Alice aveva il viso proiettato verso il sole. Diceva che non si sarebbe abbronzata tanto in fretta, eppure la sua pelle sembrava così morbida. Pensavo che sarebbero bastati alcuni stronzi raggi. Ero geloso. Di quei raggi. Loro potevano toccarla, penetrarla e lasciare dei segni. Si alzò e si diresse verso il bagnasciuga. Vidi la pianta del suo piede roseo. Al suo passaggio lasciava delle impronte scolpite nella sabbia, segni intangibili della sua esistenza, dell’esistenza delle sue gambe, della sua vita, dei suoi piedi rosei. Ondeggiava camminando, anche il mare ondeggiava, ed io me ne stavo lì, seduto, a guardarli entrambi, senza pensare a niente. Era come osservare un quadro. Il mare, e in primo piano una figura femminile di cui non conoscevo i pensieri. Avrei voluto che non avesse pensieri, che tutte le donne che conoscevo non ne avessero, così come me. Ed ora dovevo dimenticare quelle impronte, quei segni tutt’altro che intangibili.
Tornai alla villa dove c’erano degli amici con cui stavamo trascorrendo il fine settimana. Lei rimase in spiaggia a godersi il sole. Erano tutti impegnati a fare delle cose, forse inutili. Mi sedetti in una sdraio ed iniziai a leggere. Le frasi del libro erano di semplice comprensione, ma non riuscivo a concentrarmi. Ogni rigo stampato rifletteva quella icona sensuale. Era una trasparenza improvvisata e riuscivo a vederci attraverso: il sole che continuava a irradiarla, lei, stesa su un asciugamano privo di forme, dei ragazzi che le parlavano. Non riuscivo a sentire quelle parole, e non riuscivo a guardarla fisso negli occhi, nemmeno nell’immaginazione. Non riuscivo a sbirciarle dentro. Non osavo.
Quando fece ritorno dalla spiaggia, insieme ad altri amici che le avevano tenuto compagnia, le persone con cui avevo conversato durante la sua assenza si allontanarono. Proposero di andare in piazza a prendere un gelato. Dovevo aspettare che l’amica di Alice finisse di prepararsi. Era una questione di cortesia. Io sono sempre stato un galantuomo. Alice prese una sedia sistemandola vicino a me. Si sedette. Scambiammo poche parole che non avevano nessuna importanza, ma rimasi colpito dalla consistenza che la sua presenza ravvicinata assumeva col trascorrere di quegli attimi inaspettati. Con quella sua voce avrebbe potuto in qualunque momento pronunciare delle oscenità e non avrei notato la differenza, non l’avrei trovata stonata.
Cominciavo a sentirmi a disagio, così mi alzai per informare alcuni ragazzi che lo stereo non prendeva nessuna stazione radiofonica, perché mancava l'antenna. Era solo un pretesto per far diradare quella vicinanza divenuta improvvisamente scomoda. Pensai a quanto ero sprovvisto della sicurezza necessaria per affrontare le vie di mezzo. Quella via di mezzo. Riuscivo a immaginarla molto vicino, mentre le tenevo la mano per baciarla, o lontanissima, come prima, quando era rimasta in spiaggia, mentre io ero tornato alla villa. Mi accorsi inoltre che non ero capace di reggere nessun confronto, che non sapevo esattamente cosa volessi.
Scendemmo alla piazza e ci sedemmo in un tavolino. Stavano tutti mangiando un gelato. Raccontai alcuni episodi della scuola. Avevo il pilota automatico. Continuavo a stare in mezzo a loro ma completamente estraneo. La serata trascorse e arrivò il momento di rimettere in ordine. Eravamo indaffarati, ognuno di noi assorto nel proprio compito. Alice stava rimettendo a posto la cucina, io stavo lavando il pavimento della veranda. Avevo scelto una distanza equa che mi permettesse di riflettere. Mi voltai all’improvviso e la vidi rientrare dal giardino dove aveva poggiato un sacchetto di spazzatura. Passò rapida, con le sue gambe da gazzella che saltarono sugli scalini. Fu un attimo.
Ci guardammo e lei mi sorrise. Dovevo avere un’espressione inebetita, lei sparì dentro la cucina come un fantasma. Il fantasma della prosperità apparso per creare devianze, una visione improvvisa su uno schermo bianco. Sentii il cuore aumentare i battiti e la confusione cingermi d’assedio. Versai altro detersivo sul pavimento, poi ancora e ancora. Iniziai a sfregare con energia, le bolle si moltiplicavano grigie e solitarie. Feci sparire tutte le macchie e dopo pochi minuti avevo portato a termine la mia parte di pulizia.
Le macchine cominciarono ad abbandonare il vialetto d’ingresso. Alice mi strinse la mano. Stava andando via. Le diedi due baci sulle guance. Dovevo staccare il contatore della luce, chiudere il gas e assicurarmi che tutti gli ingressi fossero a posto. Staccai la pompa dell’acqua e chiusi anche la porticina del sottoscala dirigendomi, poi, verso la mia macchina. Dovevo fare il viaggio di ritorno con l’amica di Alice e con altre due ragazze che la notte prima non avevano fatto altro che parlare di alcuni guai della loro vita. Niente di importante. Con grande sorpresa mi accorsi che Alice era ancora lì e aspettava che partissi, così mi avrebbe seguito per non perdersi. Fece metà del viaggio con noi, poi dallo specchietto retrovisore mi accorsi che l’avevo lasciata indietro. Arrivati quasi in città vidi la sua auto effettuare dei sorpassi per evitare il traffico. Ci scambiammo dei segnali, alcuni saluti. A un semaforo del centro presi una direzione diversa e la sua auto si mischiò alle altre senza rimedio.
Le mie amiche erano piuttosto silenziose e io guidavo in maniera automatica senza grandi slanci di conversazione. All’improvviso rividi quelle gambe da gazzella saltare dei gradini, uno sguardo fissarmi con immotivata dolcezza e sparire dentro la cucina. Pensai alle impronte sulla spiaggia ed ebbi un sussulto. Frenai di scatto per non andare a sbattere contro la macchina davanti. Mi girai verso l’amica di Alice che si era tenuta forte al sostegno laterale. «Secondo te è veramente importante tenere delle giuste distanze?» Sembrò non capire e in effetti non poteva. «Non so di cosa parli» disse. Continuai a guidare ripromettendomi di pensarci su. Per ora sarebbe stato meglio concentrarmi e tenere la distanza di sicurezza dalle auto che mi precedevano.
Alcuni giorni dopo mi trovavo in centro per acquistare dei libri. Non ero ancora entrato nella libreria e dall’altra parte del marciapiede vidi una sagoma zigzagare tra la folla. Una forma famigliare che avanzava spedita. Era Alice. Rimasi intontito per qualche secondo, poi attraversai la strada e cominciai a seguirla. Non era facile starle dietro, aveva una camminata rapida ed efficace. Ma scelsi comunque una giusta distanza, così da non poter essere scoperto. Se avesse capito che la stavo pedinando, non avrei fatto una bella figura. L’inseguimento durò una decina di minuti, avevamo cambiato quartiere. Alice si era fermata davanti a una palazzina piuttosto rovinata, con i muri sporchi di scritte oscene.
Passeggiava nervosamente osservando l’ingresso della palazzina. Io mi ero fermato dietro un’edicola e la spiavo senza che lei potesse accorgersi di me. Dopo qualche minuto uscì un uomo. Aveva le spalle larghe, era vestito da un abito Armani, portava la cravatta. Forse aveva il viso butterato, oppure me lo ero immaginato. Poteva essere suo padre. Alice aveva un fisico sinuoso, l’uomo era grosso e rozzo. Li seguii per un altro pezzo. A vederli insieme non davano l’impressione di essere una coppia. Rallentarono alla fine della strada, avevano intenzione di girare, quindi dovevo accelerare il passo. Ma si fermarono all’improvviso e me li ritrovai proprio di fronte. L’uomo la prese tra le sue braccia facendola quasi scomparire. Si baciarono appassionatamente proprio davanti ai miei occhi. Se lei avesse girato il viso, mi avrebbe visto, perché ero troppo vicino. La distanza era palesemente sbagliata. Così mi voltai e lentamente cominciai a camminare verso la direzione opposta.
Ecco cosa successe dopo quel mancato incontro che avrebbe rischiato di mandare all’aria la mia amicizia con Alice. La sua amica Carmen mi aveva invitato a una festa di compleanno nel suo appartamento. Carmen viveva in periferia e io avevo preso i mezzi per arrivarci. Avevo una bottiglia e un regalo in mano e cercavo di ricordare le indicazioni a memoria. Soprattutto il numero civico. Arrivai puntuale e quando salii mi trovai Alice di fronte che mi dava il benvenuto insieme alla festeggiata. Mi aspettavo che da un momento all’altro comparisse l’energumeno che l’aveva baciata. Invece, quella sera, Alice era sola. Io diedi i regali a Carmen, Alice mi prese per mano e ci appartammo a parlare seduti su un intimo divano. Eccola di fronte a me, con i capelli scompigliati, i tratti del viso prefetti, la voce suadente.
Era di nuovo come il pomeriggio alla villa, ma la nostra confidenza era aumentata. Ballammo un lento e il contatto con il suo corpo fu inaspettato. Sapevo di desiderarla, ma non sapevo quanto. Rischiavo di perdere il controllo della situazione. Ma Carmen, da dietro, mi fece segno di no. Mi indicò con il dito di non fare nessun passo. E io ne fui gelato. Il ballo finì e finì la serata. Rimasi senza energie. Alice non chiamò nei giorni successivi e io non mi feci sentire. Dopo un mese, mi capitò di prendere un caffè con Carmen che voleva scusarsi con me. Mi disse che non sapeva che Alice si fosse lasciata con l’energumeno del bacio in strada e che quella sera si aspettava che mi facessi avanti. Avevo perso la mia grande occasione. Carmen era sinceramente mortificata. Io non avevo parole. Caddi in un mutismo irreversibile. Avevamo azzerato le distanze e io non ne avevo approfittato. Lei aveva deciso che dovevamo ballare vicini. Si aspettava una mia iniziativa, e io avevo fallito la prova.
L’estate successiva non era cambiato granché tra di noi. Ma io stavo vedendo un’altra persona e il nostro rapporto si era raffreddato. Io mi ero rassegnato al fatto che tra di noi ci sarebbe stata solo amicizia. Glielo avevo accennato e lei non aveva reagito come mi sarei aspettato. Le nostre distanze di sicurezza ci avevano dato certezze. Io ero sicuro che il suo essere irraggiungibile mi avrebbe tenuto lontano dai guai. Sapere di avere una possibilità, la rendeva meno affascinante. Non potevo farci niente. Era così. Sara, la ragazza che avevo iniziato a frequentare, era per me indecifrabile. Minuta, con una leggera fissazione per i giubbotti in jeans, sempre lo stesso identico taglio di capelli. Era prevedibile e priva di slancio, mi faceva sentire al sicuro. Una sera andammo a una festa, conoscevamo diverse persone, molte avevano scommesso su di noi.
Entrammo nella sala e Sara mi prese la mano. Fu una sensazione indescrivibile. Mi fece sentire importante. In molti ci chiesero se stessimo insieme. E lei mi baciò più volte per confermare che ciò che doveva accadere era in effetti accaduto. Mentre mi godevo la serata, vidi Alice parlare animatamente con un altro energumeno. Non c’era niente da fare. Erano i suoi tipi. Rimase da sola per qualche secondo e io mi stavo avvicinando per salutarla, ma l’energumeno arrivò come un falco, le poggiò una mano sulla schiena e puntarono verso l’uscita. Poco prima di girare i tacchi, Alice si voltò verso di me e sorrise. Il significato era chiaro. Non ci possiamo fare nulla, forse non è destino. Tornai da Sara che parlava logorroicamente con i nostri amici. Avevo un magone insopportabile che mi premeva dentro. Dovetti sopportarlo per diversi mesi.
Una sera, io e Sara stavamo per guardare un film nel mio appartamento. Lei aveva fatto i popcorn. Non so come ci riuscisse, erano sempre ottimi, mai bruciacchiati e sempre con un retrogusto dolce che me li faceva mangiare in grandi quantità. Suonarono alla porta, mentre Sara trafficava in cucina. Andai ad aprire e alla porta c’era Alice. Mi venne un colpo. «Dobbiamo parlare» disse.
Io non volevo che succedesse qualcosa di spiacevole con Sara, ma avevo una gran voglia di abbracciare forte Alice, stringerla e baciarla, perché la desideravo come un bambino desidera un giocattolo a Natale. Ma Alice non era un giocattolo, era una donna che poteva prendere il mio cuore e farlo in brandelli. Chiusi la porta e uscii dal mio appartamento. Andammo di sotto, nei parcheggi aperti condominiali. Lei era nervosa. «Hai capito male, malissimo» disse. «Gli uomini con cui mi hai vista non sono i miei uomini. Non sono nulla. Solo delle conoscenze. Ma tu non hai mai fatto niente per me, non ti sei mai impegnato seriamente. Io lo so che mi desideri. Eppure te ne stai chiuso nel tuo guscio. Ma di che hai paura?»
Mi baciò lì, in piedi, tra una Panda e una Mercedes Benz. E se ne andò senza che io riuscissi a far qualcosa, a reagire. Tornai di sopra. Sara chiese dove ero finito. Poi vide il rossetto sulle mie labbra. Andò su tutte le furie, tirò uno strofinaccio verso i fornelli, prese il suo giubbotto in jeans e la borsa e uscì maledicendomi. Feci due balzi felini verso la cucina. Lo strofinaccio era finito sui fuochi e aveva cominciato a bruciare. Per tutta la notte pensai all’accaduto. Non avevo avuto le forze per fermare Alice, non avevo fermato Sara quando era andata via. Non riuscivo ad accettare che le distanze tra me e Alice potessero cambiare irrimediabilmente una volta presa l’iniziativa. Non mi importava se le distanze tra me e Sara diventavano chilometriche, non mi importava granché di lei.
Ma la mattina dopo, questi pensieri rimbalzavano nella mia testa completamente diversi rispetto alla notte prima. Non volevo che Alice uscisse dalla mia vita. E non volevo che Sara non fosse mia amica. Corsi quindi verso casa di Alice e suonai al campanello senza avvisare del mio arrivo. La madre fu gentile e mi fece salire. Disse che Alice era partita. Aveva accettato di fare un corso di lingue all’estero. Le serviva per l’Università. Doveva stare fuori un intero anno. Non aveva lasciato recapiti, per il momento.
Scesi in strada e mi sentii distrutto. Non l’avrei più vista? Passai il pomeriggio sotto le coperte nel letto, senza forze. Come dopo una sbronza. Ero in subbuglio. Stavo malissimo, avevo lo stomaco scombussolato e volevo solo rimanere immobile, scomparire per sempre. Come aveva fatto Alice. Ma verso le otto chiamai Sara. Parlammo a lungo, lei venne da me. Capì, alla fine, ciò che era successo. Così cominciammo a frequentarci nuovamente e dopo qualche mese si trasferì da me. Avevo una relazione da adulto, ma non ero per niente innamorato. Era la felicità di cui tutti parlavano. Me ne feci una ragione.
Esattamente un anno dopo, comprai una rivista sportiva in edicola, un settimanale in cui comparivano i risultati delle partite degli sport americani. Una rarità. Era l’edizione italiana. La sfogliai distrattamente seduto su una panchina, mentre mi godevo il sole. E, di colpo, come spesso era capitato nella nostra storia insieme, Alice ripiombò nella mia vita. Visione improvvisa su schermo bianco. In costume succinto, bellissima e perfetta, se ne stava nella pagina centrale con una fascia per il sudore in testa e un costume arcobaleno. Era la pubblicità di una ditta che produceva canoe. Aveva un taglio di capelli anni Settanta, a tratti era irriconoscibile. Ma quel bagliore negli occhi era lo stesso che avevo potuto ammirare da vicino.
Era lei, la donna che amavo. Dentro una rivista. La richiusi per non rimanere intrappolato in un sogno adolescenziale. La gettai dentro a un cesto dell’immondizia e, rattristato da quel momento liso e inutile, tornai verso casa. Ora le distanze era quelle giuste, sarebbero rimaste tali per sempre. Avevo avuto il primo amore, come capita a tanta gente, qualcosa che non avrei mai più smesso di raccontare.