La aspetto seduta al tavolino del solito bar. Il barista mi vede e gli anticipo l’ordinazione. Prenderemo due spremute. Non abbiamo molto tempo per parlare. Non mi sfilo il cappotto e il cappello. Ho freddo e questa volta ho scelto la poltrona che circonda il piccolo tavolo rotondo senza stile. La vedo varcare l’ingresso. Ha una treccia. Quando si lega i capelli è perché non è riuscita a fare lo shampoo. Sta bene anche così. Sul bancone poggiano due bicchieri di vetro giallo scuro, lavorato con piccole piramidi che insistono puntando testarde, su un piattino con un cucchiaio dal manico molto lungo. Il barista mi conosce e non si perde in cerimonie per portarli a destinazione. Mi alzo e li poggio davanti a noi. Il succo è acido e ho lo stomaco vuoto. Non lo finirò. Mi passano per la testa alcuni pensieri che non condivido, lasciando sospeso, interrotto il mio stato emotivo, e rifletto attentamente su quanto mi dice. Tiro fuori dalla busta il regalo per il figlio, per poi rimetterlo subito a posto. Commentiamo in quel poco tempo a disposizione le vicende di amici comuni e sommariamente prendiamo accordi per vederci presto. La vedo allontanarsi, andare al suo appuntamento nei pressi del bar.
Cammino. Mi giro e incontro ciò che ospitava lo sguardo di qualcuno. Cavità mi rimproverano la vita. Sto facendo tutto bene? A destra la statua di una Madonna interpretata opulente. Il petto avanza sotto vesti e drappi, guance gonfie sotto una pesante corona sembrano schiacciate da un eccesso invisibile. Più giù la scritta offerte per la grazia.
All’altare la dicitura donazioni per restauro. La cupola cade a pezzi e note riecheggiano a sconforto. È vietata qualunque ripresa. Sfilo il cellulare dalla tasca dei jeans per scrivere. Ai lati della Madonna continuano a fissarmi puttini come mostri. Per cosa mi fissano! Mi invidiano forse perché non sono ancorata, libera di abbandonare quel luogo. Spalle all’altare, dalla porta spalancata, vedo Napoli pesante che si lascia calpestare. Vorrei che mi parlasse attraverso questo canto liturgico che mi asfissia. Eppure, tace e il suo silenzio mi soffoca.
Un condottiero alato stringe una spada. Cosa schiaccia sotto i piedi? Un animale che espone zanne in ghigno di resistenza passiva, vinto. Lo trattiene e mantenendo alta l’arma, l’espressione è rilassata e il pensiero già altrove, la vista distante. È San Michele arcangelo contro Lucifero, già sconfitto dopo la trasformazione in drago. L’addetto mi indica un’altra rappresentazione nell’enorme dipinto che sovrasta la croce. Lì il demonio ha sembianze umane. Un’anziana si avvicina per moneta alla candela e borbotta qualcosa su foto, indicando il mio telefono. Il suo sguardo mi giudica e condanna ingiustamente. Interrompo la spiacevole emozione. Esco.
Un barista mi chiede come va, alzo il pollice sorridendo, sorpassandolo svogliatamente. Sento la sua voce da dietro che intona un “non va tanto bene eh” e mi rendo conto che è uno di quelli che vedono, su irrilevante risposta, sanno. La persona che mi cammina accanto, allora mi guarda e accenna consenso alla replica ricevuta. Vorrei fare spallucce, magari rompermi e crollare, spaccarmi in mille pezzi ma, interrompo.
A casa mi faccio una doccia lunga e bollente. Torna canticchiante, come se il dramma fosse ormai insussistente. So che non è così.
Mentre lo specchio si appanna, lo ricordo. È passato del tempo. Un altro tempo di noi. Ho freddo, entriamo nella stanza e sull’enorme vetrata, tangibile percezione dell’esterno, disegniamo un cuore con le iniziali. Si vedono le luci di Tokyo, un panorama troppo urbano per il mio stato d’animo. Sento la moquette crespa sotto i piedi scalzi. Iniziamo a discutere. L’ambiente è in penombra ed esalta lo skyline notturno, estraneo, accogliente e ostile allo stesso tempo. Ci conosciamo poco. Mi sento sempre più chiusa. Entro in bagno e mi rannicchio vestita nella vasca, con una pancia di tre mesi di compagnia, responsabilità, che cresce. La testa cade sulle ginocchia. Mi perdo in lacrime e cerco una via d’uscita, interrompendo l’emozione. Tokyo non ci aspetta. Inizia a piovere e presto sarà Capodanno. Vorrei essere raccolta dalla mano di un gigante. Mi riprendo e vado avanti. Alla reception ci consegnano cupole trasparenti per proteggerci dall’acqua e ci incamminiamo verso qualcosa da mangiare. I noodles della stazione sono buoni e li tiro su con sollievo. Il cibo scalda. Alle spalle dalle piccole, corte tende intravedo scorrere la folla ma, dove sono tutto è fermo, calmo. Lo sgabello è comodo. Le persone bevono la loro zuppa in silenzio, nella sacralità del pasto. Mi sento bene. Lasceremo presto Tokyo.