Oggi ho finito tardi ma, prima del solito. Mi sono ritrovata con una cliente parlante e una in attesa, ormai in serata. Sono quasi le diciannove quando entro in casa.
Non c’è nessuno. Neanche Billie. Ho poggiato la sansevieria, appena comprata, già nel vaso di terracotta, in mezzo al tavolo tondo del salotto, sfilato le scarpe, tolto lo zaino dalle spalle, la tracolla della borsa, sbottonato il jeans. Ho pulito la pipì non centrata sulla traversina. Ho raccolto l’accappatoio di Madison sul gabinetto, il costume di John dal pavimento della camera da letto. Panni sparsi. Ho recuperato lo stendino dal balcone e il pareo asciutto dai fili. Ho chiuso la busta dell’insalata lasciata aperta. Ho guardato la bottiglia di Montepulciano del supermercato, di poco consumata e tappata ma, ho rimandato. Ho socchiuso il balcone dove era caduta la zanzariera e rassettato i letti. Ho staccato la presa di Alexa, poggiata sul lavabo, musica di qualche doccia. Mi sono spogliata e ho provato a rilassarmi sul letto. Mi sono alzata e ho preso un cornetto dal congelatore.
È raro che non ci sia nessuno. Neanche il cane. Ho pensato che ero molto indietro con gli articoli, che avevano interrotto le pubblicazioni, che dovevo studiare per il Parlamento, consegnare la traduzione per l’agenzia, scrivere i preventivi e ho continuato a mangiare il gelato, pensando al vino.
Come scrivo che sono passata da un lutto all’altro, da una malattia all’altra, che la morte mi ha incontrata troppo spesso in questi ultimi mesi, che non ho fatto in tempo ad asciugarmi da un dolore che è arrivato il prossimo e non ho più saputo per quale piangere e allora mi sono trovata a piangere, spesso, all’improvviso, come una bambina, a singhiozzi, senza sapere perché. Tra la gente, per strada, a lavoro, con gli amici. Per quel tutto che non aveva più forma, volto, nome. Per lei, che è andata via senza preavviso.
A volte, un po' sollevata nel farlo, nel mostrarmi fragile a chi ne dubitava, sottolineando un dolore nascosto con la distrazione. Perché sono fallibile, sono debole, come tutti. Perché anche se sono dura, la vita mi manipola. Mi sono seduta a pranzi di lavoro, saltandone altri. Sono stata antipatica, insopportabile, capricciosa. Mi sono esposta volutamente per non avere rotture di coglioni, per dire, guardami e ora lasciami stare. Soffrendo in ogni istante in cui non mi sono sentita completamente libera, di andare, di restare, di essere. E allora mi sono impuntata come un mulo le cui ragioni sembrano incomprensibili ma, lui sa.
E per vederli ancora una volta, ho trasferito il loro matrimonio da una pellicola super 8 al digitale. Sette minuti di una storia. È diverso da come verrebbe rappresentato ora. Le persone hanno le braccia incrociate e sembrano poco felici in chiesa. Nessuno si sforza di compiacere la luce della telecamera. Lei è giovanissima. Ha ventitré anni ed è magra, in un vestito semplice ma, molto interessante. Lui ne ha ventotto ed è uno spillo. Lo so che odia le riprese, eppure, si è prestato. È strano vederli muoversi in un tempo in cui io ero lontana e irrealizzata. C’è qualche scena, breve, a Sant’Antonio a Posillipo e poi al ristorante, la sera. Sfilano per la telecamera alcune persone. Donne sorridenti e ben agghindate. Simpatici cappelli a falde larghe, piantati sulla testa anche se è buio, dal cui contorno emergono grossi sorrisi.
Riconosco qualche parente, qualche zia e zio, i miei nonni. Vestiti colorati e spalle scoperte. Mi piacerebbe capire di più di quello che provavano ma, ho solo sette minuti senza audio. Vedo il labiale e qualche smorfia, stanchezza, nervosismo o emozione. Vedo mio padre che per qualche secondo è spiritoso e mia madre che lo lascia fare, appena. La torta è a più piani ma, sottile, come se ci fosse troppo spazio nel mezzo. Ho la coppietta di omini della cima. Alla fine, lui è sudato ma, lei ancora impeccabile con i fiori ad un lato dei capelli. Ho il vestito.
Alexa trasmette su richiesta Via del campo e la voce di De André riempie la stanza, come quanto ero bambina ma, poi parte con “altri brani simili” che non mi piacciono. Penso a ieri, a Praiano e Amalfi, agli ultimi eventi assurdi. A quanto tutto sia incredibile.
Il pavimento di marmo è opaco e macchiato. Non lo abbiamo mai lucidato. Il proprietario ha cercato di invogliarci invano, offrendoci la lucidatrice rifiutata. Certo sarebbe bello se ne avessi cura. Io, io che vorrei un micro-cemento senza fughe, color sabbia. Io che vorrei un openspace minimalista, contemporaneo ma, con vecchi pezzi di storie che non necessariamente conosco e mi piacerebbe immaginare, mattoni, legno.
In questo periodo ho sviluppato molte dipendenze. La prima, un desiderio incolmabile di solitudine. Sono irritabile e inadeguata. Gli altri mi aiutano a sentirmi peggiore. La mia attuale incompetenza alle relazioni mi confina in uno spazio disabitato, dove non posso fare danni.
Dalla costiera il mare sembra infinito. A Napoli, il golfo lo stringe e non dà quella sensazione di immenso. È difficile sentirsi molto male in costiera ma, non impossibile. La frittura di pesce e il vino fermo bianco della casa sì, rendono l’infelicità complicata. A Praiano, sulla spiaggia, l’ombra arriva presto e Billie se la gode. Una spiaggia fresca, in una calda giornata di giugno. Ci scambiano spesso per stranieri. Ci parlano in inglese. All’inizio eravamo incuriositi, ora siamo abituati.
Dopo il vino, sono la solita me che abbraccia il mondo perché è un posto bello e in dono abbiamo il tempo. Tempo di godere, di piangere, di arrabbiarci, di andare. Il ristorante è piccolo. Uno di due. Andiamo sempre nello stesso. È caro ma, fa parte del gioco-costiera e sono gentili, accoglienti. C’è una lunga tavolata con una troupe televisiva il cui chiasso è tutto sommato abbastanza moderato e coreografico.
La costiera è sempre uno spettacolo. Donne asiatiche con lunghi capelli biondi e visini da bambole. Dalle barche scendono abiti eleganti in tono con l’ambiente. Eppure, tutto sembra allo stesso tempo spartano. Madison non è abituata ai tovaglioli di stoffa ed è infreddolita. Si allontana per prendere la mia felpa adidas che le va perfettamente e in quei pochi minuti gli spiego che essere sola è l’unico modo per tornare ad essere in compagnia, che non posso curarmi degli altri ora, ora che sono orfana, che non capisco quello che provo, che mi sento disorientata, perduta. Sembra capire. Alla fine, sono poche, semplici, parole.
Maddie torna e torno al bicchiere, alla roccia di fronte, al sole calante dietro la montagna, come se tramontasse anche se è ancora presto. Torno al mare, dove troppe volte, proprio a Praiano, mi ha sfiorato la medusa, alle facce dei turisti belli, al maltese seduto un po' più in là, a Billie con il muso sulla base del tavolo, ai giovani che servono, evidentemente in famiglia. Verrebbe voglia di restare o di ordinare almeno altro pesce e altro vino.
Verrebbe voglia di chiudere il laptop, tradire questa mediocrità, essere onesti e non scrivere più. Invece, mentre i Coldplay, mannaggia, partono, mi cade la testa sul cuscino giallo, all’indietro, verso sinistra e sono comoda, un po' meno disperata.
Sarà il bicchiere abbondante di Montepulciano del supermercato, sarà che sono sola e sola non posso fare male a nessuno, sarà che domani mi sembra lontanissimo e questo mi tranquillizza, sarà che tutto quello che devo fare è in un momento che non si è ancora verificato, che non esiste, sarà che non ho freddo, non ho caldo, sarà che riesco a sbuffare quasi come un sospiro, sarà che, anche se mi sento rotta, vedo i pezzi e quando avrò le forze, potrò iniziare a capire come ricostruirmi, diversa.