come Knulp.

E, infatti, lui non ci aveva pensato due volte. A lui piaceva vagabondare, eppure aveva abbandonato la sua grande passione per aiutare il prossimo. E si trovava bloccato da cento anni in questa situazione che lui aveva scelto, ma che ora cominciava a pesargli. Come a quelli che avevano famiglia e lavoro e si sentivano in trappola e venivano da lui per chiedere consiglio. Lui stava lì solo per quelle risposte, per quelle persone che con dedizione avevano cura del posto in cui facevano la fila, in cui Knulp viveva, in cui tanti ospiti si fermavano per trovare l’illuminazione.

Dovetti proprio fare alcune riflessioni mentre me ne stavo in fila ad aspettare il mio turno. Mi ero accorto di avere bisogno del suo ordine. In quel periodo sentivo la mancanza di una guida e avevo perso la speranza. Perso la speranza per cosa? A dire la verità era il presente ad affliggermi. Mi muovevo tra decisioni e scelte in maniera casuale. Avevo di fronte a me un muro e non riuscivo a vedere oltre. Nessuna idea, ispirazione, progetto realistico. Il futuro era una nube tossica, ma il motivo era la mia indecisione del presente.

Ciò che mi aspettavo dal colloquio con Knulp era proprio una spiegazione. Perché non riuscivo a vedere oltre il muro? Perché non riuscivo a essere lucido e capire quali passi andavano fatti per il mio benessere e per la mia sicurezza? Poi mentre aspettavo e parlavo con altri poveri cristiani che facevano la fila con me, mi accorsi che non ero l’unico ad avere questi problemi. La maggior parte di loro non sapeva come andare avanti nella vita, non aveva un programma, non vedeva chiaramente il futuro. E questo valeva per chi era riuscito a crearsi una famiglia, così come per chi non aveva grandi responsabilità. Nessuno di loro, nessuno di noi, sapeva cosa fare della propria vita, come fare il passo successivo, come creare una esistenza dignitosa.

Vedere Knulp a pochi passi, averlo a disposizione, come un bene qualunque, un bene pubblico, mi aveva spinto a fare la fila e a perdere gli anni migliori della mia vita. Man mano che la fila procedeva, però, qualcosa incominciava a non funzionare. I conti non tornavano. Gran bello scherzetto. Dentro quella fila persi la mia giovinezza, persi la possibilità di avere dei figli o una moglie, persi la mia vecchiaia e vidi la mia barba cadere. E quando arrivò il mio turno, le mie domande non avevano più senso, erano obsolete, passate, inutili. Ma ormai era troppo tardi. Dentro quello stabilimento, un’intera generazione perse il suo tempo senza ricavarne nulla. Nessun tornaconto, nessuna lezione, nessuna scoperta. Non imparammo niente di niente.

La spiaggia era bellissima, la sabbia fina e profumata, il mare cristallino e limpido. Spiaggia e mare erano divenuti la ragione della nostra esistenza. In attesa, dentro la fila per poter incontrare Knulp e chiedere cosa sarebbe stato della nostra vita, la nostra vita passò.

Quando fu il mio turno, naturalmente, avevo dimenticato le domande che inizialmente mi ero ripromesso di porgli. Più che altro, queste avevano perso d’importanza. Knulp aveva occhi acquosi, li apriva solo una volta durante i colloqui, lì, avevamo la possibilità di osservarlo davvero. Per il resto teneva il mento basso, si poteva notare solo una leggera alopecia nel centro del cranio. Chiunque avesse fatto quella fila otteneva la stessa risposta. Knulp ci diceva che avevamo speso il nostro tempo per la nostra domanda e per la nostra risposta. Ora, non c’era nessuna domanda. E nessuna risposta. Per forza. Chi si sarebbe aspettato di spendere così tanto tempo allo stabilimento?

«Ne è valsa la pena? Avresti potuto impiegare il tuo tempo in modo migliore. E cosa sarebbe cambiato?»

Ma noi volevamo delle risposte, avevamo un feroce bisogno di risposte. Per quello non avevamo abbandonato la fila. Personalmente, avevo avuto più volte il sentore che il tempo stesse volando troppo velocemente. Ma avevo bisogno che qualcuno mi dicesse cosa fare. Da solo non sarei riuscito a convincermi che la direzione giusta era dentro di me e dovevo solo crederci. La mia generazione non era fatta così. Noi eravamo abituati a obbedire, a lavorare sodo sotto una guida sicura. Da soli, il nostro cammino diventava incerto, insicuro e privo di un traguardo finale.

Le persone in fila avevano continuato a fargli domande sulle cose più svariate, risolvendo i nodi delle loro infelicità. Ma con troppo ritardo. Finita la fila, ne uscivano felici e pronti a realizzare ogni sogno. Fino a quando si accorgevano che erano invecchiati, doloranti, privi di forza. In alcuni casi anche molto malati. Niente si poteva fare, perché il tempo era passato e lo avevamo sprecato. Allora dietro alla pineta piena ancora di regali che non erano stati toccati, si sentivano i pianti di coloro che erano usciti dalla fila. Piangevano perché non sopportavano il dolore fisico. Piangevano perché non si piacevano da vecchi. Piangevano per figli e mogli e morti che non potevano più vedere. Nemmeno per un’ultima volta. Piangevano perché avevano scoperto di essersi ammalati e non si erano curati per tempo. Il loro pianto era continuo, fastidioso, prolungato, sembrava la sirena di un faro, il lamento di un piccione sul balcone, il rauco tossire di una bronchite cronica.

Quando fu il mio turno, la mia poca lucidità mi fece toccare un argomento inesplorato. Attraverso il tono della sua voce, della voce di Knulp, capii che la risposta era pronta da tempo. Se l’era tenuta per sé perché nessuno prima glielo aveva chiesto. E per questo aprì gli occhi con un accenno di meraviglia.

«Perché hai smesso di vagabondare?» chiesi.

Knulp mi osservò a lungo. Erano passati anni dall’ultima volta che lo aveva fatto con qualcuno. Gli occhi non avevano più colore. Erano scuri come il pietrisco dell’asfalto.

«Hai passato qui la tua vita, come questi altri scellerati, queste migliaia di ex giovani ora quasi relitti. Avete fatto una scelta. Una strana scelta. E ora ve ne state pentendo. Ma tu non mi chiedi ciò per cui ti sei messo in fila. Mi chiedi del mio passato, del mio lontanissimo passato. È valsa la pena perdere la tua vita, solo per una domanda? Non sono gli stolti che vivono la vita intera solo per una domanda?»

Knulp rise. Nessuno lo aveva visto ridere prima d’ora. Il suo non era un rimprovero. Era solo una semplice constatazione.

«Ho sognato della fiaccola una notte. Era spenta. Ho sognato i giovani di questa città a passeggio con le eleganti giacche di pelle, orgogliosi del loro governo. A nessuno fa più paura la parola anarchia. Lo scheletro della locomotiva ormai arrugginita sta sempre là, al solito posto, e ci ricorda che la corsa è finita. Le magliette rosse con il dolce viso stampato sono scolorite per i troppi lavaggi. I ragazzi continuano ad alzare il loro pugno al cielo, scaricano la rabbia, o forse solo l’abitudine. Le loro braccia si abbassano sempre più giù e tra poco nessuno le vedrà, nessuno vedrà più niente, nessuno ricorderà, e tutto sarà solo un episodio, qualcosa che è volato lontano. Abbiamo il nostro mare, la nostra spiaggia, il nostro benessere, ma le storie da raccontare sono sempre meno importanti, e sono sempre le stesse. L’unica cosa che conta è decidere come vendere la nostra onestà, radicati in questa società e nel vuoto. A che serve vagabondare?»

Avevo perso la mia vita appresso a quella fila. Molti altri lo avevano fatto prima di me. Passai per la pineta e vidi i regali accatastati. Ebbi la tentazione di prendere qualcosa, per la mia vecchiaia, come ricompensa del tempo perso, giusto per portarmi qualcosa a casa. Ma non riuscii a trovare il coraggio. Alcuni che avevano lasciato la fila prima di me erano rimasti fermi. Ora si chinavano imbarazzati per raccogliere qualcosa. Si sentivano fischi, insulti, commenti caustici. Loro facevano finta di niente, prendevano ciò di cui avevano bisogno e si allontanavano scuri in volto. Più in là incontrai quelli che piangevano.

Era come stare in un campo di battaglia dopo la battaglia. Quando la tempesta è passata e la prima cosa che fai è cercare la foto delle persone care che hai lasciato indietro. Alcuni, seduti, piangevano strappandosi la pelle. Altri raccontavano di quando erano stati giovani, di quanto era stata bella la propria moglie, di come suonava bene il piano il figlio più grande. Perché ho lasciato la mia famiglia? Perché sono venuto in questo stabilimento? Perché ho sbagliato tutto? Il tono delle domande che si facevano, mentre le lacrime smorzavano la voce, era di questa tipologia. Io sentivo solo un enorme vuoto dentro. E in realtà stavo bene, perché era ciò che avevo desiderato. Il presente non aveva più peso, il futuro non aveva senso. Non avevo nulla da fare se non aspettare la morte. Vivere era un gran brutto affare. Stare dentro la fila mi aveva liberato, avevo avuto ciò che cercavo. Per quanto mi riguardava, ne era proprio valsa la pena.

«Che lavoro facevi quando eri giovane?» mi chiese un uomo con una barba trasandata che puzzava di sudore. «Ero uno scrittore»

L’uomo non ascoltò la mia risposta. Era il modo di fare di quelli che ormai chiamavano i piangenti. Ti facevano una domanda per dimostrarti che erano interessati a te. Poi iniziavano a parlare della loro vita, fatti su fatti poco interessanti, cose che interessavano solo loro. Ma avevano bisogno di parlare e di farlo con te. Dovevano gettarti addosso anni di gioventù e anni di fila in cui avevano perso tutto. E proprio verso la fine del racconto cominciavano a strozzarsi con lacrime e sussulti.

Seguivano tutti un sistema ormai collaudato, ma nessuno sapeva dire chi lo avesse inventato. Se non prestavi attenzione eri un gran maleducato, ed era assurdo visto che avevamo condiviso la fila e la sorte. Se stavi ad ascoltare veniva anche a te da piangere a un certo punto. Non c’era via di scampo. Dietro la pineta, tra i piangenti, era un grande errore fermarsi a lungo. Io non avevo molto da fare. E feci quell’errore. L’uomo con la barba trasandata che puzzava di sudore mi rubò ancora qualche anno.

In un’epoca in cui non succede niente, ma attenzione, in cui tutto succede, cosa dobbiamo scrivere? Come possiamo competere? Forse è meglio attendere. Un giorno, un uragano, una guerra o una peste, ci porterà via o rimetterà tutto a posto. Si ricreerà quell’ordine che con tanta cattiveria abbiamo distrutto, quell’armonia che abbiamo deturpato. Forse nessuno di noi sarà più presente, queste cose succederanno senza di noi. Ma non importa. Con fatti come questi non possiamo averla vinta.

A meno che siamo come quelli che saltano le file.

Chi salta le file arriva in fretta, va via per primo e non piange mai. Dopo aver fatto ciò che deve ritorna sempre a casa. Dove ad aspettarlo, al sicuro, c’è la famiglia. Sono questi cristiani che tengono in piedi il mondo. Sono loro che lo distruggono lentamente. Quelli come me, invece, non hanno bisogno di nulla. Se non di credere che alla fine di una fila troveremo Knup ad attenderci con tutte le risposte di cui abbiamo bisogno per andare avanti. E forse per non vivere la nostra vita. Quella che tanto ci fa paura e che a volte disprezziamo senza vergogna.