Mi piace farlo di mattina. Quando tutti dormono o sono già usciti. Nel silenzio della casa. Di rado riesco a cogliere l’ispirazione. Arriva sempre quando sono distante. La scrittura diventa la raccolta di mediocri scarti di emozioni passate.

Quella del 2024 era stata l’estate dei nidi giganti di cicogne, sui tralicci verso la Catalunya, degli avvoltoi della Cantabria in circolo, dei delfini che nuotavano in direzione opposta alla nave diretta a Barcelona, della tartaruga vista dall’oblò, dello scoiattolo rosso di Burgos, del meridiano di Greenwich, intravisto, appena segnalato, buttato lì, come se per l’Amministrazione fosse un’esperienza trascurabile.

Era stata l’estate in cui ero tornata a svuotare la mente, come avevo fatto in passato, ad ogni viaggio. L’estate in cui ero tornata a urlare, entusiasta, alla vista di qualcosa di nuovo ed emozionante, delle lunghissime camminate sfiniti, delle carreggiate annebbiate, percorse a passo d’uomo, con attenzione. Quella in cui avevo riso sino alle lacrime, in cui Madison aveva osato, imparando a giocare a scala quaranta, con la tipica fortuna dei principianti e iniziato a rompere le scatole con la richiesta del primo cellulare.

L’estate fredda del nord della Spagna, della fabada asturiana a Gijon, sapori decisi in palati avidi, del pan flor mantequilla y canela in Galizia, dolce e piccante, dei tori persistenti sulle colline, dei churros caldi, fritti e zuccherini e delle colazioni abbondanti. L’estate delle pale eoliche, della famiglia, di casa a Zaragoza, di aceitunas con anchoa e patatine al gusto di jamón serrano, sul divano guardando Bridgerton. Delle grandi mangiate e delle lunghe chiacchierate tra sorelle, al bar di fronte, gestito dai cinesi del condominio, in zelante affanno.

Di tortillas dal sapore coerente, pan de tomate rinfrescante e tapas y pinchos in quantità variabile, con le loro cañas al lato, di arroz con leche consolatorio, trafitto dalla cialda di zucchero cristallizzato, che mi aveva ricordato le caramelle fatte in casa, in padella, da mio padre, del Kürtőskalács ungherese della plaza Mayor di Burgos, buono e meno dolce di quello che l’aspetto lasciasse presagire, dei platos combinados con uova e patate e tostadas con jamón york o pechuga de pavo, del sorprendente pastel “Carolina” di Bilbao, morbido e croccante, con il cioccolato fondente che si cala dalla cima ripida, precipitando, contro la traccia arancione di un tuorlo d’uovo che ne attraversa l’opposto versante, su un’immacolata meringa, ben montata, a cono rovesciato a spirale, comodamente seduta, a mo’ di Buddha, su un sofà di pasta frolla, di limonate alla menta e papas bravas a El Born.

Era stata l’estate in cui ero ingrassata, anche se il jeans si chiudeva ancora, o forse non esisteva più semplicemente un tono muscolare a sorreggere il peso e la carne prendeva più spazio, come uno slime. Un’estate offerta, da un fondo che non avremmo voluto ricevere ma, di cui avevamo goduto. La prima senza stenti o rinunce. L’estate in cui mi ero vista brutta e vecchia e avevo rinunciato alle foto. L’estate in cui avevo capito perché mia nonna diceva che non voleva più andare in spiaggia, che il costume era una cosa per giovani. L’estate in cui spogliarmi mi era costato un bel po', così come guardarmi allo specchio.

Quella in cui sentivo che la mia presbiopia era peggiorata e portavo gli occhiali anche al supermercato per leggere gli ingredienti. Quella in cui ne avevo trovato un paio molto simili a quelli che indossava mio padre alla guida negli anni Ottanta, non potendo fare a meno di comprali, sottili, rettangolari, con le punte arrotondate e la montatura dorata. L’estate in cui ero partita con due cappelli e tornata con sei, costantemente riparata da qualche visiera, mentre la vite dei Ray-Ban tendeva a svitarsi.

Avevamo attraversato terre aride, secche e il termometro del vecchio camper senza aria condizionata, aveva segnato quasi quarantadue gradi, quando presi dalla spossatezza avevamo trovato un posto dove mangiare ribs e un pulled pork, con una cameriera poco simpatica e stressata pur avendo solo tre tavoli da attendere. Era stata l’estate del benessere e dello shopping. La vedevo sul Passeig de Gràcia scolarsi un batido senza badare al modernismo.

Avevamo mangiato migas con uva al Pilar e paella al Puerto Olimpico. Era stato strano tornare nei luoghi di sempre, potendo provare quello di cui avevo voglia, quando avevo fame. Camminavo sulla rambla e cercavo il vecchio ostello dove avevo dormito a lungo o proseguivo in cerca della casa nei pressi della Sagrada Familia dove avevo vissuto. Mi veniva allora in mente Jairo e l’impatto con le sue riviste pornografiche, sparse un po' ovunque nella stanza, lo sguardo ingenuo di Sasha, le visite di Juanito, sempre innamorato anche se non corrisposto e sempre perfetto nel non farmelo pesare, e una vita passata che mi apparteneva, qualcosa di cui non potevo essere privata. Avrei voluto mangiare da Maoz che a lungo aveva caratterizzato le mie estati in ristrettezza o passare per una Boqueria troppo affollata in un agosto turistico ma, era stata anche l’estate in cui rimandavo, perché da maximizer cercavo inutilmente meglio.

Il nord mi aveva lasciato a bocca aperta con le sue scogliere e i suoi fari. La Spagna l’avevo conosciuta abbastanza ma, in passato, la costa oceanica non mi aveva chiamato, distratta dalla pretesa costante di caldo. Eppure, Bilbao, con il suo Guggenheim, era sempre stata nella lista dei posti da visitare. La sosta camper aveva la vista sulla città illuminata e la pioggia del rientro l’aveva resa, dal finestrone della dinette, accogliente. Una Bilbao a braccia aperte mi fissava, quasi molesta, quasi parlante.

Il camper, poi, aveva concesso, come sempre, la possibilità di vedere tutto. Tutto e tutto quello che c’era in mezzo a quel tutto. Allora spuntavano tratti di terra rossa come bauxite, piccole vette con la testa estremamente rotonda, probabilmente Montserrat, zone desertiche che mi ricordavano a tratti la Rumorosa tra la California e il Messico. Questa Spagna era stata un po' Irlanda, un po' Stati Uniti con l’infinità di fast food americani e le strade larghe, un po' sé.

Era stata l’estate delle azioni coraggiose, della trasparenza. L’estate nella quale pur avendo quarantotto anni, avevo guardato gli anziani e mi ero chiesta cosa mi sarebbe accaduto, tra poi non tanto tempo. Si spingevano con carrelli, attraversando frettolosamente le strisce pedonali al semaforo, braccia ormai esili di pelli slabbrate che circoscrivono chiazze di sangue da urto. Chi aspetterà per me, che completi l’attraversamento. Se ci arriverò, come sarò, come starò, dove vivrò. Sarò sola e povera? Quando incrocio un anziano, sospiro e poi scaccio il pensiero dicendomi “adesso, concentrati su adesso”.

L’estate in cui nessuna foto rendeva giustizia alla realtà.

Era stata l’estate nella quale avevo cercato con tutte le mie forze di fare chiarezza e nella quale avevo raggiunto spaventose conclusioni, caratterizzate da infinita logica, quasi impossibili da non condividere ma, mi ero chiesta se effettivamente praticabili.

Mentre il camper andava, avevo guardato in maniera ossessiva fuori dal finestrino. C’era qualcosa nel vedere gli animali. Non so se per il senso di libertà, l’inaspettato o invidia nel partecipare, per pochi secondi, ad una vita semplice che mi sembrava bellissima. Rapaci imponenti e impavidi, padroni dell’aria nella loro eleganza. Come doveva essere vivere così? Cercavo cervi, stambecchi, accontentandomi di cinghiali o capre. Avevo visto un allevamento di tori neri, ipotizzandone la destinazione. Temevo che distogliere lo sguardo mi avrebbe condotto alla perdita di un’istantanea memorabile. La libertà mi strappava una forma di entusiasmo infantile che mi teneva per giorni.

Il camper ci aveva consentito di vedere cose che non aspettavamo. Dolmen a Coruña o il Faro di Bustos, o Gaudì ad Astorga, vallate profonde, o la chiassosa fiesta di San Lorenzo a Huesca. La stanchezza, i km, a volte ci avevano visto fermarci esausti a dormire tra i surfisti o finire in pueblos senza anime, con assoluto silenzio, tra campi di pannocchie.

Il viaggio era volto al termine e a me sembrava di essere tornata ancora più risoluta di quando ero partita. Erano passate tre settimane ma, a tutti noi sembrava di aver viaggiato per mesi.