Il tavolo come altare.
Contemplo ogni giorno con devozione un piccolo tavolo seminascosto tra le piante del giardino. Si tratta di un tavolino in ferro dai bordi arrotondati e andamento curvo e aggraziato nella linea delle gambe, il che fa pensare a fasti lontani di epoca Liberty.
È possibile che nella vita precedente abbia avuto un suo posto nell’ampio terrazzo di una villa con parco e la sua superficie, all’epoca finemente smaltata, abbia accolto porcellane di pregio, teiere in argento e piattini con piccola pasticceria raffinata. Oltre, ovviamente, ad aver ascoltato con discrezione numerose conversazioni oziose su temi più disparati.
Ora è semi-scrostato, la ruggine avanza ma guai a volerlo restaurare, che errore sarebbe scartavetrarlo, tentare di ridargli smalto con quelle nostre vernici moderne senz’anima. Lui vive all’aperto ma non teme gli elementi, porta con orgoglio una piccola raccolta di oggetti che non smetto di osservare e venerare nella loro impassibilità di fronte allo scorrere tempo: una statua in argilla africana, con figura di uomo Dogon, due pietre laviche islandesi, una scheggia lignea scura proveniente dalla trave cinquecentesca di una fattoria dello Schwarzwald, conchiglie candide, tre campane tibetane, cordame marinaresco pietrificato dalla salsedine. Nei giorni di pioggia tutto è lucido e splendente, nella luce dell’estate ombre scurissime modificano i contorni delle cose. Quando arriva la neve tutto – o quasi – scompare alla vista.
Ci si accorge dell’importanza dei tavoli quando si trasloca oppure si svuota una casa appartenuta a una persona cara. Usando il termine “importanza” intendo riferirmi al valore sentimentale dell’oggetto in questione. E al mistero del suo destino. Non ultimo alla dignità e bellezza data dalla forma e dal materiale. Una complessità insomma, racchiusa in un piano con quattro gambe.
Ci si libera di un tavolo vecchio - per motivi di spazio – per poi rimpiangerlo.
Ma in fondo ciò che risulta più interessante alla fine non è il tavolo in sé ma ciò che vi si trova sopra. Lo sapeva bene il vecchio ragionier Scaramuzzi che ogni mercoledì mattina disponeva puntuale sulla sua scrivania i documenti relativi ai pagamenti dei suoi clienti. Era giorno di paga e numerosi erano i fogli da controllare prima di impilarli con precisione uno sull’altro. E di ognuno c’era la versione in carta velina perché un tempo quella era la carta che si usava per le copie.
Se era un giorno ventoso noi bambini chiedevamo di scendere in cortile per giocare a pallone o tentare di far decollare gli aquiloni, in realtà subito cominciavamo a lanciare piccoli sassi in direzione del vetro dello studio dello Scaramuzzi e insistevamo fino a quando lui, esasperato, veniva alla finestra e con una mano tentava di domare il riporto incollaticcio dei capelli che gli si impennava sulla testa mentre con l’altra ci faceva dei gestacci urlando male parole verso di noi che una cosa sola aspettavamo: l’apparizione dei primi fogli di carta fluttuanti in aria, segno che all’interno della stanza il vento stava compiendo il suo dovere.
Ho sempre amato questa storia perché la trovo profondamente metaforica. Nella vita di ognuno prima o poi arriva il giorno in cui il vento scompiglia le carte ben ordinate sul tavolo ma questo non è detto che sia un male. Un ammonimento a non voler controllare tutto immaginando invece l’esistenza di alternative, la possibilità di scegliere nuove idee, nuove vie.
Prima che l’era IKEA riempisse il mondo di tavoli fatti di truciolare e colla e viti che non si trovano al momento del montaggio, esistevano dignitosi tavoli in legno di pioppo ricoperti di formica - quelli con le gambe inox – dalla durata garantita. Ne ricordo uno simile da mia nonna, a pensarci bene era l’unico tavolo di casa, oggi lo chiamerebbero stile modernariato. Gli strudel e le tagliatelle nate su quel piano a quattro gambe non si contano. Per non dire dei pranzi di famiglia o dei pomeriggi a fare collages ed esercizi di tabelline, fino al momento in cui le ultime tracce di colla e farina venivano raschiate e una immensa macchina da scrivere Olivetti faceva la sua comparsa e la cucina diventava un ufficio di traduzioni e il ticchettare ci accompagnava fino a sera.
— Il tavolo luminoso! Il tavolo luminoso! — disse il vecchio disteso nel suo letto, senza aprire gli occhi.
— Ecco ha ripreso a delirare - fa la caposala scuotendo la testa.
— Sembra un’immagine angelica — aggiunge l’anziana consorte aggrappata alla sbarra di protezione del letto. — Oddio speriamo che non mi muoia…
In realtà nonno Ezio è solo molto annoiato. La degenza prolungata in ospedale l’ha sfiancato, per non parlare del cibo assolutamente schifoso, soprattutto avere tutta quella gente intorno, sempre intenta a parlottare sottovoce, no, non solo la caposala, anche la moglie e la figlia con suo marito, sì, quello con la faccia da idiota che non fa che guardare e non spiccica mai una parola.
Così il nonno ha deciso di rimestare nel paniere dei suoi ricordi ed è tornato in Islanda dove nel lontano ‘75 fece un mitico viaggio insieme all’ Alfio e al Mariet e dopo aver visto vulcani, geyser e cascate si imbatté in una piccola fabbrica per la lavorazione del pesce e, apriti cielo, pensò di aver trovato il paradiso: schiere e schiere di ragazze bionde vestite con lunghi camici bianchi intente a sfilettare merluzzi sopra grandi tavoli luminosi, che visione indimenticabile!
Infatti nonno Ezio quel ricordo se l’è sempre tenuto stretto al punto da rammentare assai bene molti particolari: le ragazze erano una più bella dell’altra – mica come oggi che in quei luoghi lavorano solo tronfie operaie polacche e rumene no, no, allora si trattava di lavoro estivo per studenti. Insomma quegli sguardi color del cielo e soprattutto quelle forme sotto i camici, parevano delle infermiere pronte a tutto, altro che ste tardone che si ritrovava al momento in ortopedia – pensava nonno Ezio – le islandesi facevano veramente sognare...avrebbe voluto essere un merluzzo per poter essere nelle loro mani.
Merluzzo…merluzzo…
— Il merluzzo glielo facciamo domani — interviene a voce alta un’infermiera di passaggio.
— Merluzzo con purè di patate, quello che hai sempre mangiato volentieri, Ezio caro — incalza la moglie.
Ma nonno Ezio non ascolta più, è tornato nei suoi fiordi, ci sono altri ricordi da godere, quella casa con la finestra verso il mare, il chiarore delle notti nordiche, la stufa accesa e le mani di Berglind che armeggiano sul tavolo in cucina e tagliano delle patate bollite in quattro per ripassarle poi subito nel burro.
Purè di patate? Ma che vadano a…
C’era un unico negozio di fiori nel nostro quartiere, lo gestiva una certa Ester. Il posto in sé era modesto, così la varietà di fiori offerta, bastava che ci fossero le rose rosse – anche se senza alcun profumo – e i crisantemi per le vecchiette impegnate stagionalmente nella visita ai defunti.
Le cose sono cambiate con l’arrivo di Jenny e della nuova gestione, non tanto per la qualità dei fiori ma per lo spirito e lo stile assai curato. Jenny è stata la prima fioraia che ho visto in vita mia comporre un mazzo di fiori con garbo distendendo prima le varie specie sopra ad un grande tavolo di legno e creando in diretta delle straordinarie composizioni. È sempre stato uno spettacolo seguire i suoi gesti aggraziati e al tempo stesso sicuri nel recidere i gambi, alzare o abbassare i fiori più grandi rispetto a quelli più piccoli, completare l’opera arricchendola con carnose foglie verdi. Ma il salto di qualità è arrivato con Jamila, la giovane apprendista gambiana di Jenny, che dopo pochi mesi ha letteralmente rivoluzionato il negozio.
È stato grazie ai suoi suggerimenti che Jenny ha subito trasformato una parete del negozio in un giardino verticale creando un effetto di acqua corrente con delle fontanelle nascoste. Non solo, Jenny e Jamila hanno ben presto sostituito i classici fiori con specie rare tropicali, alcune addirittura di origine africana e bisogna dire che quest’ultima scelta non è stata gradita dalla clientela classica, quella dei crisantemi e delle rose per intenderci.
Poco importa, la novità della giovane africana capace di comporre bellissimi mazzi di fiori, senza fretta e con eleganza è diventata un’attrazione per l’intera città. Perdute le vecchiette sono apparsi i vecchietti, molti dei quali con indosso i pratici gilet color kaki, da cacciatore, pronti ad iniziare la loro personale avventura nella giungla, avventura sensoriale s’intende, tra i fiori e le piante esotiche di Jamila. Tutti incantati di fronte al tavolo ricoperto di rami, piante e fiori sconosciuti, e quelle mani, le lunghe mani nere e lucide di Jamila, quella sua calma serafica, quei suoi sorrisi allusivi, che brividi! Non ultimo quel suono incessante d’acqua, come di pioggia monsonica. Una pioggia che si sarebbe voluto non finisse mai.
Mi chiamo Hans Mayer e faccio il ciabattino.
Prima di me la bottega la gestiva mio padre Kurt.
E prima ancora mio nonno Herbert. Nella città di Laufenburg siamo stati per decenni un punto di riferimento e lo siamo ancora oggi. Il mio tavolo di lavoro è ancora l’originale, quello che nel 1920 fece costruire apposta il mio caro nonnino. Io amo il mio tavolo da ciabattino, pieno di cassetti e mensole per appoggiare le scarpe. C’è addirittura un cassettino nascosto dove c’è ancora il sapone per cuoio inglese che nonno Herbert faceva arrivare apposta da Londra per accontentare i suoi clienti e il piano è così liso e scuro e unto che quasi non sembra più fatto di legno. Non riesco a immaginare di fare il mio lavoro con un tavolo diverso da questo perciò me ne prendo cura e se necessario, di tanto in tanto, apporto dei piccoli restauri.
Il mestiere di ciabattino è umile, è vero. Ciò nonostante io amo il mio lavoro.
Non è sempre stato così.
Quando ero ragazzo, pieno di superbia e orgoglio giovanili, avevo deciso di non seguire le orme di mio padre, volevo fare altro. E sono andato a fare il magazziniere in una grande azienda fuori città. Mio padre l’ha presa male e per lungo tempo non mi ha più rivolto la parola. Due anni dopo, mentre era intento a sostituire dei tacchi, gli è venuto un colpo al cuore e si è accasciato in mezzo ad una montagna di scarpe vecchie. Mi ha fatto pena ma sono andato avanti per la mia strada e con le mie convinzioni. Nel posto dove lavoravo mi sentivo rispettato e mi pagavano bene. Dopo pochi mesi mi ero comprato la mia prima automobile, mentre molti miei coetanei ancora andavano in giro in bicicletta.
Tutto sembrava andare avanti bene fino a quando qualcosa si è rotto. Sono stato licenziato di punto in bianco – con un sms cazzo! – e poche settimane dopo Julia, la mia ragazza, mi ha lasciato per un altro. Mi è crollato il mondo addosso. Ho cominciato subito a cercare altro ma tutti i miei sforzi parevano inutili, sembrava veramente che nessuno mi volesse. A fine dicembre, poco prima di Natale, dopo una bevuta colossale con gli amici ho perso il controllo della mia auto e sono andato a sbattere a folle velocità contro un albero. La polizia ha pensato bene di togliermi la patente.
Così alla fine mi sono ritrovato nel retrobottega di mio padre a singhiozzare e lì è giunta la rivelazione: non dovevo più cercare, sapevo cosa fare. Perché ci avevo messo tanto a capirlo? Ero stato uno stupido! Passai una settimana a ripulire il negozio, ridipinsi l’insegna con colori brillanti, provai a ripetere i gesti che avevo visto a lungo da mio padre. E cominciai. Fu la mia rinascita.
Ora sono già diversi anni che lavoro di buona lena e ho diversi clienti affezionati. Le scarpe, va detto, sono oggetti delicati, intimi, hanno a che fare con una parte del corpo che per gran parte del giorno viene celata alla vista. Col tempo ho sviluppato una mia percezione personale dei clienti ma forse dovrei dire delle mie clienti poiché la maggior parte sono donne. Ce n’è una in particolare, la signora Weronika, una polacca molto spiritosa, una donna matura con alle spalle una vita avventurosa nel mondo del teatro, che mi porta regolarmente le sue scarpe dai tacchi vertiginosi o i suoi stivali di pelle di serpente…. che belle risate ci facciamo ogni volta! Lei mi piace molto. Più di una volta ho fatto finta di non aver finito il lavoro solo per poterla rivedere, questo non è molto professionale lo riconosco…
Sul fronte relazioni sentimentali con le donne, da quando sono un ciabattino, non batto chiodo (ha ha) e clienti polacche a parte, c’è il deserto. Alle ragazze non piacciono gli uomini che fanno mestieri come il mio, che alla sera torno a casa con le unghie delle mani tutte bordate di nero o odor di colla nei capelli. Due anni fa, dopo un giorno faticoso, ho bevuto due o tre birre e vagato per il centro città fino a giungere in Langstrasse dove ci sono le ragazze a pagamento e lì ho incontrato Ha-yun, una giovane nordcoreana con la quale ora mi vedo regolarmente una volta alla settimana ma non facciamo sesso, io preferisco dedicarmi alla contemplazione e al massaggio dei suoi bellissimi piedi, due miniature lisce come la seta. Lei dice che sono un po' perverso, in realtà so che in cuor suo le piacerebbe avere più clienti come me invece di certi bestioni che deve affrontare giornalmente, uomini irrispettosi e spesso poco puliti. Ah, dimenticavo, Ha-yun da qualche tempo è diventata anche una mia cliente.
Sul mio tavolo da un paio di giorni c’è un paio di stivali di cuoio nero.
Me li ha portati un arzillo vecchietto di nome Brummer, un tipo che avevo già visto in giro nel nostro quartiere. Mi ha chiesto di risuolarli e di ricucire uno dei risvolti superiori. È sempre un piacere avere tra le mani calzature di pregio, tutto il lavoro alla fine risulta più facile. Mentre li esaminavo pensando a come fare al meglio la riparazione, all’interno di uno dei due stivali ho notato una scritta incisa nel cuoio. Quel A.Brunner SS RZM Berlin 1944 mi ha subito incuriosito, così ho googolato il nome e con mio stupore mi sono apparse delle immagini di un giovane ufficiale nazista intento a torturare dei deportati in un campo di concentramento. In una in particolare c’era Brummer che teneva la testa di un vecchio schiacciata a terra sotto i piedi.
Ho lasciato istintivamente cadere gli stivali che fino a un momento prima tenevo con cura in mano, provando un senso di terribile nausea. Quel giorno mi dedicai ad altro ma il pensiero più volte ritornò a quel paio di stivali e per molto tempo rimasi sospeso col dilemma se fare o meno quella riparazione. Ripensai al vecchietto sorridente e mi convinsi che, anche per ragioni anagrafiche, non poteva trattarsi di quel Brummer eppure aveva lo stesso cognome, evidentemente doveva trattarsi del figlio.
Venne in giorno in cui il signor Brummer tornò per ritirare gli stivali.
Si rivolse a me come l’altra volta, sorridendo e parve sorpreso nel trovarsi di fronte al sottoscritto teso e distaccato, tant’è che mi chiese se tutto fosse a posto. Prima che potessi dire qualcosa lui disse con tono leggero: — Sa che conoscevo suo padre? Una persona squisita, un uomo onesto. Quando è mancato ho provato un sincero dispiacere. — Io invece suo padre sono contento di non averlo mai incontrato — il mio pensiero spudorato fuoriuscì senza controllo prima ancora che fosse compiuto nella mia testa. Brummer di riflesso si allontanò dal bancone e si zittì cambiando espressione del volto. Poi disse — Ognuno eredita dal proprio padre cose buone e cose meno buone, purtroppo non ci è dato scegliere e alla fine con tutte facciamo i conti. Mi dica cosa le devo per il suo lavoro.
Presi il biglietto incollato alla suola di uno dei due stivali e freddamente risposi: — Sono 40 euro. Brummer armeggiò per un istante cercando qualcosa nelle tasche del suo loden scuro e ne cavò fuori due banconote da 20 euro che mi porse con gesto elegante.
A quel punto fu il mio turno, mi girai, infilai velocemente gli stivali in un sacchetto di carta e glieli allungai. Brummer non controllò neppure la mia riparazione, mi guardò per un attimo allargando gli occhi, senza sorridere e uscì dal negozio senza fretta.
Un grande tavolo in legno massiccio capeggia in un angolo dell’atelier di Gustav Klimt in Feldmuhlgasse a Vienna. Curiosamente non molto alto ma al contempo estremamente robusto, è stato realizzato con legno di rovere proveniente dalla Boemia (terra di origine della famiglia di Klimt) e ancora oggi, per la maggior parte degli studiosi del maestro della secessione, resta un mistero. Klimt infatti non ha mai usato quel tavolo per dipingere, prediligendo sempre grandi cavalletti o attaccando le tele direttamente al muro. Per quando riguarda i suoi famosi disegni di nudi femminili, Klimt ha sempre lavorato seduto, appoggiando i blocchi di fogli ad un asse rudimentale.
A cosa servisse dunque quel tavolo – peraltro senza cassetti – non è dato sapere. Qualcuno ha ipotizzato che possa essere stato un piano per appoggiare le opere, soprattutto quelle di piccole dimensioni, da mostrare ai clienti facoltosi appartenenti alla borghesia della città, ma anche questa idea risulta piuttosto remota essendo stato Klimt un tipo tendenzialmente caotico – si racconta che nel suo atelier si camminava sui disegni fatti e scartati e regnava sempre un gran disordine.
Un’ipotesi più plausibile ci viene suggerita da alcune foto dell’epoca nelle quali il tavolo è immortalato insieme a Klimt e diverse ragazze, le sue modelle. In ogni foto compare una modella diversa, sempre nuda o seminuda a differenza dell’artista che si presenta in piedi con indosso il suo caratteristico camicione. L’espressione del protagonista della secessione viennese è visibilmente compiaciuta. È risaputo che Klimt abbia avuto una vita sessuale molto vivace e che alla raffinatezza della sua arte sia corrisposta la pratica di un erotismo selvaggio e compulsivo. Possiamo a questo punto supporre che la struttura del tavolo sia stata così congegnata per sopportare sollecitazioni e pressioni conseguenti alle abitudini orgiastiche del maestro.
Diffidare sempre di un tavolo d’artista troppo ordinato, c’è qualcosa che non va. Meglio a quel punto non trovarlo del tutto, il tavolo, come nello studio del grande Francis Bacon che lavorava e non buttava mai via nulla e alla sua morte ci sono voluti due container per svuotare l’atelier dove lo strato di spazzatura- per lo più tubi di colore spremuti, bottiglie di birra, riviste e opere scartate - raggiungeva il metro d’altezza seppellendo di fatto qualsiasi piano d’appoggio.
Più prosaicamente non si dovrebbe anche mai dimenticare il tavolo/cattedra della professoressa Mazzella, insegnante di matematica al mio liceo. L’ho rivisto recentemente durante un pellegrinaggio/incontro tra ex compagni, una di quelle cose terribili che in epoca di social incombono minacciose fino a diventare reali. Tutto era intatto nella nostra classe, la B, c’era anche la cattedra dalla gamba rossa (dipinta durante l’ora di artistica e così rimasta). Ma ciò che è incredibile, sotto il piano di formica azzurro usurato dagli anni, c’era ancora la gomma da masticare del mio compagno Franco Bonelli, che detto così ai più risulterà cosa insignificante, non per noi che eravamo lì.
Quella pallina sbiadita e schiacciata sotto il bordo della cattedra fu una azione provocatoria del buon Bonelli che volle scommettere con la classe di essere pronto ad una azione estrema, incollare la sua gomma masticata sotto il tavolo della temutissima prof, con lei presente. Non solo, prometteva che l’avrebbe fatto durante il compito in classe, che vuol dire nel momento di maggior tensione possibile. Nonostante ciò Bonelli riuscì nel suo intento. Lo fece scivolando pancia a terra, con il coraggio di un marine che vuole oltrepassare un campo minato, dove ogni movimento potrebbe essere l’ultimo.
Bonelli per questo divenne una specie di leggenda vivente nella classe. Per anni seppe sfruttare molto bene quest’aura di potenza, soprattutto con le ragazze.
La professoressa Mazzella, ignara di tutto, continuò invece a terrorizzarci ancora a lungo con le sue complicatissime equazioni e i suoi astrusi problemi di geometria.
Bonelli non era presente alla “reunion” di quelli della B perché mancato alcuni anni fa durante una impresa alpinistica in Nepal. Tutta la sua vita, forse non è un caso, è stata costellata da imprese sportive estreme, sfide professionali ed esperienze umane che risultavano interessanti solo quando lo mettevano alla prova.
Al museo dedicato a Hermann Hesse a Montagnola sopra Lugano c’è uno degli innumerevoli tavoli appartenuti all’autore di Siddharta. Si tratta di un tavolo in stile inglese, in rovere, con gambe sottili e due cassetti profondi. È facile presumere che lo scrittore premio Nobel lo usasse per scrivere le poesie e i racconti oggi noti in tutto il mondo, in realtà quel tavolo rivela qualcosa di più del suo mondo. Si scopre infatti che il cassetto a sinistra contiene carta, buste e foglie sparsi con appunti scritti mentre quello di destra è pieno di pennelli, scatole di acquarelli, gomme, matite e stracci sporchi di colore.
Sono le due anime di Hesse.
Per lungo tempo Hermann Hesse non solo ha scritto ma ha anche dipinto. L’ha fatto inizialmente su consiglio di Carl Gustav Jung allo scopo di lenire il disagio causato da frequenti stati depressivi poi la pratica pittorica è diventata una consuetudine.
Hesse non è mai stato riconosciuto come pittore ciò nonostante i suoi dipinti hanno ricevuto e tutt’oggi ricevono numerosi apprezzamenti. Ma c’è di più. Nel corso della sua vita, soprattutto dopo aver raggiunto un alto livello di notorietà, Hesse ha cominciato a ricevere migliaia di lettere da parte di lettori/lettrici e devoti/e ammiratori e ammiratrici.
Non tutti, perché sarebbe stato fisicamente impossibile, ma moltissimi hanno avuto una risposta. Si trattava sempre di un messaggio diretto alla persona o di una poesia dedicata, non c’era mai nulla di preconfezionato. Tutti gli scritti venivano illustrati con un piccolo acquarello, poteva essere un paesaggio in miniatura, una bordura decorata con colori brillanti o un fiore. Ancora oggi di queste piccole, preziose corrispondenze è pieno il mondo. Saltano fuori da vecchi libri ereditati dai nonni, vengono regalati, venduti, passano di mano in mano, facendo spesso la gioia dei collezionisti. Tutti rinnovano il loro messaggio di bellezza e di pace universale.
Un altro tavolo di un altro scrittore, questa volta senza Nobel ma non per questo meno intrigante, un certo Buzzi, Aldo Buzzi, attivo tra gli anni ‘50 e ‘70 anche come sceneggiatore e regista. Si tratta di un tavolo quadrato, un metro per un metro circa, con gambe sottili molto lunghe, tant’è che il piano giunge a una altezza di un metro e mezzo e subito ci si chiede come si riesca a sedersi a questo tavolo, forse con degli sgabelli tipo bar invece no, niente di tutto ciò. Aldo Buzzi ha sempre scritto in piedi.
Lo rammenta, non senza orgoglio, in una intervista, raccontando di come il processo creativo e la lunga opera di limatura del testo siano sempre avvenuti in una piccola stanza, in perenne movimento, con l’irrequietezza vigile di una fiera in gabbia e che il tavolo alto abbia rappresentato un’isola intorno alla quale muoversi e solo di tanto in tanto sostare per aggiungere uno scarabocchio o una sottolineatura al testo abbozzato. A completare l’arredo dello studio c’era anche una dormeuse sulla quale lo scrittore si distendeva per brevi penniche ristoratrici.
L’unico tavolo al quale riusciva a sedersi e a stare era il tavolo dove mangiare, pratica molto amata dal Buzzi non meno dello scrivere.
Almeno una volta all’anno soggiorniamo alla pensione Edelweiss a Prà, una minuscola frazione di montagna delle Alpi bernesi. La signora Hunziker ci conosce bene e conosce anche molto bene i nostri gusti e le nostre abitudini. Sa per esempio che dopo due giorni di pioggia, quando le previsioni promettono bel tempo, a noi piace andare a camminare già all’alba. Per questo motivo non occorrono molte parole, a volte a basta un cenno e noi sappiamo che possiamo contare su di lei e soprattutto su di una ottima colazione.
Anche se è successo innumerevoli volte è sempre una emozione scendere le scale e sentire arrivare dalla cucina il profumo del caffè. È bello pensare che per fare quel caffè la signora Hunziker si è alzata prima di noi e per prima cosa ha macinato i chicchi ben tostati per poterci offrire ancora una volta un caffè indimenticabile.
Tutto si ripete come un rito magico. La piccola sala da pranzo è immersa nell’oscurità, solo il nostro tavolo è ben apparecchiato e illuminato da una candela. Una grande finestra incornicia il bosco e le montagne ancora immerse nell’oscurità blu che precede l’alba.
Sul tavolo vedo già il piatto con i burrini arricciati e il cestino coperto da un tovagliolo di lino écru sotto il quale normalmente si nascondono tre tipi di pane, pane bianco, segale e con le noci. Oltre a due cornetti al burro fragranti, naturalmente. Le marmellate sono sempre solo due, lamponi e mirtilli ma volendo c’è del miele. Miele millefiori proveniente da un alpeggio dalla bellezza mozzafiato. Su richiesta potremmo avere delle uova cucinate a piacere, quello che per certo non mancherà mai è il tagliere con lo speck e due tipi di formaggio, quello fresco e quello stagionato dal sapore e dalla consistenza più forte.
Dimenticavo: tutta la porcellaneria è di Meissen ma non tutta proveniente dallo stesso servizio, quello sarebbe stucchevole. Qui invece solo pezzi spaiati che donano alla tavola un’aria scanzonata e leggera. Assistiamo alla nascita del giorno in silenzio gustando il pane fragrante, sbocconcellando il formaggio, sorseggiando il caffè caldo.
Tra due ore la sala sarà gremita dagli ospiti della pensione, tutti i tavoli saranno occupati e si potrà sentire il piacevole brusìo delle voci accese dal piacere di poter godere di un nuovo giorno in montagna. A occuparsi delle colazioni ci sarà, oltre alla signora Hunziker, anche le figlie Julia e Fraziska e sarà tutto un via vai dalla cucina alla sala e ritorno.
La grande finestra incornicerà allora uno spettacolare scenario fatto di neve, di boschi di larici dorati e in alto picchi rocciosi e ghiacciai perenni.
Ci sono poi tavoli fantastici, più che tavoli, visioni di tavoli, a volte surreali, altre volte simili a certi dipinti fiamminghi col fondale nero come la pece e gli oggetti semi avvolti dall’oscurità. Su questi tavoli vedo:
Monete d’oro, grossi dobloni ammassati sopra ad una teglia di metallo arrugginita. Una carta geografica e una comoda sedia con seduta e braccioli imbottiti e ricoperti di velluto rosso. Frasche di palma o forse sono alghe. Su questo letto vegetale sono appoggiati dei pesci, un grosso luccio e delle trote appena pescate. C’è anche un fucile di precisione con cannocchiale, una bottiglia di vino e dei bicchieri. Un uomo con la barba bianca dal cappello color sabbia, racconta in inglese storie di leggendarie catture. Una colata di polenta dorata e calda. Il tavolo è rustico, con un grande cassetto. Una lampada illumina il centro, lasciando una grande oscurità intorno.
In quest’altro c’è un busto di Napoleone molto grande e mappe antiche, aperte e una lente di ingrandimento. Nella penombra riconosco la pelata di Rol che mi sorride benevolo.
Questo invece è un tavolo fatto di terra in fondo a un fosso, semi coperto da una stuoia di vimini. Sopra di esso ci sono ciotole a avanzi di un pasto frugale. Il tavolo funge anche da barella per un uomo anziano. Da una sottile feritoia si possono osservare dei soldati che invadono e saccheggiano il villaggio.
Qui sopra vedo una zucca e altre verdure e un asse per tagliarle. E una bottiglia di vino. Una lampada a petrolio e dei limoni. Un grosso vaso con dei girasoli, un tascapane buttato lì. Un vecchio giornale. C’è qualcosa avvolto nel giornale ma non si capisce cosa.
Un grosso seme, come una noce di cocco, peloso e marrone con la buccia semi aperta. Si intravede il frutto che è d’oro e c’è della sabbia. Sabbia del deserto.
Bottiglie e una candela fissata su un candelabro di peltro. Un teschio umano. Un vaso con dei fiori freschi arancioni, un pezzo di pelliccia di leopardo, guanti da giardinaggio, delle tenaglie, un uovo.
Una grande ninfea bianca che si muove e diventa un ripetitore di onde magnetiche.
Sullo sfondo un torrente impetuoso pieno di salmoni e ragazze con capelli biondi lunghi che nuotano insieme cercando di risalire la corrente.
Piatti di peltro, un gatto nero che guarda tutti e miagola. Fiori di artemisia freschi, appena recisi, buttati a casaccio sul tavolo.
Ci sono i resti di un graffito inciso direttamente nel legno con l’immagine di Winnie the Pooh, poi una vecchia macchina fotografica nera e petali di rosa sparsi.
Il trofeo di una testa di cervo maschio e dei sacchi di tela bianchi pieni di molluschi viola vivi che si muovono. Un mandolino. Spighe di grano.
Due cavalli bianchi in fuga, cassette della posta numerate.
Mazzette di banconote, un cappello rosso da capo stazione, un paio di stivali da cavallo in cuoio, dolcetti di marzapane, un orologio da tasca, un telefono militare da campo, mozziconi di sigaretta in un piattino decorato con diamanti. Un pappagallo rosso e verde.
Il plastico di un paesaggio montano con creste realizzate con lastre di metallo spruzzate con vernice argentata.
Un modellino di aeroplano, fiori secchi. Un paio di scarpe da ginnastica.
Vasi di miele di varie misure, aperti.
Cilindri di vetro e in ogni cilindro un dipinto antico. Il ritratto di un gentiluomo con cappello con piuma, tutto nero. Baffetti e pizzetto, occhi scuri che scrutano l’osservatore. Una candela accesa. Un binocolo.
Un reduce militare con barba e capelli bianchi. Un paio di stampelle.
C’è una affascinante storia giapponese che mi è stata raccontata dall’amica Akira.
Si svolge a Kyoto in una sera d’inverno. Un gruppo di persone viene invitato a cena. Tutto è curato nei minimi particolari, per imbandire la tavola vengono tirate fuori dall’armadio le ceramiche più preziose. Il cibo è freschissimo e riflette la stagione in corso. Anche la scelta della disposizione dei posti non è casuale ma frutto di una regia meditata e sapiente in modo che al piacere del cibo si affianchi la gioia di una conversazione tra persone con caratteri o interessi affini. Tutto si svolgerà all’insegna dell’armonia e della bellezza.
Congedati gli ospiti, i padroni di casa ritorneranno alla tavola ma non faranno quello che a noi verrebbe di fare, sparecchiare, pulire, mettere via, no niente di tutto questo, bensì contemplano ciò è rimasto, ricordano amabilmente ogni ospite guardando come ha lasciato il suo posto, le macchie sulla tovaglia, il rossetto sulla ceramica, le bacchette spaiate, il tovagliolo ripiegato o meno.
Invece di un brusco ripristino dell’ordine godono il piacere di indugiare nel ricordo dei cari ospiti e nel valore della loro presenza. Assaporando l’energia diffusa durante l’incontro, come una musica che piano piano va a scemare fino a dissolversi.